L’ULTIMO BARLUME IMPERIALE
Cerco di ingannare l’attesa, ma non trovo nessun diversivo
che possa essermi utile.
Non c’è niente di peggio di dover razionalizzare il fatto di morire
a breve.
Non so quando, di preciso.
So che morirò, e anche molto presto.
La mia regina ne è cosciente, è stata lei a consigliarmi di
mettere a posto le mie cose, prima che sia tutto concluso. Ma quali, mi chiedo?
Ho perso tutto. Sono un esule e un prigioniero, come lei.
La vita a volte è strana; un suddito che muore assieme alla
sua signora, nello stesso modo, nello stesso giorno e senza nulla. Ora siamo
davvero uguali, nella sfortuna e nella sofferenza. E anche nella solitudine di
un mondo in rovina, dove noi evidentemente non abbiamo fatto abbastanza per
garantire un futuro stabile a una realtà fragile.
Comunque, era tutto già compromesso da tempo. Forse questo
calvario è qualcosa di semplicemente inevitabile.
La mia regina si sta ancora lavando, per lei questo sarà
l’ultimo bagno, nella speranza che il suo corpo sia pulito al momento del
decesso. Sa bene che nessuno si curerà di esso. Nessuno lo ricomporrà.
Amalasunta, la sovrana dei Goti e dei Romani, si accinge ad
affrontare la polvere con la sua solita risolutezza.
In questo momento di vigorosa tensione, rifuggo nei ricordi,
al fine di salvare la mia razionalità.
C’è stato un tempo in
cui io e la mia regina siamo stati amici. Erano gli anni spensierati
dell’infanzia, quando presso la grande corte di Ravenna attendavamo
pazientemente che i nostri genitori concludessero quelle faccende che li
tenevano a lungo incatenati nel palazzo reale.
Noi ancora non capivamo
nemmeno quanto fossero importanti le loro decisioni, per il futuro nostro e del
Regno. Io e Amalasunta eravamo solo due bambini coetanei, lei figlia di un re,
io figlio di uno dei principali consiglieri del sovrano.
Ricordo quando
giocavamo per intere giornate dentro al sontuoso palazzo reale, dove molti
ambienti ci erano preclusi, ma i corridoi no. Scorrazzavamo ovunque, ridendo e
gridando, con nessuno che ci rimproverava.
Ricordo anche la volta
in cui, dopo una lunga corsa, finii per sbattere contro un’anfora appena giunta
dall’Oriente e la mandai in frantumi assieme al suo carico di prezioso olio.
Era come oro, per la provata corte.
Non furono le balie a
sgridarmi, bensì mio padre, che mi rifilò un pubblico scapaccione.
Amalasunta e gli altri
bambini figli dei patrizi si erano volatilizzati, ma poi lei era tornata,
trovandomi in lacrime presso la scena del mio piccolo reato.
“Flavio”, mi aveva
detto, sedendosi a terra e a mio fianco, “ho chiesto a mio padre di non
arrabbiarsi anche lui. Stavamo solo giocando”.
Io mi ero limitato ad
annuire.
Mio padre mi aveva
spiegato tante volte che i generi alimentari erano una delle cose più preziose
per un Regno come il nostro, e nulla andava sprecato, tanto meno elementi
preziosi come gli oli, le spezie e ciò che veniva da molto lontano, al di là
del mare. Io avevo infranto uno dei suoi comandamenti e ne avevo pagato le
conseguenze, anzi, credevo di non averle ancora pagate tutte.
Notando che non mi
consolavo più di tanto, la bambina mi aveva abbracciato con il suo modo di fare
goffo e infantile; un abbraccio che, però, mi rimase impresso a lungo e che
ricordo ancora. Mi rincuorò molto, quel gesto.
Presto tornammo a
scorrazzare ovunque, mio padre si dimenticò del mio guaio e i nostri anni
migliori si svolsero al meglio.
Che bella che era,
Amalasunta! Già da ragazzini, quando avevamo iniziato a studiare e ci erano
stati affidati importanti precettori, lei era la luce all’interno di un mondo
cupo e in rovina.
Amalasunta era
biondissima, di un biondo puro; di un colore barbaro, come quegli occhi azzurri
e profondi. Alta e magra, sempre vestita con costose vesti provenienti da
Costantinopoli. Era l’unica, tra noi ragazzi della corte, a potersi permettere
tale lusso.
D’altronde era la
figlia del re, l’unica legittima.
Nei momenti liberi mi
divertivo a osservarla, anche da lontano. Lei era più impegnata di un figlio di
un consigliere, e lo studio era il doppio rispetto a quello che veniva inflitto
a me. La vedevo sempre sui libri, o seguita dalle sue ancelle, che si
prendevano cura dei suoi splendidi capelli e del suo corpo.
Era quella che gli
antichi definivano una Musa, almeno per me.
Sorrideva spesso,
Amalasunta; il suo viso rotondeggiante non si assomigliava molto a quello del
padre, forse l’aveva ereditato dalla madre, la sorella di Clodoveo re dei
Franchi. Non aveva mai conosciuto quella madre morta troppo presto.
Era comunque un volto
bellissimo e raggiante, sempre sorridente e circondato da quell’aureola di
capelli biondi, divini.
In quegli anni fece
strage di cuori, tra i ragazzi della corte. Noi tutti, io per primo, sapevamo
che Amalasunta un giorno si sarebbe seduta sul trono, e in quanto tale non era
alla nostra portata.
Nonostante i suoi
sorrisi e la gentilezza che ancora ci riservava quando ci incontrava o durante
le sempre più rare volte che conversava con noi, era destinata a qualcosa di
più grande. A un progetto imponente.
Suo padre, l’illustre e
illuminato Teodorico, doveva averne più di uno nel cassetto.
Noi giovanissimi, con i
genitori sempre risucchiati dalla burocrazia o dagli impegni di palazzo, presto
ci lasciammo assorbire a nostra volta dal mondo implacabile degli adulti, che
ci obbligava allo studio e all’impegno in modo implacabile.
La mia regina ora è molto diversa da quella che ho appena
ricordato. Una volta sorrideva, ora non più.
È da tanto tempo, forse diversi anni, che sorride solo
raramente. Della ragazzina spensierata non è rimasto nulla; il suo animo è
stato logorato e straziato dalle insidie dell’eredità lasciatale dal padre,
quel Regno che lei non aveva mai desiderato.
Eppure, quanto aveva lottato per lasciarlo ai suoi figli! E
quanto aveva fatto suo padre, per lasciarlo pieno di fasti alla sua progenie…
Teodorico il Grande,
come ormai lo chiamavano a corte per elogiarlo, era un uomo anziano e austero. Non
l’ho mai visto giovane, neppure quando ero bambino.
Ricordo quando cominciò
a indire spettacoli e opere pubbliche, sul finire del periodo del suo saldo
governo. Avevo sedici anni, potevo seguire mio padre a visionare le opere
restaurate, quei grandi acquedotti che i nostri antenati avevano fatto erigere
e che l’incuria aveva rovinato. Ora funzionava tutto.
Nelle principali città
del Regno c’era tempo per festeggiare e l’antica regola del panem et circenses
era ben rispettata. Il popolo latino, nonostante tutto, sembrava felice.
“Guarda, figlio mio,
come rinascono le campagne”, aveva affermato una volta mio padre, scortandomi
al di là delle sicure mura di Ravenna. Molte porzioni di terreno pianeggiante
stavano venendo bonificate e le foreste abbattute. Le strade principali erano
state lastricate di nuovo, c’era lavoro e una parvenza di benessere.
“Il nostro sovrano è un
Grande”, era tornato a proferire il mio genitore.
In quegli anni andavamo
molto d’accordo, forse avevamo capito che per noi non c’era più tanto tempo. Mio
padre sarebbe venuto a mancare da lì a poco, tuttavia non potevo saperlo.
Ero come il suo cane da
caccia, dovevo essere istruito e preparato per ricoprire a mia volta una
qualche importante carica. Ahimè, eravamo sempre noi, discendenti degli ultimi
patrizi, a poterci permettere gli studi necessari per avere accesso a un
qualche ruolo di prestigio.
“Mi piace guardare
questa gente che lavora”, avevo detto a bassa voce, lasciandomi sfuggire quella
frase impropria. Con mio padre era importante tacere e apprendere, ascoltare e
obbedire.
Tuttavia non ero
affatto abituato a uscire da Ravenna e da quella sua statica realtà. Ero sempre
vissuto in una gabbia dorata, e osservare tutto il fermento che scuoteva le
campagne mi aveva donato curiosità e tanta voglia di assistere a quello che
stava venendo fatto per dissodare le terre e renderle di nuovo fertili.
Il mio genitore, per
fortuna, quella volta non se la prese.
“Qui si estendeva una
foresta, e a tratti delle paludi. Quando ero un ragazzo come te, mio padre mi
portava fuori da Ravenna e mi mostrava come andare a caccia con l’arco.
Dovevamo sempre stare attenti, perché i fiumi ormai erano senza argini e il
pantano intrappolava persino i cavalli, durante l’inverno. Ma adesso, guarda!
Che splendore”, e spiegandomi queste cose, aveva allargato le braccia con
orgoglio.
Adesso non è più così.
Questi sono ricordi splendidi che restano sepolti sotto un
cospicuo strato di polvere.
Sento il rumore dell’acqua, mentre le due ancelle rimaste
fedeli alla mia signora si prendono cura della sua illustre persona. È acqua
del lago, non è acqua pulita portata dagli acquedotti. È acqua stagnante.
Affondo il viso tra i palmi delle mani, mentre la mia barba
ingrigita e pungente produce un leggero solletico ai polpastrelli.
La notizia che
Amalasunta si sarebbe sposata giunse così, come un fulmine a ciel sereno. La
ragazza era nel fiore della sua giovinezza, e il padre sentiva di aver
aspettato anche troppo.
Il mio genitore mi
aveva riferito subito quella che doveva essere una lieta novella, ma che mi
aveva mortificato. Ah, dannati sogni infantili! Immaginavo che anche i tanti
altri giovani ricchi che frequentavano la corte ci fossero rimasti male.
Quando osservavo il mio
riflesso, potevo notare solo quel viso tondo e pasciuto, ben rasato e con una
folta e corta chioma scura. Anche la mia pelle non aveva nulla in comune con
quella della principessa. Ed ero pure un Romano, non un Goto.
La consapevolezza di
non essere nessuno mi aveva travolto più della notizia del matrimonio
imminente, facendomi capire che era ora di smettere di sognare e di diventare
uomo.
Per ripicca, avevo
detto a mio padre che anche io desideravo sposarmi. Che scegliesse pure una
figlia di un qualche suo conoscente benestante, a me andava benissimo chiunque.
Egli, che forse aveva
intuito tutto, aveva smorzato la mia invidia giovanile con un mezzo sorriso,
dicendomi che per me era troppo presto. Avevo diciassette anni, l’età giusta
per maritare una figlia, ma per un ragazzo era meglio aspettare ancora un po’.
Passato il nervosismo
iniziale, era sorta una smania infernale di saperne di più a riguardo di questa
faccenda. Chi era il fortunato che avrebbe avuto la sua mano? Avevo bisogno di
parlare alla mia amica di infanzia, anche se sapevo che sarebbe stato
difficile.
A corte non avevo
amici. Con il passare degli anni, le scorrazzate avevano dapprima lasciato il
posto agli studi, e questi infine avevano preparato il terreno per seguire le
orme dei padri. Per me era stato così, e anche per gli altri ragazzi e per la
principessa.
Nei giorni successivi a
quella drastica notizia, non avevo fatto altro che restarmene appostato nei
punti strategici dove Amalasunta amava trascorrere il poco tempo libero che
aveva a disposizione. La piccola biblioteca, i vasti corridoi, il bel giardino
interno al palazzo ove le palme provenienti da Costantinopoli innalzavano le
loro fronde verso il cielo terso e limpido.
Ci vollero però diversi
appostamenti prima di riuscire a intercettarla. Riuscii a beccarla proprio
mentre si stava dirigendo verso il giardino.
“Mia principessa”,
l’avevo salutata, fingendo di essere lì per caso, con il desiderio di andare a
mia volta a passeggiare.
Amalasunta mi aveva
sorriso, mostrandomi i suoi denti ancora bianchi e sani.
“Flavio, mio caro
amico! Non essere troppo formale”, si era limitata ad affermare, un po’
timidamente.
“Sarai la mia regina,
un giorno. Devo abituarmi”, avevo risposto con simpatica cordialità.
“Non sarò mai la tua
regina(1), lo sai bene”, aveva però aggiunto lei, sorprendendomi. Diedi una
rapida occhiata al suo viso bellissimo e dalla pelle candida, eppure molto
serio.
“Per me, lo sarai. Sei
più romana di tutte le ragazze latine che ho conosciuto”, mi ero limitato ad
affermare. E ancora a colpirmi fu quel suo rapido svolazzare di abiti
orientali, finemente preparati da sarte egizie e greche.
Amalasunta no, non era
una barbara. Non era come mi immaginavo io i barbari, e per fortuna che presso
la corte non ce n’erano molti, a parte le guardie scelte dal re. Esse però
vestivano con ordine e parlavano bene il latino. Non erano esseri sporchi e
immondi, giunti dagli inferi per piegare il fiero popolo latino alle loro
ideologie sregolate e perverse.
Lei parlava
correttamente tre lingue. Il greco, il latino e il gotico, lingua dei suoi
antenati. Era acculturata e astuta, bella e curata; una principessa figlia di
un popolo barbaro, ma forgiata nell’animo dalla cultura romana.
Questo, un giorno, le
sarebbe costato il rammarico di molti.
Ricordo che Amalasunta
mi aveva fissato con orgoglio. Sapeva che aveva il mio supporto.
“Io presto mi sposerò,
come tuo padre ti avrà di certo detto”, aveva proseguito, “egli non sarà
Romano, bensì Goto”.
Me l’aspettavo, e avevo
annuito.
“Sai chi è?”, mi ero
limitato a chiedere.
“Lo so”, aveva annuito,
piano. Non appariva felice.
A seguito del mio
silenzio, si era limitata ad aggiungere qualcosa.
“Lui è un cugino,
appartiene alla mia stessa famiglia reale. Molto presto giungerà
dall’Hispania”, aveva concluso. Uno straniero, un barbaro, un Goto come lei.
Per altro, proveniente da quelle lontane terre che un tempo erano state
rinomate province imperiali.
Il nostro dialogo finì
bruscamente, poiché interrotto da una servetta, che con sé portava una convocazione
urgente.
“Mio padre mi attente,
Flavio. Che questa giornata ti sia radiosa”, aveva sancito con amarezza, per
poi donarmi un candido sorriso.
Sì, ancora sapeva
sorridere… la vita e le sue tristi regole non avevano ancora piegato il suo
animo puro e casto…
Quel ragazzo era giunto, alla fine. Il suo nome era Eutarico,
e portava con sé poche cose, se non una piccola scorta armata e qualche
frammento d’oro, razziato chissà dove.
Apparteneva alla stirpe degli Amali(2) ed era un arrogante.
La mia regina ha cominciato a perdere per sempre la capacità
di sorridere anche grazie a lui.
Ancora adesso, che è donna ormai matura e che queste sono
vicende che ormai appartengono a un passato lontano, non gradisce che questi
giorni le vengano ricordati.
Il Visigoto era alto,
biondo, giovane. Un perfetto Germano.
Se l’imponente
Teodorico portava il viso ben rasato, a parte i baffi sotto le narici in onore
della tradizione dei Goti, Eutarico aveva la barba lunga e un aspetto leggermente
trasandato. Di certo non Romano.
Era sbarcato a Roma
solo qualche settimana dopo l’annuncio del matrimonio, e in qualche giorno
aveva raggiunto la corte di Ravenna, dove la futura regina degli Ostrogoti
l’attendeva. E noi eravamo tutti con lei; ricordo bene quel giorno di sole,
quando il giovane aveva fatto il suo ingresso nella capitale, protetto da una
ventina di guardie personali giunte con lui dall’Hispania.
Il popolo e tutti i
funzionari della corte erano in trepidante attesa, di fronte al palazzo del re.
Le strade erano
affollate e per far passare il principe erano servite molte randellate. Tutti
volevano vedere e toccare il fortunato che avrebbe sposato la bellissima
Amalasunta.
Io ero rimasto in
silenzio a osservare dapprima la sua figura lontana, poi sempre più vicina,
fintanto che non era giunto al cospetto del palazzo reale. Solo allora
Teodorico il Grande aveva fatto spalancare le sontuose porte della sua dimora,
ed era stato portato di fronte al ragazzo.
Adagiato su una lettiga
e vestito come il più nobile dei patrizi, il sovrano barbaro appariva vigoroso
e dall’aria fiera nonostante l’età avanzata.
Eutarico allora aveva
fatto prontamente l’atto di sottomissione, curvando un ginocchio e adagiando le
labbra sull’anello che l’anziano e saggio re gli aveva posto in silenzio. Aveva
baciato le effigie reali, il sigillo che veniva impresso su ognuna delle missive
che uscivano dal palazzo del potere.
Ora che aveva accettato
il sovrano e le sue regole, Eutarico era un componente della famiglia reale e
poté vedere per la prima volta la giovane Amalasunta, comparsa alle spalle del
padre.
A piedi, la giovane era
seguita dalle ancelle, che l’attorniavano e si prendevano costantemente cura di
lei e della sua figura. Ricordo che la mia regale amica non aveva sorriso,
quando aveva visto colui con cui presto si sarebbe sposata.
Conclusi quei
primissimi istanti in cui i ragazzi si erano osservati e conosciuti in
pubblico, la frequentazione era continuata tra le mura del palazzo di
Teodorico. Eutarico gironzolava seguito da alcune delle sue guardie,
opportunamente disarmate, e Amalasunta non veniva mai lasciata sola dalle sue
ancelle.
Non rividi tanto spesso
la mia amica d’infanzia, da quel momento in poi. Le volte in cui la scorgevo
era sempre accompagnata e cercava di evitare ogni contatto che non fosse
rivolto al suo promesso sposo. Questa doveva essere una disposizione di suo
padre, poiché il mio stesso genitore mi avvertì di non rivolgere più la parola
alla principessa, poiché tra poco sarebbe diventata donna e moglie, ed io non
avevo il diritto né il rango per poterle parlare.
Notando la mia
malcelata ansia e la mia frustrazione, mio padre mi aveva rivolto un sorriso
amaro.
“Neanche lei è felice
di questa unione. Eutarico parla il gotico, ma in modo diverso da lei. Non si
capiscono e la ragazza piange in continuazione, poiché avrebbe tanto desiderato
sposarsi con un uomo che parlasse il latino”, mi aveva spiegato a bassa voce.
Tra i vari consiglieri circolavano tutti i pettegolezzi più intimi del palazzo,
ma parlarne era sempre un rischio.
Fu così che i due
giovani Goti convogliarono a nozze, immersi in truci pensieri.
Eutarico e Amalsunta si
sposarono a Roma nel mese successivo, prima che la buona stagione lasciasse il
passo al gelido autunno.
Eutarico era contento,
per lui in Hispania non c’era prospettiva di raggiungere il titolo di re,
soprattutto di una regione tanto grande quanto la penisola italiana, la
Dalmazia e la Gallia meridionale. Per Amalasunta, invece, il matrimonio non era
stato un buon affare, ma solo una costrizione. Il giovane consorte era l’unico
discendente maschio giovane e puro degli Amali, e in quanto tale lei non
avrebbe mai potuto sposare nessun altro, stando alle leggi dei suoi antenati.
Il loro matrimonio fu
un rito riservato solo ai Goti ariani, e nessun Romano poté parteciparvi.
Nonostante tutto,
l’intera corte di Ravenna in quei giorni aveva accompagnato la famiglia reale a
Roma, in attesa del riconoscimento formale della loro unione da parte del
Senato.
La mia prima volta
nella capitale dei miei antenati latini fu un’esperienza ambigua, tra luci e
ombre.
Quando il Senato ebbe
ratificato il matrimonio e la celebrazione ariana e gota fu conclusa, ebbero
inizio i giorni pieni di festeggiamenti… con l’anfiteatro che tornò allo
splendore di un tempo ormai andato perduto.
Rimembro con facilità
disarmante i momenti concitati e quasi epici del lungo corteo fino all’immensa
struttura del Colosseo, attraverso la timida folla romana, meno estroversa di
quella ravennate. La vecchia capitale non vedeva tali fasti da decenni e nulla
era pronto per ospitarli.
Il finto bagliore che
Teodorico aveva tentato di imprimere alla città era solo un barlume fittizio,
che scompariva in fretta al cospetto di strade disastrate, abitazioni
abbandonate, edifici pubblici e opere d’arte in rovina.
“Roma ancora soffre per
i giorni dei Vandali”, aveva sancito mio padre, sempre diretto e di poche
parole.
Aveva ragione. Il mio
precettore mi aveva narrato dei saccheggi e della devastazione che quei barbari
avevano compiuto contro l’antica capitale, e dopo tanti anni ne mostrava ancora
gli evidenti segni. L’incuria successiva, poi, aveva fatto il resto.
All’anfiteatro, la più
grande struttura che io avessi mai visto, ci ritrovammo pressati tra la folla
urlante dei Goti e quella calma e silenziosa dei Romani, in maggioranza. La
struttura era danneggiata in più punti e alcuni crolli avevano reso inagibili
alcune parti, ma la gente non aveva timore. Era pur sempre un giorno di festa.
Io e mio padre
scorgemmo il re, la figlia e il genero in una posizione centrale delle vaste
gradinate, coperti da un drappo color porpora. Erano al posto degli imperatori.
L’inizio dei giochi, le
grida… erano presenti dei gladiatori, ma erano tutti avanzi di galera. Molti
non sapevano nemmeno tenere in mano un’arma, erano magri e privi di forze.
Dopo i primi scontri
tra uomini, entrarono in scena anche alcuni animali, tra lo stupore generale.
All’inizio apparve un leone, e la folla gridò a squarciagola; grido che però
perse vigore quando la creatura magra e spelacchiata cadde a terra priva di forze,
ancora prima di combattere.
Dopo neanche mezza
giornata dall’inizio dei festeggiamenti ufficiali, i Romani erano già stanchi e
assistevano ai giochi nell’arena senza alcun interesse, evidentemente delusi.
Anche mio padre lo era, proprio come me e tutti i suoi conoscenti.
Al contrario, i Goti
erano festosi ed esterrefatti, proprio come bambini.
“Hanno la mente
semplice, come tutti i barbari”, sghignazzò uno degli amici di mio padre,
quando ci scorse. Poi, scuotendo il capo, si mise a parlottare con un altro
consigliere, disinteressandosi a tutto.
Io mi volsi verso mio
padre, anche lui stanco, annoiato e nervoso.
“Non vi sta piacendo?”,
domandai timidamente. Egli rise.
“Figlio mio, i nostri
antenati facevano combattere fiere splendide e campioni allenati, non cadaveri.
Tutto questo non è nulla in confronto a un passato non troppo remoto”, rispose
con semplicità.
Riconobbi che era vero,
anche se certi eventi potevo solo immaginarli. Io i leoni non li avevo mai
visti, quindi ero felice di averne intravisto almeno uno, seppur ridotto male.
Notai che molti dei
presenti si facevano il segno della croce ogni volta che un guerriero veniva
abbattuto sulla polvere dell’arena… era anche una questione religiosa, e quel
rito pagano e abbandonato da quasi un secolo non rispecchiava più la nostra
mentalità. Non eravamo più abituati a tutto ciò; al contrario, i Goti volevano
vivere a ogni costo un giorno da Romani, un tempo ricchi e forti padroni di un
Impero sterminato.
Giano. E’ lui, con il suo ruvido tocco da guerriero, a
distogliermi da tutti questi ricordi da persona ormai anziana.
“Stai pregando anche tu, fratello?”, mi chiede, dopo avermi stretto
una spalla con fare amichevole.
“Sto pregando per la mia anima, sì”, gli mento. So che è
molto religioso. Non voglio ferirlo.
Non ho idea di dove sia stato finora, probabilmente in
giardino. O in riva al lago, come suo solito.
Che personaggio, il nostro Giano; un barbaro che ha scelto la
redenzione, in bilico tra arianesimo e cattolicesimo. Un uomo che da giovane ha
scelto di abbandonare la vita del peccato per dedicarsi alla Fede e alla sua
regina.
La nostra stessa regina. Noi abbiamo tanto amato la sua
figura da scegliere di morire con lei, e adesso aspettiamo che il suo corpo
venga asciugato e preparato per l’ultima, drammatica tappa del nostro percorso.
Gli anni dello splendore
e dei fasti si esaurirono velocemente.
Eutarico divenne in
fretta un violento e un prepotente, in contrasto con la consorte anche in
pubblico. La loro unione fu benedetta solo dalla nascita dell’erede, Atalarico,
e da Matasunta, la secondogenita.
Eutarico poi morì
sputando sangue, durante una di quelle pestilenze dilaganti che provocavano
ogni anno tantissimi morti. Anche lui in fondo era un mortale, nonostante
avesse cominciato a comportarsi come un semidio.
Morì anche mio padre,
sempre soffocato da quel morbo che provocava la tosse fino allo sfinimento
delle membra e degli umori. Io, rimasto solo, ereditai la sua carica di
consigliere.
Ma… era l’inizio della
fine.
Anche Teodorico il
Grande iniziò ad avere problemi sempre più seri, di salute fisica e mentale.
Non si vedeva più in pubblico e non partecipava più a nessuna iniziativa o
assemblea del suo popolo. Gestiva le redini del Regno da solo, isolato e
infermo nella sua stanza, e da lì aveva sentenziato la morte di alcuni tra i
più importanti senatori, gettando così nello sgomento e nella rabbia la
popolazione romana e cattolica.
I suoi sudditi Goti
erano invece galvanizzati da questa parentesi che aveva reso il vecchio re
molto vulnerabile alla causa barbarica, mandandolo contro i principi di pace
che aveva perseguito durante il corso del suo lungo governo. Era diventato un
despota infermo, irascibile, solitario.
Teodorico il Grande
morì nel suo letto, ad assisterlo solo la figlia e i due nipotini piccoli.
Amalasunta, donna e
madre di due bambini, vedova e senza parenti maschi in grado di poter
governare, ereditò così la carica del padre. Proprio come io avevo ereditato la
mia. E fu così che le nostre due strade tornarono a incrociarsi.
Quella che era stata la
mia amica d’infanzia aveva ormai ventotto anni e suo figlio maggiore una
decina, troppo pochi per governare.
I Goti la scelsero come
reggente, con il supporto del Senato Romano e di Costantinopoli, tutti felici
di avere una fragile figura femminile al comando di un Regno allo sbaraglio.
Noi consiglieri fummo
convocati presso di lei solo dopo i funerali del padre, il periodo successivo
di lutto e la sua elezione ufficiale. Amalasunta era una donna ancora
bellissima e piacente, ma molto seria. Le rughe avevano iniziato a solcare il
suo viso dalle gote un tempo lisce e pallide, e i fianchi larghi faticavano a
restare nascosti al di sotto delle sontuose tuniche di candido e leggero lino.
“Ora il potere è in
mano mia e di mio figlio, dopo la morte di mio padre”, aveva esordito, diretta
e di poche parole, “quindi per ora dipendete da me, in quanto il bambino è
ancora troppo piccolo per governare”.
“Hai la mia fedeltà,
regina”, avevo replicato con prontezza, garantendomi tante occhiatacce da parte
degli altri consiglieri. Anche da parte sua, infine, poiché tornò a
rimproverarmi.
“Io sono la tua domina,
ma non sarò mai la tua regina”, aveva sancito, per poi iniziare a discutere dei
vari problemi del Regno e delle iniziative che aveva a riguardo. Io ero rimasto
muto per tutto il tempo, poiché pareva ovvio che lei avesse le sue idee ben
precise e che quindi fosse meglio tacere.
Mi limitai a fissarla a
lungo mentre parlava, e si sgolava nel discutere le sue idee… così bella,
nonostante gli anni, il matrimonio, le gravidanze e le perdite. Era ancora magnifica
e attraente. E parve impossibile che fosse ben presto disposta a perdere tutto,
dal figlio al potere.
La sua scelta personale
di ritirare l’esercito dai confini e di smettere di aiutare i Visigoti riportò
tanti uomini armati in Italia, dentro i confini delle Alpi. Uomini che si
ritrovarono senza nulla da fare, con le speranze belliche infrante.
Teodorico aveva tentato
di fomentare una guerra contro Costantinopoli, e pure contro i Franchi e i
Vandali, percependo le loro tensioni interne, cercando allo stesso tempo di
avvicinare Goti e Romani e di sostenere i parenti Visigoti, mantenendo salde le
alleanze con i Burgundi e i Turingi.
Con la reggenza della
mia bellissima domina, tutto questo svanì in fretta.
Nelle circostanze
dovute ad alcune scelte sbagliate e al fatto che i vari Regni barbarici e
orientali si fossero consolidati più di quello Ostrogoto, ebbi modo di
conoscere Giano. E non fu qualcosa di pacifico.
Giano all’epoca era un
barbaro spietato, un signorotto come tanti altri che spadroneggiava nelle vicinanze
di Ravenna.
Come moltissimi altri
giovani e validi soldati rimasti senza impiego, aveva scelto di impegnarsi per
accrescere il suo potere e il suo dominio personale.
Erano giorni tristi
alla corte reale, poiché le funeste notizie della rapida fine dei Burgundi e
dei Turingi erano l’evidente segnale che l’ingordo e potente Regno dei Franchi
possedeva una macchina bellica invidiabile e stava puntando verso Sud. Dalla
Gallia meridionale già giungevano numerose richieste di soccorso, poiché le
orde dei barbari nemici stavano razziando i raccolti e mettendo a durissima
prova quei territori.
Ma chi poteva fare
qualcosa? Amalasunta, che faticava a tenere a freno il suo stesso popolo? Io,
che ero un consigliere che alla fine dei conti non valeva nulla? Alla mia
regina avevano già portato via suo figlio, per crescerlo secondo le leggi dei
suoi antenati. Ora il bambino si era tramutato in un barbaro delle steppe,
conciato da giullare.
Ridevano i nobili Goti,
che l’avevano reso loro burattino, e la madre non poteva fare nulla per
risolvere la delicata questione. Io stesso avrei tanto voluto fare qualcosa, ma
anche in questo caso tutto mi era precluso.
Era iniziato il mio
primo periodo di scoraggiamento, e percepivo che anche per la regina era così.
In fondo, eravamo tutti vittima del Destino, e poco cambiava che io stessi
seduto su uno scranno e lei su un trono.
Così gli Ostrogoti si
vendicavano della dinastia di Teodorico il Grande: rendendo il governo
impossibile alla figlia e distruggendo moralmente la prole.
Giano quindi in quei
tristi giorni era uno tra i tanti che rovinavano quel poco di buono che era
stato costruito grazie ai saggi insegnamenti del re defunto.
Amalasunta venne
improvvisamente convocata per un grave danno in corso proprio alle porte di
Ravenna, poiché pareva che fosse successo qualcosa di così tanto terribile da
aver messo in allarme la comunità latina della zona. Tutti noi consiglieri
fummo convocati in fretta e furia, e l’abbattuta regina ci aveva preparato
tramite poche parole.
L’avevamo così seguita
nell’inferno che si spandeva al di là delle mura dell’isolata capitale, ove le
fiamme attecchivano ovunque quando s’innescavano faide tra famiglie barbare.
Misi a confronto i
ricordi che mi erano rimasti da quando uscivo con mio padre, e mi lasciai
confondere da un senso di profondo dolore, poiché le strade erano di nuovo in stato
d’abbandono e gli alberi stavano tornando a conquistare le terre che avevano
perduto grazie ai disboscamenti…
Giano prega, fa sempre così. Faccio fatica a concentrarmi e a
ricordare i momenti in cui l’ho incontrato per la prima volta, poiché furono davvero
drammatici anche solo da rivivere.
Quel gigante buono era stato un giovane demonio. In fondo,
però, non si era distinto troppo dalla massa dei barbari.
Forse questo sul momento non l’avevamo capito, noi uomini da
sempre racchiusi tra le mura di una capitale remota…
Sangue, orrore e
fiamme. Dappertutto.
Così si presentava alla
corte quel che doveva esser stato un florido villaggio, fino a poco prima. In
quel momento la devastazione era tale da non aver lasciato nulla d’intatto.
I nostri nobili occhi
corsero però verso i campi circostanti, dove il grano aveva già mostrato la
spiga ricca di preziosi semi, e… ardeva. Anche i campi erano stati dati alle
fiamme.
Quel grano che veniva
utilizzato per pagare le imposte alla corte…
I contadini erano stati
assassinati e impiccati tutti agli alberi circostanti.
“Che sia portato al mio
cospetto il responsabile di tutto questo”, aveva sibilato Amalasunta, a denti
stretti. Pressata dalla fretta, aveva cavalcato come i suoi guerrieri, mostrando
a tutti il suo valore e il suo lato più pratico e risoluto. Era la degna figlia
di suo padre.
Alcuni dei suoi uomini
si sparsero nelle circostanze, alla ricerca di qualche mano che doveva aver
aiutato a scatenare quell’inferno, ma non trovarono nessuno. Eppure le fiamme
erano ancora così vivaci da indicare che erano state appiccate da non molto.
In effetti, quando
ormai sembrava che i colpevoli non sarebbero mai stati trovati, un gruppo di
uomini armati e a cavallo si avvicinarono velocemente a noi, spuntando dal
centro del villaggio che ormai era ridotto a cenere rossastra.
Spavaldi, dei veri
barbari con il corpo avvolto nelle pelli di bestie selvatiche.
Il silenzio
improvvisamente ci avvolse. Sembrava che pure il fuoco si fosse spento, poiché
il crepitare della materia in fiamme fu sovrastato dal rumore prodotto dagli
zoccoli nemici.
Noi tutti fummo
attraversati da un brivido: non eravamo uomini d’arme, non potevamo difenderci.
Solo Amalasunta non ebbe paura, e seppe darci l’esempio, poiché lasciò a noi il
suo cavallo e si mosse solitaria contro i cavalieri anonimi.
Essi si bloccarono al
suo cospetto, ma non mostrarono armi. Sembrava che la stessero studiando.
“Siete voi la causa di
questa catastrofe?”, li interloquì la coraggiosa regina, che pareva non temere
nulla.
“Sono stato io”,
rispose un barbaro, scendendo anch’egli dalla groppa del suo animale. Fiero e
giovane, galvanizzato dalla brama di potere e dalla sete di vendetta tipica
degli arroganti, si avvicinò alla regina.
Amalasunta però aveva
già fatto cenno alle sue guardie di farsi avanti e di prendere in custodia i
presenti.
Notando il movimento di
uomini armati, gli incendiari sguainarono le loro lunghe spade e non si
lasciarono avvicinare.
“Siete tutti in
arresto”, aveva dichiarato Amalasunta con voce ferma. Il barbaro appiedato
aveva riso forte.
“Non ci facciamo
fermare da una donna romana. Noi le romane le sottomettiamo e basta”, aveva
sghignazzato, indietreggiando leggermente.
“Io non sono una donna
romana, ma una tua regina, Goto. Tu e i tuoi uomini avete generato un
pandemonio così grave da avermi scomodato, ma la pagherete molto cara. E
pagherete anche tutto il grano che avete mandato in malora”.
Solo allora il giovane
aveva osservato per bene la regina, che poteva sembrare una ricca matrona, a un
primo sguardo. Eppure, i vessilli che i suoi uomini avevano con loro erano
inequivocabili, come i gioielli che la donna indossava.
Il giovane era parso
intimorito, ma solo per una frazione d’istante, poi era tornato a mostrarsi
gagliardo.
“Io non riconosco una
regina donna, seguo solo il ragazzo, che dovrebbe governare secondo le leggi
dei vecchi. Quindi sono signore assoluto delle mie terre, fintanto che egli non
sarà sul trono. Poi potrò rispondere direttamente a lui delle mie azioni, nel
caso siano state fastidiose”, aveva detto con fare beffardo.
“Catturatelo. E che per
lui non sia riservato alcun processo…”. Amalasunta era furiosa, ma non si era
scomposta. Autoritaria e implacabile, abituata all’aggressività di alcuni suoi
sudditi, non si era lasciata intimorire da quella dimostrazione di spavalderia.
“… sarò io stessa a
giudicarlo, secondo le leggi dei vecchi, che tanto gli stanno a cuore”, aveva
concluso la regina, dopo un attimo di pausa durante il quale le sue valide
guardie scelte si erano avventate sul giovane, immobilizzandolo.
Gli altri barbari
avevano sguainato le spade, ma il prigioniero li aveva fermati con un grido
d’ammonimento.
“Loro sono stati pagati
da me, e tutto questo è accaduto solo per colpa mia. Che a loro sia riservata
la giustizia ordinaria. Si consegneranno da soli, i prossimi giorni…”, aveva
professato il barbaro, mentre i cavalieri gli davano le spalle e se ne andavano
al galoppo, senza che nessuno li inseguisse.
“Ma chi ti credi di
essere?”. La regina era furiosa. Era indubbio che il giovane si stava mostrando
come una sorta di sovrano, che governava e comandava uomini armati e utilizzava
la lingua prima come spada, poi come contromisura diplomatica.
“Un re. Non appartengo
alla dinastia degli Amali, ma sono più sovrano di te, maledetta puttana! Stai
portando il nostro popolo alla rovina, invece di renderlo grande! Che Dio ci
assista nel saccheggio e ci doni le forze per sottomettere tanti popoli...!”.
Il delirio di
onnipotenza del barbaro era stato fermato solo dall’ordine perentorio della
regina, che lo fece mettere in ginocchio e lo obbligò a scoprirsi la schiena,
prima di infliggerli la prima frustata. A quella ne erano seguite tante altre,
fino a spellargliela.
Quel ragazzo era il
figlio di un nobile Goto, il suo nome era Alfred.
“Alfred…”, mi ritrovo a sussurrare, tornando a riaprire gli
occhi dopo la lunga ma rapida sequenza di ricordi.
Giano, che era ancora a mio fianco, concentratissimo, fissò
il suo sguardo gelido su di me.
Giano, come l’antico Giano Bifronte. I due volti di un
passato e di un futuro.
“Perché mi chiami così?”, mi chiede, indispettito.
“Perché hai scelto di unirti a noi? Perché hai scelto di
morire anche tu?”, gli rispondo con ben due domande. Nei suoi occhi ora c’è un
barlume di curiosità e interesse.
“Non poteva essere altrimenti”, mi dice, in modo filosofico.
Abbiamo davvero un Destino personale, o siamo solo marionette
nelle mani di Nostro Signore?
Alfred non abbandonò
più la sua regina. Portato nelle prigioni di Ravenna e sottoposto a numerosi
supplizi, si dimostrò stoico e disposto alle scuse e alla preghiera.
Amalasunta era
magnanima, sapeva perdonare. Soprattutto perché ormai si era accorta anche lei
che i sogni di suo padre e i suoi stavano andando in rovina. Numerosi nobili Goti
si erano spartiti il Nord e il Centro della penisola, governandola in modo
parallelo a quello di Ravenna. C’era difficoltà nel farsi pagare le tasse e
farsi obbedire.
La legge non veniva
rispettata e molto spesso le chiese cattoliche venivano date alle fiamme dai
Goti ariani, e i Romani messi alle catene come schiavi.
Erano decadute le più
lodevoli leggi che Teodorico il Grande aveva fatto approvare diversi decenni
prima, ove si cercava di far coincidere la legislazione romana con quella
gotica. La parità tra le due etnie era andata in frantumi, con un esercito
disciolto ormai impegnato a far danni solo a sud delle Alpi, e la Gallia
meridionale e la Dalmazia abbandonate a loro stesse.
Ravenna era rimasta
un’isola, una capitale ormai separata da un Regno dove dominava l’anarchia.
Roma era lontana e il senato
faceva di tutto purché la sovrana restasse lontana da lì. Anche i senatori
avevano ancora i loro affari da curare, nel Sud e in Sicilia.
Per noi consiglieri e
cittadini di Ravenna, le giornate scorrevano tutte uguali, con leggi da
approvare, sentenze dei tribunali da discutere. Era eppure tutto così vacuo,
tutto così inutile…
Giano era una delle
poche pecore smarrite che avevano saputo credere nella bontà e nella generosità
d’animo di Amalasunta, e una volta scontata la sua pena le aveva giurato
fedeltà, convertendosi con fervore al cristianesimo e diventando una sua
guardia personale.
Una guardia reale
muscolosa, fedele, in forma.
Ricordo bene solo
alcuni mesi concitati, quando la questione riguardante i Vandali aveva
coinvolto molto la regina, seppur non avesse particolare voce in capitolo. Dopo
una campagna rapidissima, infatti, l’imperatore Giustiniano era riuscito a
debellare per sempre un grande pericolo per l’Italia. Anche se ora alcune sue
truppe erano rimaste senza permesso in Sicilia, rivendicando alcuni porti
dell’isola.
A quel punto, la
pressione straniera cominciava a farsi pressante: a Est e Sud, l’immenso e
florido Impero d’Oriente si era espanso in modo considerevole, avvolgendo quasi
in un abbraccio l’Italia. A Nord e Ovest, il grande e agguerrito Regno dei
Franchi era riuscito a raggiungere le Alpi, conquistando tutte le varie tribù
barbare e le resistenze romane.
La penisola era stretta
in una morsa, tra due potenze in crescita e in costante espansione.
Noi a Ravenna sapevamo
bene che, senza più alcun alleato, non potevamo sostenere nessuna guerra. Nel
qual caso fosse servito l’esercito, richiamare i Goti d’Italia sotto un unico
vessillo sarebbe stato impossibile, con le faide che avevano destabilizzato i
rapporti tra le varie famiglie importanti e il bisogno di arricchirsi dei potenti.
Neppure i cugini Visigoti avrebbero potuto offrire aiuto, ormai sconfitti dai Franchi
e costretti a ritirarsi nel cuore dell’Hispania, al di là dei lontani Pirenei.
L’altro problema era
Atalarico, che ormai aveva raggiunto l’età per governare ma non sapeva fare
nulla. Educato male dalla nobiltà gota, era un ubriacone chiassoso e ridicolo.
Anche la dinastia era più che mai fragile.
Amalasunta era
consapevole a sua volta di tutto ciò, e per questo non la vedemmo a lungo.
La sovrana reggente
rimase per mesi nei suoi alloggi, in quelle stanze che un tempo erano state di
suo padre. Sfornava missive su missive, fragili trattative diplomatiche per
tenere a bada i Greci e i Franchi, i primi decisi a riprendersi i territori
perduti dell’Impero d’Occidente, i secondi bramosi di invadere la Pianura
Padana e le sue terre fertili.
“Se ci fosse stato suo
padre, avrebbe raccolto gli uomini validi e sarebbe partito per la Dalmazia, a
sfidare tutti quanti. Primi tra tutti, quei maledetti Greci”, borbottavano i
vari consiglieri, indispettiti dall’inerzia diplomatica.
“Le guerre non si
vincono con le parole scritte”, sentenziavano altri.
Io ero rimasto sempre
imparziale, senza mai dire la mia. Mi affidavo alle mani della mia amica
d’infanzia.
E intanto gli anni
passavano ed io restavo sempre solo, deciso di donare la mia esistenza al
Regno.
Ricordo che provai gli
stessi brividi che provo ora quando Amalasunta scoprì che stava per essere
uccisa da alcuni componenti del suo stesso popolo, ormai stanchi della politica
di compromessi e di scuse.
In cerca di fatti
concreti, alcuni nobili Goti si erano decisi a toglierla di mezzo, per lasciare
spazio al ragazzo e a una figura maschile.
Non si seppe come, ma
la donna scoprì l’intrigo e pagò diversi sicari affinché uccidessero tutti i
congiuranti. La missione andò a buon fine, ma con il risultato contrario a
quello previsto: i Goti se la presero ancora di più con la loro regina.
Ne scaturì un ginepraio
che sfociò con una decisione drammatica, ovvero quella di abbandonare la
penisola, nel qual caso la questione fosse diventata ingestibile. Correre tra
le braccia dell’imperatore orientale, lasciare che fosse lui a metterci in una
prigione dorata, per poi tenere le redini del Regno in Italia.
Ricordo che a Classe
erano state preparate le navi, al loro interno era stato stipato tutto il
misero tesoro reale, pronto a muoversi verso l’altra sponda dell’Adriatico. In
quell’occasione, anche Atalarico era stato preparato per salpare.
Nulla della dinastia di
Teodorico sarebbe rimasto in Italia.
Per fortuna, alla fine
non era accaduto nulla, ma le famiglie dei Goti uccisi non lasciarono mai
sopire il loro rancore.
Noi, ora, continuiamo a pagare il prezzo di tutto questo. Non
importa se le nostre mani unite ci aiutano a raccoglierci in noi stessi, a
ricordare e a pregare.
Nel tempo, la corte di Ravenna ha attratto un odio così
irrefrenabile da averla letteralmente spazzata via. La causa finale, ciò che
aveva fatto scattare l’ultima scintilla, era stata la morte prematura del
giovane sovrano Goto.
Atalarico aveva appena
compiuto diciotto anni, ma era un giovane incastonato in un corpo ormai
rovinato da anni di abusi e di ubriachezza. Spinto sempre agli eccessi come un
antico re barbaro, aveva esagerato in ogni suo comportamento e atteggiamento.
Nell’ultimo e debole
periodo di reggenza della madre, egli si ammalò definitivamente. I Goti lo
volevano acclamare come re, poiché a quell’età era a tutti gli effetti un uomo,
però a corte notavamo che non ce l’avrebbe mai fatta. Troppo silenzioso, a
tratti aggressivo.
Era il peggiore tra i
barbari.
Noi stessi consiglieri
lo conoscevamo ben poco, poiché egli aveva vissuto più tra chi gli aveva
offerto dei cattivi esempi che tra coloro che l’avrebbero dovuto preparare
dignitosamente al governo: eravamo a conoscenza di tentativi di violenza e del
suo stato mentale alterato da certe pericolose bevande, e un po’ avevamo timore
di questo giovane così problematico.
Comunque, un giorno
iniziò a tossire, poi la tosse si tramutò in febbre alta. Nessuno sapeva cosa
fare. La morte giunse rapida, come quella di suo padre: rantolando e
sanguinando a ogni colpo di tosse, il giovane si spense nel luttuoso silenzio
del palazzo del nonno, ove la madre l’aveva fatto condurre affinché potesse
stare lei stessa al suo capezzale.
Le lacrime di
Amalasunta, versate per quel figlio che non aveva mai potuto crescere secondo i
valori latini e razionali, non lavarono l’imminente presagio di morte. Senza il
ragazzo, anche lei perdeva ogni diritto al trono, poiché era solo una reggente.
Ed ecco che la tempesta
si abbatté su Ravenna.
Ci attese una concitata
nottata, poiché nessuno dei suoi più fidati collaboratori era ancora venuto a
conoscenza della dipartita del giovane sovrano. Sapevamo solo che stava molto
male.
Fummo convocati a sera
inoltrata, e alla luce di un fuoco acceso ci mettemmo in attesa di essere
ricevuti. Amalasunta giunse ancora con le gote segnate dalle recentissime
lacrime, ma non perse mai il suo aspetto austero.
“Mio figlio è appena
morto”, affermò a denti stretti, senza preavviso. Tra noi consiglieri si levò
qualche voce, ma fu subito messa a tacere.
Io stesso ero preda
dell’ansia. Era accaduto il peggio, tra ciò che sarebbe potuto succedere.
“Voglio che vi mettiate
subito in azione. Sceglierò due tra voi, che dovranno scrivere al senato. Altri
due al pontefice. Uno di voi, invece, a mio cugino Teodato…”.
Fui costretto a
scrivere al cugino. Un messaggio brevissimo, un solo invito a raggiungere
Ravenna il più in fretta possibile.
Ci fu vietato di
scrivere ad altri che non fossero stati citati dalla regina, che controllava
tutto quello che avevamo scritto, prima di consegnarlo alle staffette che
avrebbero attraversato gli Appennini e mezza Italia.
Tra le tante cose non
dette, non ebbi difficoltà a comprendere che la morte di Atalarico non era
ancora stata divulgata pubblicamente e non doveva esserlo finché non si fosse
trovata una soluzione, altrimenti i nobili sarebbero accorsi a frotte a
massacrarci.
Sul filo del rasoio, la
nostra sovrana stava giocando le sue ultime carte.
Un sussurro. Un bisbiglio appena pronunciato, ed ecco che
vengo di nuovo strappato da questo flusso dirompente di ricordi. Essi mi
permettono di evadere per qualche istante dal presente e dal suo odore di
sangue.
Amalsunta sta finendo di lavarsi, ormai le ancelle hanno
smesso di far scrosciare l’acqua, quindi la stanno asciugando. Svolta quell’ultima
concessione, la fine giungerà lesta e spietata.
Avverto anche il calpestio di stivali di cuoio prodotto dai
nostri sorveglianti armati, anche loro pronti a eseguire il triste compito
affidatogli e desiderosi di tornare a rendersi utili presso il loro signore.
Giano è ancora a mio fianco, silenzioso e chino in preghiera.
Mi volto e incrocio lo sguardo di uno degli aguzzini, che sta
affilando la sua spada…
Incontrare quegli occhi
spietati mi riporta alla mente il mio primo incontro con Teodato. Non l’avevo
mai conosciuto di persona, anche se era molto famoso a Ravenna e in tutta
Italia per il suo sleale modo di comportarsi.
Ingordo, perfido, senza
cuore. La sua cupidigia e la proverbiale avidità l’avevano reso Romano, mentre
la voglia di sottomettere il prossimo era tipica dei suoi antenati barbari. I
suoi occhi erano scuri, non apparivano come Goti, così come la sua statura
ridotta e la pelle abbronzata. Non portava neanche la minima ombra di baffi e
barba.
Giunse a corte così,
con una rapidità sorprendente e vestito da persona comune. Con la furia di una
tempesta invernale si gettò a capofitto a conversare con la cugina, in un
incontro che fu privato.
Venimmo a scoprire qualche
ora dopo che i due non solo avevano trovato un comune accordo per governare, ma
si erano anche fatti sposare in segreto e con rito ariano. Teodato era in fondo
l’unico parente maschio rimasto in vita più prossimo a Teodorico, quindi a quel
punto la scelta di Amalasunta, seppur molto affrettata, acquistava un senso ben
preciso.
Il mattino successivo
l’Italia si svegliò con la notizia dilagante del giovane sovrano morto, e con
un nuovo re sul trono. L’unico problema era che la regina non aveva chiesto
consiglio a nessuno, nemmeno a noi consiglieri.
Ancora immersi in un
clima di fragilità estrema, a Ravenna ci limitammo ad attendere notizie dal
resto del mondo.
Presto giunse rapido il
consenso del senato, che approvava la nuova unione. La novella e improvvisata
coppia di sposi non si mostrò a nessuno fino a un paio di giorni dopo il
consenso giunto da Roma, quando con l’ennesima e rapida rappresentazione
pubblica i due si esibirono mano nella mano, e Amalasunta consegnò a Teodato la
corona di suo padre.
Di nuovo, il silenzio
tra gli spettatori… un silenzio che era ancora il segnale d’allarme di quanto
la regina avesse rischiato, prendendo decisioni drastiche e in solitaria. Lei
in fondo era come tutti noi, con Teodato conosciuto solo tramite ciò che veniva
riferito e che circolava.
Pareva non avesse nulla
di positivo, e non era neanche bello o particolarmente intelligente, se non
solo desideroso di potere. Non sapevamo nemmeno che egli era sposato, e infatti
quando a Ravenna giunse la legittima moglie, la nostra regina fu imprigionata.
Così sono finito qui. Forse la mia regina, un tempo amica di
giochi infantili, aveva rischiato troppo per sé stessa e per tenersi stretta
l’eredità di suo padre, affinché non andasse ad altri che non avessero il suo
stesso sangue.
Tuttavia, ho sempre pensato che sarebbe dovuta scappare,
salpare per l’Oriente, prima di donare la corona a un uomo già sposato e
innamorato della sua consorte, ma non solo… così cattivo, così perverso. La
verità è che aveva fatto tutto da sola, in fondo. Anche per questo l’avevano
abbandonata tutti.
Chi era stata quella reggente per il popolo Romano e Goto,
negli ultimi anni, quando ogni cosa andava a fondo? Quando Amalasunta era stata
imprigionata e la notizia si era diffusa, prontamente i Franchi avevano
iniziato a razziare la frontiera alpina e i Greci a impadronirsi dei porti
siciliani. Se da una parte la mia regina non era mai stata apprezzata e
compresa, dall’altra la sua figura rappresentava ancora l’autorità di suo padre
presso le capitali straniere.
Ora, lo spietato Teodato non aveva alcun diritto di sovranità
secondo i Greci e i Franchi, così desiderosi di espandersi in Italia. Per
l’aver compiuto crimini molto gravi contro le altre più nobili famiglie Gote
del Centro Nord Italia, è odiatissimo e solo anche dentro ai suoi confini. Poco
importa se adesso è a Ravenna e con i suoi soldi può assicurarsi la spada degli
assassini che ci circondano.
Presto sia lui e sia sua moglie saranno rimpiazzati da
qualcun altro, probabilmente.
Però, prima di tutto saremo noi a morire.
Qui su quest’isola solitaria in mezzo al lago di Bolsena
siamo stati condotti in catene solo qualche giorno fa, dopo che Teodato ha
scelto di condannare all’isolamento e alla morte non solo la regina alla quale
ha sottratto il potere con l’inganno, ma anche le poche persone che ancora la
sostengono.
Gli altri consiglieri l’hanno ripudiata, io no.
Le altre guardie l’hanno ripudiata, ma Giano no.
In fondo tutti avevano molto da perdere, dalle famiglie alle
loro ricchezze personali, e pure la vita stessa. Io e il nobile guerriero Goto
no, abbiamo perso tutto nel tempo, acciecati dallo splendore di questa regina
barbara che si veste da imperatrice romana.
Questa perla luccicante rimasta incastonata in un mondo alla
deriva, in rovina, e lei impossibilitata a donare il suo splendore a tutte
queste cose che ormai compongono solo materia passeggera.
Giano è molto credente e non fa altro che pregare. La sua
vita, quella di cui può ancora godere ora, gli è stata donata da una donna
saggia che l’ha solo frustato e punito, ma senza mai esagerare o sottoporlo realmente
all’antica giustizia degli antenati. L’ha salvato dai vincoli del peccato, come
adora affermare, poiché nel buio delle carceri ravennati ha incontrato quel Dio
misericordioso che gli ha sussurrato all’orecchio e gli ha insegnato a non fare
più del male.
Era stata una persona tanto cattiva e bramosa di denaro e
vendetta, da giovane, e adesso è un uomo maturo dotato di Fede e di
razionalità.
Ora, finalmente, la nostra regina si mostra a noi tutti nel
suo fascino di un tempo, scortata dalle due ancelle che ancora le stanno
sistemando la lunga veste orientale di lino e prezioso bisso. Nel complesso
sembra un antico peplo, color rosso porpora. Il colore dei sovrani.
È quello il suo ultimo gesto, il volersi mostrare regale
anche quando ogni speranza è perduta.
Non dice niente, la nostra Amalasunta: è ancora impassibile,
il viso a tratti solcato da qualche ruga e diversi capelli bianchi a mischiarsi
con quelli ancora biondi. Io e Giano la osserviamo con ammirazione.
È ormai finito il momento utile per concedersi ai ricordi e a
tirare le somme della propria esistenza terrena.
Anche i sicari prezzolati agli ordini di Teodato si
avvicinano a lei con discrezione, poi la afferrano per le braccia, ma con gentilezza.
Noi due invece ci strattonano in piedi, per obbligarci con forza a raggiungere
le vicine rive del lago.
Vorrei dire che non c’è bisogno, che tanto non ho la forza né
l’interesse a ribellarmi.
Giano potrebbe tentare di fare qualcosa, d’altronde lui è pur
sempre un uomo dotato di un fisico da guerriero, però anche lui non lo fa. Ogni
nostro gesto potrebbe solo peggiorare la situazione, e rendere ancora più
umiliante quel momento in cui ancora la nostra regina splende di una luce
intensa, imperturbabile.
Anche le due ancelle latine vengono portate via assieme a
noi.
Quella decina di barbari armati ci costringono a metterci in
ginocchio, tutti tranne la regina, che viene tenuta in piedi e viene posta
proprio al nostro cospetto, di fronte a noi.
Io, Giano e le due fedeli ancelle osserviamo lei, dando le
spalle al lago, e lei osserva noi, con il vasto specchio d’acqua che si estende
al cospetto del suo profondo sguardo.
Solo le due ragazze piangono, per il resto è un silenzio
profondo quello che ci avvolge.
A cosa starà pensando? A sua figlia, la ragazzina prigioniera
chissà dove, oppure al suo Regno, che ora si estende al di là del lago?
Tutt’attorno a noi è ancora roba sua, e lo sarà formalmente fintanto che vivrà…
E un refolo di vento accarezza le mie guance, mentre
socchiudo gli occhi. Mi sembra ancora che ci sia la speranza che accada
qualcosa che possa salvarci. Chissà che una piccola imbarcazione porti ora un
messaggio salvifico. È impossibile che la nostra storia finisca così, in quel
misero lembo di terra separato dal mondo.
Le spade dei nostri aguzzini sono pronte e noi siamo
inebetiti ad attendere che questa pantomima volga al termine.
Giano ancora prega, le ancelle singhiozzano, io osservo la
regina assorta.
Avverto il nodo in gola solo quando il ferro nemico attacca
le mie carni e le trapassa con forza, al centro del petto.
Mi viene da urlare per il dolore lancinante che provo e che
mi costringe a umiliarmi al cospetto degli avversari, anche quando mi sono
ripromesso continuamente di non poter dare loro il gusto di vedermi impaurito e
piegato.
Riesco solo a rantolare quel tanto che basta da avvertire il
sangue nella bocca e gli occhi sgranati, che finiscono per fissarsi per un
istante di nuovo sulla figura eretta di Amalasunta, che poi crolla a sua volta
a terra, mentre il braccio nemico la soffoca rapidamente. Le strappa il respiro
con odio, come la più truce delle vendette personali.
Non penso più a nulla, adesso.
Io adesso cosa sono? Sono ancora vivo, pare, ma… cosa resta
del fedele consigliere ravennate che ha vissuto sulla sua pelle tutte le
vicende più importanti riguardanti il governo della sua regina? Di colei che ha
considerato come una domina e un intenso amore giovanile.
Ora che lei non c’è più, non ha più senso neanche per me
continuare a esistere. E allora che il limbo del nulla mi avvolga nelle sue
eterne spire, che mi renda pure qualcosa di impalpabile, forse di inesistente,
mentre il flusso implacabile della Storia mi cancellerà presto e per sempre
dalla memoria di chi ho conosciuto… ma sarò in eterno suo consigliere, anche
nell’aldilà.
Io e la mia amica d’infanzia abbandoniamo assieme il mondo
terreno, uniti anche nella morte.
BREVI NOTE
(1); i sovrani Ostrogoti erano sovrani solo per il loro
popolo, mentre la popolazione latina dipendeva formalmente dall’Impero
d’Oriente. Tutto questo per il patto che aveva unito Teodorico a
Costantinopoli, poiché egli avrebbe dovuto amministrare l’Italia in nome
dell’imperatore orientale.
(2); dinastia più nobile tra i Goti, la quale aveva donato i
sovrani più gloriosi a questo fiero popolo.
NOTA DELL’AUTORE
Non so se ho fatto un buon lavoro, in tutta sincerità.
Comunque era difficile scrivere un racconto su Amalasunta con sole diecimila
parole a disposizione, sfruttandone poi solo poco più di novemila, per non
rischiare di sforare.
Tra l’altro al giorno d’oggi sappiamo ben poco di questa
parentesi di dominio Ostrogoto sull’Italia, durato solo sessantatré anni in
totale.
Un periodo buio, tranne la lunga parentesi di Teodorico, un
sovrano eccezionale. Amalasunta, sua figlia, che dire… anche lei è stata
grandissima, ma è rimasta sempre più sola. È facile immaginare questa giovane
donna alle prese con il potere, in solitaria, con un figlio imbelle e senza
parenti. Ha rischiato molto ed ha compiuto delle scelte alquanto discutibili,
ma appunto molto spesso generate dal bisogno di non perdere tutto.
Alla morte improvvisa dell’erede, sola, è ricorsa a queste
nozze che al giorno d’oggi possono sembrare un paradosso. Sposare un uomo già
sposato!
Qui si può percepire l’ultimo atto di una persona disperata e
alle strette.
Il punto di vista del protagonista, è spesso semplicemente
narrativo, un flusso storico che ripercorre le tappe che lui e la sua domina
hanno vissuto assieme, ma da due diversi punti di vista, uniti solo da una
sorta di attrazione giovanile che ha continuato a vivere nel cuore di Flavio.
Perché ho scelto di parlare di Amalasunta, e appunto del suo
assassinio? Semplicemente perché da questo punto in poi ha inizio la fase più
oscura della Storia italiana, con la guerra greco-gotica che devasterà la
penisola e la getterà nel cuore più profondo del Medioevo. La morte della
regina Ostrogota e l’estinzione della dinastia Amala sono lo spartiacque tra un
ultimo e illusorio bagliore della cultura romana occidentale e la successiva e
fragile dominazione bizantina, tirannica e oppressiva. Al punto poi da favorire
e da non saper arginare l’arrivo dei Longobardi e la frammentazione della
nostra penisola, che non sarà più unita fino al 1861.
Insomma, Amalasunta è stata una vera regina d’Italia,
l’ultimo collante prima della lunghissima frammentazione.
Ho scelto di ‘’cucire’’, diciamo così, frammenti di ricordi e
il presente per donare profondità e senso al testo. D’altronde, Flavio c’era,
c’è e c’è stato. Sempre, per la sua regina. Ed è stato presente anche
all’ultimo atto, scegliendo di donare la sua stessa esistenza ai valori in cui
ha creduto.
Spero di aver compiuto una scelta appropriata e di non avervi
annoiato.
Detto questo, ringrazio di cuore il Giudice che ha indetto
questo fantastico Contest, e tutti voi che avete letto ^^