Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |       
Autore: Lost In Donbass    15/06/2019    1 recensioni
Spaccone, arrogante, attaccabrighe, Denis non ha niente che non sia la sua voce meravigliosa e l'ottima prospettiva di capitanare la sua band nel mondo del metalcore. Peccato che per adesso sia solo un bullo di periferia qualunque vittima dell'alcol, delle sigarette e del sesso facile.
Sasha, al contrario, pensa troppo. Depressa, anoressica, inquietante, desidera follemente la storia d'amore che nessuno sembra in grado di darle.
Però poi si incontrano, ed è subito amore.
Ma come possono due ragazzi così persi ritrovarsi nella periferia violenta di Omsk, quando tutto sembra lottare per separarli? E soprattutto, quando ormai hanno superato il punto di non ritorno?
Genere: Angst, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Universitario
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
DID YOU REALLY THINK THAT YOU COULD FIX ME?

CAPITOLO PRIMO: HEY BOY

I’ve come to terms with the fact I’ll never change
And that’s just fine, I find solace in the pain
I don’t mind the darkness, it’s easy on the eyes
I’m praying for something to make me feel alive
[Asking Alexandria – Into The Fire]
 
 
Lei piangeva.
Lui ringhiava.
Lei soffocava nella sua depressione.
Lui era vittima della sua stessa rabbia.
Lei aveva il cuore spezzato.
Lui pensava di essere indistruttibile.
Loro non credevano più in niente altro che non fosse la loro stramaledetta periferia, anche se, quella volta, erano pronti a credere in qualcosa d’altro.
O meglio, in qualcuno.
 
Denis era alla terza sigaretta, alla quinta lattina di birra e al decimo sputo per terra. Seduto sul marciapiede della Kombinatskaya Ulitsa, guardava il cielo e cercava di ricordarsi quella melodia che gli era venuta in mente sulla metro. Niente, non se la ricordava. Sbuffò rumorosamente, stendendo le gambe e fissando l’infinita distesa di stelle che si estendeva sopra di lui: voleva scappare, non c’era molto da dire. Prendere il primo treno e lasciarsi Omsk alle spalle per andarsene lontano dalla Siberia, lontano dalla Russia, lontano da tutto quello che lo aveva rovinato. E invece era lì, seduto per terra a sognare come quando era bambino, distrutto, ferito, usato da un mondo che non lo comprendeva. Fissava il cielo e lo malediceva, quello stesso cielo che lo aveva ingannato, che gli aveva fatto credere che in qualche modo si sarebbe salvato. Cosa sei, Denisoch’ka?, si disse. Non lo sapeva. Un ragazzo qualunque che non aveva altro se non la sua voce e la sua chitarra, un povero fallito che si trascinava avanti tra alcol a poco prezzo, sigarette, sesso facile e risse di bassa lega, uno di quei tanti figli della periferia siberiana che morivano giovani, soffocati da sé stessi e dalla neve che ricopriva le strade in inverno. Eppure lui non voleva finire così. Voleva vivere, dannazione, vivere, far sentire la propria voce, urlare, suonare, distruggere tutto. Non voleva morire, il giovane Denis, voleva semplicemente trovare qualcosa per cui valesse la pena combattere, morire, vivere.
Lanciò la bottiglia vuota lontano da sé, sentendola infrangersi contro un muro di un palazzo. Era solo anche quella sera, dopo il concerto nel locale aveva preso e se n’era andato, lasciando gli altri a gozzovigliare da soli. Era stanco anche solo di provare a divertirsi insieme a Kuzma, a Nikita, ai loro amici.
Non che la solitudine, per uno come lui, fosse la situazione ideale. Perché più rimaneva solo con i suoi incubi, più aveva voglia di autodistruggersi. Denis era fuoco greco, era fiamme, era un’anima bella in un mondo marcio, era un nuovo personaggio da Pushkin che combatteva contro nemici senza nome. Era la letteratura russa direttamente trasposta in questo secolo perso e mai più ritrovato, era una rockstar mai davvero andata, era uno scapestrato, giovane eroe che lottava per la sua vita. Era tante cose, Denis Alexandrovich Shostakovich, ma soprattutto era perso e solo come nessuno dovrebbe esserlo a ventitre anni.
Si passò una mano tra i capelli scuri, tutti spettinati e sputò ancora per terra. Era una strada lunga per tornare a casa, ma sapeva che per quel giorno sarebbe rimasto in giro fino al mattino, con buona pace di sua madre. Avrebbe camminato fino a cadere svenuto per terra, fumando e bestemmiando come il pazzo che in fondo era.
Si alzò stancamente e cominciò a camminare lungo la via, mani in tasca e sigaretta all’angolo del labbro, guardando le luci della periferia. Eccolo lì, il cantante maledetto, il bullo idiota, lo spaccone arrogante, lo spezzacuori più bello di tutta Omsk. Eccolo lì il ragazzo che soffriva disperatamente e che nessuno era ancora riuscito a salvare da sé stesso.
-Even though I’m on my own, I know I’m not alone, cause I know that someone, somewhere, praying that I’ll make it home …
Cantò, con la voce arrochita dal fumo e dal concerto che avevano tenuto prima, cantò con la passione ucraina che gli scorreva nelle vene, cantò verso quel cielo siberiano che tanto odiava. Cantò perché era l’unica cosa che gli rimaneva, l’unica fuga che poteva permettersi, l’unico orgoglio che ancora aveva. Lui, Denis, il cosacco ucraino, l’eroe generazionale, con la sua voce malinconica e devastata da una depressione senza nome. Lui, Denis, che voleva scappare dalla Russia per andare a raccontare al mondo la sua filosofia di bullo di periferia.
Guardò il telefono: le due del mattino.
Sua madre sarà stata in casa disperata, in sua attesa.
I suoi amici probabilmente si saranno chiesti dove si fosse ficcato quella volta.
Non che a lui importasse veramente.
Si accese un’altra sigaretta e diede un calcio a una lattina.
Che cazzo di vita.
Forse avrebbe dovuto trovarsi una ragazza. Forse un lavoro fisso. Magari mettersi a studiare. Ma sapeva che non l’avrebbe fatto, sarebbe rimasto il bellissimo cantante spiantato di sempre, con buona pace di sua mamma e delle sue sorelle, nella speranza che qualcuno lo notasse, nella speranza di andare all’estero a incidere dischi.
-Ma perché la vita fa così schifo?- urlò al cielo, lanciando il pacchetto di sigarette vuote lontano da sé.
Non che quello lo avrebbe aiutato a uscire dalla sua disperazione congenita, sia ben chiaro.
Sbuffò e si aggiustò la giacca di pelle sulle spalle – cominciava a fare freddo, e sicuramente sua madre sarà stata molto preoccupata. Avrebbe dovuto tornare a casa a scusarsi per essere un figlio così fallimentare. Scusarsi per averla delusa. Scusarsi per essere un buono a nulla.
Non se n’era nemmeno accorto, ma lacrime furiose avevano cominciato a rigargli le guance.
 
Aleksandra, dal canto suo, guardava il cielo e pensava al mare che non aveva mai visto. Nata e cresciuta nella gelida Omsk, il suo più grande sogno sarebbe stato vedere l’oceano. Mettere i piedi in acqua per la prima volta, vederne il colore, bagnarsene i capelli e ridere al cielo. Ma sapeva anche che non ce l’avrebbe mai fatta – era tutto così sbagliato nella sua vita, tutto così sbagliato, a partire da una laurea che non voleva dare, passando per disturbi alimentari che la stavano divorando viva e finendo con una tendenza alla malinconica che sicuramente non l’aiutava a superare i suoi drammi.
Stravaccata sul letto, ascoltava quella vecchia canzone che parlava della tratta Mosca-Vladivostok e sognava che qualcuno la prendesse per mano e la portasse lontano dalla Siberia e da tutti i suoi incubi. Sognava un uomo che la stringesse e le dicesse “ti salverò”, sognava una ragazza che le baciasse via le lacrime, sognava che una persona le desse le ali. Ma allo stesso modo sapeva anche che non sarebbe mai successo. Cosa avrebbe fatto della sua vita? Si sarebbe sposata con una persona che non avrebbe amato. Avrebbe avuto un lavoro che non le sarebbe piaciuto. Si sarebbe suicidata senza mai aver visto il mare. Una prospettiva che non l’allettava, sicuramente.
Si passò una mano tra i lunghi capelli così biondi da sembrare bianchi e si accarezzò distrattamente gli avambracci dove campeggiavano ancora le cicatrici dei tagli adolescenziali. Erano passati tre anni dall’ultima volta che aveva portato una lametta al braccio, ma la depressione non era passata – aveva preso solo un’altra forma: quella della privazione del cibo.
Sasha era una ragazza triste, eppure era così tanto bella da fare male: bella di una bellezza sfruttata, depressa, rovinata, una bellezza angelicata che nessuno, in quell’inferno, era in grado di apprezzare. Lei sperava, desiderava, di trovare il ragazzo, la ragazza che potesse capirla e amarla come avrebbe voluto. Trovare qualcuno che la amasse di un amore tenero e infantile, come piaceva a lei, che le portasse mazzi di rose rosse e le cantasse canzoni sotto le stelle – voleva la perfetta storia d’amore che nessuno lì nella periferia di Omsk poteva darle. Voleva tante cose, prima fra tutte guarire dalla sua depressione apparentemente inguaribile.
Si alzò, ondeggiando sulle lunghe gambe magre e si affacciò alla finestra, fissando la strada enorme e silenziosa.
-Ma perché la vita fa così schifo?- urlò una voce.
Aggrottò le sopracciglia e si sporse, vedendo un ragazzo camminare lungo la via e lanciare lontano qualcosa.
Già, pensò la ragazza. Perché la vita fa così schifo?
Lo fissò, osservandone l’andatura arrogante e sfacciata, e si chiese chi fosse quel ragazzo che se ne andava in giro alle due del mattino, da solo, urlando frasi tristi al nero cielo siberiano. Avrebbe voluto scendere e andargli incontro. Chiedergli cosa stesse passando, quali fossero i suoi demoni, che incubi stesse affrontando. Andare da lui, prendergli la mano e dirgli “non sei solo”. Cosa poteva essergli successo? Lasciato dalla fidanzata dopo anni di relazione? Lasciato orfano da una madre tanto amata? Tradito dal migliore amico? Licenziato in tronco proprio quando sembrava che la vita stesse ingranando? Oppure semplicemente depresso di natura, come lo era lei, disperato da quella città che li voleva tutti morti, ucciso da sé stesso, abbandonato nella sua solitudine?
Non lo sapeva, ma avrebbe tanto voluto urlarglielo.
Hey, ragazzo, non sei solo in questo inferno.
Hey, ragazzo, non sei solo a combattere questa guerra.
Hey, ragazzo.
Lo guardò passare oltre il suo palazzo, mani in tasca e capelli spettinati. Avrebbe tanto voluto vederlo in faccia, leggere il dolore nei suoi occhi. Chissà di che colore erano. Chissà come si chiamava. Semplicemente, chissà.
-Hey, ragazzo. Non sei solo. Te lo prometto.- mormorò, prima di chiudere la finestra e ritirarsi in camera.
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Lost In Donbass