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Autore: Itzi    17/06/2019    6 recensioni
[STORIA INTERATTIVA -ISCRIZIONI CHIUSE]
Il ragazzo si appoggiò alla vetrina, studiandosi le unghie corte con finta noncuranza. «Perché, abbiamo cose di cui preoccuparci?»
            «I nostri cari vecinos avranno di nuovo fatto casino…Ottanta anni fa se ne sono usciti con quella cosa degli imperatori; abbiamo avuto le comunicazioni bloccate per mesi, un incubo!» Gesticolò con una mano, ritirando i soldi che gli aveva poggiato vicino alla cassa «Convivenza civile un cazzo. Entro la fine di questo secolo finirò per prendere qualcuno a calci in culo, me lo sento!»
           «Uuh, quindi… Siamo di fronte a uno scontro tra Pantheon ? Ma davvero?»
*****
«Non è stata colpa mia.» Da come Olivia lo guardò, dedusse che non era per nulla credibile.
            «Allora perché sei scappato?»
         «Perché tutti saltano alle conclusioni! Senti, ieri sera, è successo qualcosa.» Si avvicinò leggermente allo schermo, con fare furtivo, quasi avesse paura di essere ascoltato. «Qualcosa che la Casa non può più ignorare.»
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Ecate, Gli Dèi, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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VI
THE LOVERS
Parte Prima
 
 
 
Nonostante non fosse così grande, il tatuaggio era davvero troppo elaborato per passare inosservato: tre cerchi concentrici, sottili, e un rombo dai bordi lunghi e affusolati che si allungava verso l’alto, dal tratto più spesso. Lo spazio vuoto era riempito da intrecci e ghirigori così piccoli che a malapena erano distinguibili.
            Ekanta ci passò le dita sopra, sconvolto, mentre si specchiava nel bagno comune della sua Coorte. Era sicurissimo di non essersi ubriaco la sera prima, e in generale i suoi ricordi erano perfettamente lucidi; perciò non aveva la più pallida idea del perché avesse un tatuaggio sul costato. La pelle non era nemmeno arrossata, non gli tirava o pulsava con fastidio, come se il disegno fosse lì da una vita.
            Deglutì, e si aggrappò al bordo del lavandino con una mano, mentre l’altra teneva alzato il bordo della maglietta: sentiva la testa leggera, completamente svuotata da qualsiasi pensiero coerente avesse potuto formulare; e il sudore aveva già iniziato a rendergli scivolosi i palmi e la fronte.
            «Ohi! Kitty! Esci da quel cazzo di bagno, tra cinque minuti dobbiamo essere in piazza!»
            Ekanta trasalì sentendo i pugni contro la porta di legno, e per lo spavento sobbalzò sul posto, mollando la presa sulla maglia e colpendo il portaspazzolini che si rovesciò sul pavimento con un gran fracasso.
            «Non immolarti colpendo qualche spigolo, dolcezza
            Alzò gli occhi al cielo mentre sistemava il disastro frutto della sua impareggiabile grazia, e quando uscì trovò Ben placidamente appoggiato sulla parete; le mani conserte sopra la toga, la spada al fianco. Era un ragazzone alto, massiccio, con ricci scuri e una barba corta che faceva sospirare metà delle ragazze al Foro. Il suo senso dell’umorismo era qualcosa di noto, e ormai Ekanta ci aveva fatto l’abitudine, insieme ai nomignoli che ogni tanto gli affibbiava in buona fede e che non gli piacevano per niente: aveva provato a protestare più di una volta, ma per tutta risposta si era guadagnato una risata e delle pacche troppo forti sulle spalle.
            «Che hai fatto ai capelli?»
            «Lascia perdere.» Lo liquidò con un gesto della mano. Si era svegliato in orario; ma tra il chiasso dei lari, i ragazzini più piccoli che chiedevano una mano per vestirsi e il tatuaggio, alla fine non aveva fatto in tempo a indossare la toga, che ora gli penzolava inerme su una spalla. Iniziò a drappeggiarla, creando un mazzo di pieghe più o meno omogenee, mentre si incamminava verso Nuova Roma.
            Erano passate circa due settimane dall’incidente con i mortali, e il Campo si era ripreso con una velocità disarmante, come a volergli dimostrare che, in realtà, era stato tutto uno scherzo della sua immaginazione. Avrebbe volentieri assecondato quel pensiero, peccato che i segni di un’intrusione erano ancora ben visibili: le ronde si erano intensificate sui perimetri, il Senato aveva indetto due assemblee straordinarie a porte chiuse e gli abitanti della cittadina erano più irrequieti che mai.  
            Sospirò e finì di sistemarsi la toga, facendola passare lungo il busto e i fianchi. Era un po’ sbilenca sulla spalla, e le pieghe non erano poi così fitte come avrebbero dovuto, ma la cosa gli interessava davvero poco. Il fatto che fosse color avorio lo preoccupava di più, perché conoscendosi sapeva che, nel migliore dei casi, sarebbe inciampato almeno una volta prima di raggiungere il Foro, sporcandola irrimediabilmente di erba e di fango.
            Imboccarono la strada lastricata in marmo, e Ben iniziò a fischiettare il motivetto di una pubblicità vecchissima. Terminius si materializzò di colpo sul piedistallo di fianco a loro, e per poco Ekanta non cacciò un urlo.
            «Dove credi di andare conciato così!?» gli gridò addosso, inarcando le sopracciglia di pietra verso il basso. «Neanche i bambini si allacciano la toga in quel modo! E i capelli? Guarda che una spazzola non ti fa male, ragazzo!»
            «Siamo in ritardo, dobbiamo andare vecchio…» Borbottò, tirandosi la stoffa sulla spalla, in un gesto che fece strepitare ancora di più il dio. Ignorarono le sue lamentele e continuarono a camminare.
            Il Foro era gremito di gente, e alla fine delle scale che conducevano al Senato era stato allestito un piccolo palco in legno. Sembrava che l’intero Campo si fosse riversato in piazza, compresi i bambini e i professori anziani che insegnavano nelle accademie. I ragazzini che ancora non avevano compiuto sedici anni indossavano vesti ornate di porpora; i più grandi sfoggiavano toghe rosse e bianche. Raggruppati in un angolo c’erano i sacerdoti, le Vestali con il capo ornato da bende e l’Augure, un ragazzino con i capelli castani e una tunica cangiante, stretta in vita da una cintura d’oro.
            Distinguere le varie Coorti fu un’impresa, ma alla fine riuscì a farsi strada sgomitando tra la folla. Ben si fermò a parlare con delle ragazze della Seconda, e presto sparì dalla sua visuale.
            Cinque giorni prima, Crystal aveva annunciato l’imminente incontro che si sarebbe svolto tra gli dei a cena, facendo cessare le chiacchere e i cori nel giro di pochi minuti: a quanto pareva, la situazione si era rivelata ancora più preoccupante rispetto a quello che avevano creduto fino ad allora, e la trepidazione di scoprire qualcosa in più si poteva percepire a pelle. L’agitazione gli aveva mangiato lo stomaco per ore, e persino le sue amate carte erano rimaste ostinatamente in silenzio di fronte alle sue domande, tanto da farlo quasi esasperare. Quella mattina ne aveva pescata una di getto, ed era rabbrividito vedendo la Ruota della Fortuna, l’arcano prediletto di sua madre.
            Alle dieci precise, Malcom e Crys fecero capolino dall’ingresso, seguiti dai dieci Centurioni, l’Augure che si era arrampicato su per la scalinata, e una donna in veste porpora, con folti capelli biondi che sfioravano il suolo e una veste viola. Ekanta strizzò gli occhi cercando di metterla a fuoco; aveva un’aria tremendamente familiare, eppure non riusciva ad associare un nome a quei tratti. Poi la donna si girò, puntandolo in mezzo alla folla, e per poco non si strozzò per la seconda volta nell’arco di una mattina. Trivia battè le palpebre truccate e poi tornò a far scivolare il suo sguardo sul resto dei presenti, mentre il suono di una campana faceva cadere il silenzio.
            «Buongiorno a tutti voi.» Crys si fece avanti sul palchetto, prendendo la parola per prima. Indossava una toga azzurra bordata d’oro, e la spalla scoperta lasciava intravedere l’armatura finemente decorata. Nonostante la postura autorevole, gli occhi blu tradivano una preoccupazione profonda; irrequieti come nubi prima di una tempesta. «Abbiamo indetto questa assemblea straordinaria a seguito dei vari incidenti che ci sono stati con i mortali in queste settimane. Come molti di voi sapranno, c’è stato un raduno tra gli dei in questi ultimi giorni. I problemi con la Foschia non riguardano solo il nostro Campo, o quello Greco, ma si… estendono.»
            Crys esitò un attimo, spostandosi nervosamente i capelli dalla spalla: probabilmente stava solo cercando le parole giuste, ma il silenzio sembrò durare in eterno. Malcom spostò il peso da un piede all’altro in un movimento impercettibile, tenendo le braccia conserte dietro la schiena.
            «Altre realtà, altri dei. Culture diverse, semidei differenti rispetto a noi…» Nonostante la pacatezza, la folla iniziò comunque ad agitarsi. Ekanta sospirò, di nuovo, con la testa che gli pulsava per l’emicrania imminente. Il ragazzo accanto a lui mosse di scatto un braccio mentre gesticolava con il vicino, colpendolo allo stomaco con una gomitata micidiale che lo fece piegare in due dal dolore.
            Ovviamente. Non era rovinato a terra mentre scendeva gli scalini del Foro, ma quello compensava benissimo la caduta mancata: sua madre doveva proprio volergli un gran bene.
            Malcom pestò con forza un piede sul legno per far tornare il silenzio, dal momento che non aveva la lancia, e Crystal rimase a guardare le prime file con sguardo indecifrabile.
            «Ordine.»
            «Ordine un cazzo!» Strillò qualcuno dal fondo. «Prima i mortali arrivano e invadono il campo, poi la Foschia non ci nasconde; i mostri ci attaccano, le difese cadono. E, dopo tutto questo, ci venite a dire che non solo dobbiamo preoccuparci di tutto questo, ma anche di altri dei?»
            «Ugh, spaccate i denti a Lisa e chiudetele la bocca, vi prego, così smette di sparare stronzate.» borbottò Louise al suo fianco, passandosi una mano sul viso. Non aveva la lancia con sé, ma Ekanta sapeva per esperienza che ci voleva davvero poco prima che si sfilasse una scarpa e la lanciasse in testa alla ragazzina della Prima Coorte.
            Avrebbe voluto sentirsi confuso e disorientato come tutti i suoi compagni, lì al Campo. Eppure, le parole di Crystal non erano che l’ennesima – amara -  conferma di tutte le immagini che popolavano i suoi sogni; di voci che gli suggerivano scenari fantastici alle orecchie ogni volta che voltava una carta del suo mazzo. Leggere i tarocchi aveva aiutato la sua mente a farsi più acuta, e ad accettare di buon grado cambiamenti del genere: era come osservare un quadro e accorgersi delle figure diverse che si stagliavano in base al colore su cui si stava concentrando.
            «Non abbiate paura.» Trivia si fece avanti con espressione serena; le braccia nude piene di braccialetti. «Siete figli di Roma. E fin dagli albori i vostri avi si sono scontrati con popoli diversi; con uomini, tradizioni, divinità. Quello che vi state apprestando a combattere non è nulla più di questo.»
            «Ci è stato detto che i problemi dati dalla Foschia e i mostri dipendono da delle entità chiamate Archetipi. Sono simili agli dei, ma operano in un’altra dimensione e, solitamente, non riescono a materializzarsi in una forma concreta.» Riprese Crys, battendo le mani una volta per richiamare l’attenzione.
            «Il nostro compito, d’ora in poi, è riuscire a localizzarli il più velocemente possibile.» Aggiunse Malcom. Si sfregò le dita sul mento, come se la cosa non lo entusiasmasse affatto.
            I mormorii si fecero più insistenti, serpeggiando lungo le fila, dando vita a pensieri e domande. Il mal di testa era risalito fino alle tempie, ed Ekanta strizzò gli occhi chiedendosi se fosse davvero possibile sentirsi così stanchi poche ore dopo essersi alzati. Il fianco aveva preso a pizzicargli con insistenza lì dove si trovava il tatuaggio, ma aveva troppo timore per slacciarsi i vestiti e controllare.
            «Silenzio! Silenzio!»
            Crystal calmò di nuovo le voci, anche se l’agitazione era palesi sui volti di tutti: l’Augure si voltò indietro, verso i Centurioni della Seconda Coorte, bisbigliando qualcosa a mezza voce, e Koori si irrigidì sul posto, evitando accuratamente di posare lo sguardo sulla madre davanti a sé.
            «Lo so che al momento avete molte domande; quello che vi chiediamo è di essere pazienti ed aspettare solo…»
            «Ma quindi ci sarà un’impresa?»
            «Una profezia?» Gridarono dal basso, e Crystal si morse le labbra.
            «Nessuna profezia.» Trivia riprese il discorso con voce ferma. Più il tempo passava, più Ekanta sentiva il fianco prudere e, se da prima la sensazione era stata fastidiosa, adesso era solamente dolorosa. Serrò le nocche lungo i fianchi e si sforzò di prestare attenzione.
            «Noi dei abbiamo discusso a lungo, e nemmeno bandire un’impresa potrà essere d’aiuto, non con così tante variabili incognite. Il Campo Mezzosangue sarà un alleato importante nelle vostre fila, e quando arriverà il momento sarà compito vostro saperlo sfruttare al meglio.»
            Una fitta lancinante gli mozzò il respiro, rendendogli le gambe inferme. Premette una mano sulle costole e la ritrasse di scatto quando sentì la stoffa della toga umida.
            «Quello che stiamo aspettando è un segno…»
            Ekanta impallidì alla vista del sangue. L’odore del ferro era così denso da nausearlo, e per un attimo riuscì a distrarlo dal dolore. Qualcuno accanto a lui si accorse della ferita e strillò, attirando l’attenzione; e fece in tempo ad alzare la testa incrociando lo sguardo brillante di Crys, prima di inginocchiarsi a terra e vomitare.
 
 
 
Si trovava su una spiaggia: la sabbia era ruvida sotto i suoi piedi, e le si infilava sotto le unghie e tra le dita ad ogni passo. Alzò lo sguardo, e un cielo terso pieno di stelle brillanti le fece girare la testa; sembravano irreali per quanto fossero nitide, e Blanca non ricordò di aver mai visto qualcosa del genere, nemmeno sulle locandine che gli osservatori appiccicavano sulle bacheche delle scuole.
            Non aveva idea di dove si trovasse. Il mare si allungava poco distante, alla sua sinistra, mentre a destra file di ulivi con i tronchi ritorti facevano capolino da una collina. Camminò, senza una vera meta, e ben presto la sabbia cedette il posto alla terra battuta, a una stradina che si tuffava in basso per poi risalire. L’erba era corta e scricchiolava ad ogni passo, portando con sé l’odore della campagna, della polvere, dell’estate afosa.
            Se, all’inizio, aveva avuto qualche dubbio, ora era sicura si trattasse di un sogno, per quanto vivido fosse: le sensazioni che provava erano così intense che, se si concentrava, poteva sentire gli insetti zampettare sui tronchi degli alberi di fichi o l’acqua affondare nella battigia lasciando dietro di sé minuscole conchiglie. Si rese conto di essere tesa, in attesa di qualcosa che sarebbe potuto succedere di lì a poco.
            I sogni erano sempre qualcosa di più di quello che apparivano; gli anni al Campo glielo avevano insegnato fin troppo bene, eppure percepiva ci fosse qualcosa di diverso e, onestamente, non sapeva che aspettarsi.
            Sentì i passi prima ancora di vedere il ragazzino: risalivano lenti dalla spiaggia, e Blanca si voltò appena all’indietro strizzando gli occhi, cercando di metterlo a fuoco nonostante il buio.
            Era alto e magro, con gambe lunghe e spalle strette. Indossava una semplice tunica bianca, che risaltava sulla pelle abbronzata, e i piedi scalzi erano sporchi di sabbia bagnata e polvere, fino alle caviglie. Le passò accanto completamente indifferente e continuò a seguire il sentiero, sparendo alla sua vista.
            Blanca lo seguì, dopo attimi di indecisione, decidendo di tenersi a distanza nonostante non ce ne fosse bisogno. La scena continuava ad andare avanti senza aspettarla, ed ebbe il sospetto che, se si fosse distratta anche solo un attimo, avrebbe irrimediabilmente perso qualche dettaglio davvero importante.
            Il ragazzino svoltò, e cominciò ad accelerare. Non poteva avere più di tredici anni, anche se l’altezza lo tradiva. Il viso era ancora quello di un bambino - incorniciato da una massa di ricci biondi che gli sfioravano le spalle -anche se i tratti morbidi della mascella stavano andando ad affilarsi e, in generale, tutto il suo corpo sembrava dotato di una tale grazia che era difficile attribuire a un essere umano.
            Arrivarono di fronte a un muro di pietra; il ragazzino fece scorrere le dita sui mattoni distrattamente e proseguì verso la sua meta. Blanca ci mise un po’ a capire che era la fiancata di un palazzo che si ergeva basso e tozzo su un’altura, circondato dalle vigne e dagli ulivi. Cespugli e piante aromatiche riempivano l’aria di odori familiari, e quando si fermò si ritrovò davanti a una grande finestra. Non c’erano vetri, ed era così in basso sulla facciata, che sarebbe bastato scavalcarla per entrare senza problemi all’interno.
            Quasi a leggerle nel pensiero, il ragazzino si issò sul davanzale, rivestito con pietre più scure, e si lasciò cadere dall’altra parte senza fare rumore. Blanca preferì affacciarsi, strizzando gli occhi mentre studiava la stanza: non era molto grande, ma i pochi mobili la facevano apparire spaziosa. C’erano due letti, addossati agli angoli opposti della parete di sinistra, un catino con dell’acqua, un mobile di legno intarsiato sotto uno specchio ovale e dal bordo in oro. C’era cura nell’arredamento, eppure tutto sembrava spoglio, minimale, a differenza del lusso opulento che si sarebbe aspettata. Forse quello non era veramente un palazzo reale, ma apparteneva solo a qualche aristocratico della zona.
            Il ragazzino si era fermato, indeciso, prima di alzare la testa verso il letto opposto al suo, che Blanca si accorse essere occupato. La luna rischiarava l’esterno, ma le fu lo stesso abbastanza difficile riuscire a distinguerne la figura, che divenne chiara solo dopo pochi minuti: un altro ragazzo, con la carnagione ancora più scura e ricci castani schiacciati sul cuscino. Dormiva nudo, probabilmente per via del caldo, ma non fece in tempo a formulare un altro pensiero che il biondo gli balzò addosso, soffocando le risate e svegliandolo. I due si dimenarono un poco, e alla fine il moro strizzò gli occhi, ancora intontito dal sonno.
            «Buongiorno.» Sussurrò. Il biondino si chinò e premette il naso contro il suo, con un sorriso che gli storceva tutta la bocca.
            «Buongiorno.»
            Rimasero per un po’ in silenzio, e Blanca osservò con cura il modo in cui si guardavano, e le mani che si stringevano prima sulle spalle e poi sulle braccia. Alla fine, il biondo si alzò, e prese a grattarsi via la sabbia secca dalla pelle, seduto su un angolo del materasso.
            «Sei andato da tua madre?» Il moro si tirò su a fatica mentre poneva la domanda, stropicciandosi gli occhi con le dita.
            «Sì.»
            «Lei sta bene?»
            Il ragazzino annuì, senza alzare lo sguardo dai suoi piedi. «Dovresti venire con me la prossima volta.»
            «Oh, no. Meglio di no.» Blanca percepì un timore quasi reverenziale nelle sue parole, che accompagnava l’agitazione del suo sguardo scuro. «Mi fa paura.»
            Il biondo rise, e si sbilanciò all’indietro inarcando con eleganza le braccia. Piegò la testa sulla spalla, rivolgendogli un sorriso tutto denti e gengive.
            «Non ti farà niente. Non glielo permetterei.»
            L’altro ragazzino sembrava sul punto di aggiungere altro ma non lo fece. Sul viso gli balenarono molte emozioni, ma quando aprì bocca non ne uscì nulla. La scena sfumò, e Blanca si ritrovò a fissare le travi intonacate della sua cabina.
 
 
           
Annaspò e tossì così forte che Louise alzò lo sguardo dal suo muffin ai mirtilli.
            «Ohi, non ti strozzare.» Disse. Un ottimo consiglio da mettere in pratica, se solo ne fosse stato in grado. Inghiottì con fatica il boccone, sentendo la gola bruciare, e alla fine si accasciò all’indietro.
            «Stai cercando di morire oggi?»
            «Non esattamente.» Ekanta sospirò, passandosi una mano tra i capelli per liberare la fronte umidiccia. Si sentiva uno straccio, come se il suo corpo fosse fatto di gelatina. Una pessima gelatina che non riusciva a sostenerlo e lo faceva arrancare in giro come un povero ubriaco.
            Decise di alzarsi, e Louise lo guardò scettica.
            «La cena non è finita.»
            «Ci vediamo dopo.» La liquidò, facendole un cenno con la mano prima di allontanarsi. Aveva assolutamente bisogno di rimanere da solo, per pensare e crogiolarsi nell’ansia che quella giornata era riuscita a fargli salire in tempo record.   
            L’accampamento era deserto, ad accezione di alcuni lari che fluttuavano sotto i portici illuminati e i cani alla ricerca di avanzi. Vagabondò senza una meta ben precisa passando la caserma e i dormitori verniciati di fresco. Gli stendardi della legione pendevano dalle finestre, e le viti si arrampicavano sotto gli ingressi, creando tetti di foglie e uva ormai matura.
            Aveva la testa che gli scoppiava; persino il silenzio lo infastidiva, forse ancora più della cagnara che proveniva dalla cena. Strascicò i piedi fino alla veranda dell’erboristeria, e si lasciò cadere sui gradini.
            Tirando le somme, poteva dire con certezza che quella era stata la giornata peggiore della sua vita; il che era tutto dire vista la sua proverbiale sfortuna, che lo aveva cacciato in ogni tipo di situazione assurda. Il tatuaggio – o marchio, come lo aveva chiamato Trivia dopo averlo esaminato da vicino -  aveva smesso sì di sanguinare, ma la pelle aveva cominciato ad irritarsi, gonfiandosi e facendolo piangere dal dolore ogni volta che faceva un movimento troppo brusco.
            Nessuno era riuscito a dargli una spiegazione sul perché di punto in bianco gli fosse comparsa quella cosa sul corpo, neppure la dea della magia: aveva scosso la testa con indifferenza, parlandogli di segni, destino e congiunzioni astrali che lui aveva bellamente ignorato. Conosceva benissimo quella finta vaghezza con cui gli stava parlando, visto che era la stessa che utilizzava lui quando leggeva le carte per le vecchiette o le donne di mezza età, disperate nei loro drammi di cuore.
            E così, era stato incastrato senza che potesse nemmeno aprire bocca in proposito. Trivia gli aveva detto che sarebbe partito presto, insieme a un numero imprecisato di compagni che avrebbero sfoggiato lo stesso marchio, neanche fossero tutti bestie da macello.
            Il supporto di Crys era stato solo una magra consolazione e, se giorni prima aveva provato un po’ di compassione per la sua amica costretta a servire ancora un anno, adesso comprendeva appieno il senso di frustrazione e impotenza di cui gli aveva parlato.
            Insomma, non sapeva dove sbattere la testa. Non era nemmeno troppo entusiasta all’idea di lasciare il Campo, che nel bene e nel male era comunque un posto sicuro, conosciuto: gettarsi in mezzo al mondo mortale per cercare dei portali dimensionali gli sembrava più un risvolto banale di quelle serie tv a sfondo fantascientifico, che un vero e proprio piano messo in atto da divinità millenarie.
            Sospirò, e frugò nelle tasche dei jeans fino ad estrarre il suo mazzo di carte. Prese a mescolarlo senza particolare entusiasmo, cercando di fare chiarezza nei sui pensieri il minimo necessario per formulare una domanda di senso compiuto. Negli ultimi giorni le stese erano state magre e silenti, ma tentare non gli costava nulla e, anzi, sicuramente l’avrebbe aiutato a rilassarsi.
            Aspettò un secondo, e poi pescò tre carte, che dispose con cura di fronte a sé: c’erano un sacco di cose che avrebbe voluto sapere, ma si limitò a chiedere con chi sarebbe finito a fare gruppo. Un buon punto da cui partire.
            Voltò i tarocchi. II, la Papessa; XVII, le Stelle e XVIII, la Luna.
            Inarcò un sopracciglio mentre le studiava, indeciso se stupirsi di più per i tre Arcani Maggiori che erano usciti, o per il fatto che, incredibilmente, la sua domanda poco convinta avesse ricevuto una risposta di facile interpretazione.
            Non era la prima volta che faceva una cosa del genere, e sapeva benissimo cosa cercare in mezzo alle figure: nella prima, Minerva stava placidamente seduta sulla riva di un laghetto, con l’elmo e l’egida poggiata di fianco.
            Aveva sempre pensato che quel disegno non rendesse giustizia alla dea nella sua forma romana, e che fosse invece più affine a quella greca: a parte le armi, c’era una patina di freddezza che le attraversava gli occhi, come se fosse pronta ad alzarsi all’istante per fare a pezzi chiunque le avesse dato torto.
            Al centro, Venere. Nuda e per metà immersa in un lago, con uno sfondo stellato alle spalle, versava dell’acqua tenendo in bilico un’anfora sulla spalla. La dea teneva gli occhi socchiusi, e le labbra piene appena schiuse; in un’espressione che poteva passare per concentrazione o complicità, in base alla quantità di malizia con cui veniva letta.
            Infine Diana, con l’arco stretto in una mano, una tunica arancione e un diadema in fronte, seguita da un branco di cani dal manto chiaro. C’era qualcosa nel suo aspetto che lo faceva desistere dall’avvicinarsi, forse i tratti spigolosi del viso, forse le ginocchia arrossate e sbucciate, che sembravano urlare indipendenza a gran voce.
            Fece scivolare velocemente lo sguardo un’altra volta sulle carte, soffermandosi più sulle figure che il significato in sé delle carte: le tre dee indicavano la discendenza divina dei suoi futuri compagni, di questo era certo ma, dal momento che sia Minerva che Diana erano, per definizione, votate alla castità, l’unica scelta ricadeva su Venere. Sicuramente si trattava di almeno una ragazza visto che i tre Arcani erano strettamente legati all’universo femminile.
            Per il resto, non aveva molte altre informazioni. Forse le carte simboleggiavano qualche tratto caratteristico, ma questo non l’aiutava per nulla a restringere ulteriormente il suo campo di ricerca.
            Provò a formulare una domanda più precisa sulla stesa, e pescò altre tre carte che dispose una fila sotto le altre.
            Tre di bastoni, di coppe e di spade. Ekanta batté gli occhi perplesso, davanti a quella che poteva sembrare una fortuita coincidenza.
            «Dovrei imparare a mischiare meglio…» Borbottò con un filo di voce, quasi volesse farsi sentire dal suo mazzo. Qualcuno lì in mezzo – forse il Matto – gli trasmise un’ondata di divertimento, prima di tornare in silenzio.
            Gli Arcani Minori che aveva estratto erano molto più simbolici; dalla ricorrenza del numero tre, alle figurine immortalate quasi nella medesima posa. Nonostante quello però, non gli stavano dicendo nulla di utile.
            Tutte carte positive, che delinearono un po’ meglio l’idea che si stava facendo dei suoi futuri compagni, ma niente di più. Vedeva una persona acuta che, stando ai bastoni, avrebbe ricavato grande successo da quella impresa; poi una più sensibile e strettamente legata agli affetti visto le coppe; e infine una determinata, indipendente quasi. Le spade indicavano chiaramente una separazione che, forse, sarebbe arrivata a un certo punto del loro viaggio.
            Ekanta continuò a studiare la stesa per parecchi minuti, con la testa prontamente altrove, impegnata a seguire il filo contorto dei suoi pensieri. Avrebbe dovuto parlare con Crys il prima possibile, e farsi dare una mano in modo da non sprecare troppo tempo.
            «Scusa…?»
            Era così assorto, che quando sentì una mano scuoterlo per la spalla trasalì e si ritrasse d’istinto, allontanandosi di scatto.
            «Scusami, non volevo spaventarti!»
            Ci mise più del previsto per ricomporsi, anche se il cuore gli batteva così forte da fargli vibrare le ossa.
            «Non preoccuparti.» Gemette, tirando un sospiro di sollievo quando si accorse che le carte erano ancora tutte al loro posto. Con la sfortuna che si ritrovava, il minimo sarebbe stato colpire il mazzo e sparpagliare tarocchi per tutto il porticato.
            La ragazza di fronte a lui si rasserenò un poco. Non era molto alta e teneva i capelli biondi tagliati in un caschetto corto. Ekanta la riconobbe quasi subito: si chiamava Willow e faceva parte della Terza Coorte. Non aveva mai avuto modo di parlarci per bene, nonostante fossero entrambi da anni a Nuova Roma, ma avevano affrontato una quantità sufficiente di Ludi di Guerra da non essere dei perfetti estranei. Era da un po’ che non la vedeva in giro, ma forse era solo poco attento a quello che lo circondava, come al solito.
            «Sono venuta a darti questa: l’hai dimenticata al nostro tavolo, prima, solo che quando ce ne siamo accorti eri già andato via.»
            Gli porse la sua felpa nera, con i polsini scuciti e pieni di piccoli buchi, che ormai aveva già dato per scontato non avrebbe più rivisto; se la infilò e solo allora si rese davvero conto di quanto, effettivamente, avesse avuto freddo fino ad allora.
            «Grazie. Non dovevi disturbati, potevi mollarla al mio tavolo, o a Louise… O lasciarla lì dove l’hai trovata.» Visto che sembrava uscita da un cassonetto, Ekanta avrebbe messo in atto quest’ultima opzione, a parti invertite. Willow gli sorrise divertita, increspando le labbra.
            «Nessun problema, figurati. E poi, volevo sapere come andava con la ferita.» La fissò forse troppo a lungo, visto che cominciò a tormentarsi le dita, a disagio. «Se posso chiedere, ovvio.»
            Quello che più odiava di tutta quella assurda situazione era probabilmente il fatto di essere al centro dell’attenzione. Dopo aver interrotto l’assemblea, sotto lo sguardo di un numero spropositato di gente, era stato sballottato in infermeria per essere curato, con scarso successo; in Senato, dove Trivia lo aveva mandato in pasto a chissà quale impresa; e poi aveva girato la collina dei templi per parlare con l’Augure e lasciare un paio di monete sull’altare di sua madre. Le voci erano arrivate dappertutto, e poco importava che Crys avesse passato metà pomeriggio a rispondere alle domande di tutti: lui continuava ad essere additato alla stregua di un fenomeno da baraccone.
            «Va tutto bene.» Willow lo guardò, incoraggiandolo silenziosamente a continuare. «Sì, in realtà la ferita non è nemmeno un problema.» Onestamente, non aveva idea di che cosa avesse sentito, ma preferì non essere troppo specifico e l’assecondò.
            «Preoccupato per la profezia?»
            «Diciamo di sì.» Fece una smorfia, abbassando lo sguardo sui gradini e le carte. «Non ho la minima voglia di finire coinvolto in questo macello.»
            «Un po’ tardi per questo.»
            «Come se avessi avuto scelta.» Sospirò, rassegnato. Willow scrollò le spalle, e si poggiò contro la parete del negozio, girata verso di lui.
            «Non ci pensare troppo: sicuramente i nomi degli altri che dovranno partire verranno fuori nei prossimi giorni; altrimenti credo sarai libero di sceglierteli come da tradizione. Non serve a nulla preoccuparsi in anticipo.»
            Ekanta inarcò un sopracciglio e, davvero, si trattenne dallo stroncare tutta quella positività solo perché Willow gli aveva riportato la felpa, e tutto sommato la trovava carina.
            «Sarà.» Si limitò a dire. Willow gli sorrise ancora una volta.
            «Vedrai che andrà bene.» Si staccò dal muro e infilò le mani in tasca, scendendo i gradini. «Meglio che vada. Ci vediamo!»
            Ekanta la salutò con un cenno della mano, e l’osservò sparire lungo la strada. Si mosse solo quando fu sicuro avesse svoltato l’angolo, lasciandolo di nuovo da solo.
            «Miei dei.» Infossò il viso tra le mani, rendendosi conto di essere stato davvero ridicolo. Avrebbe potuto sforzarsi un minimo di più, giusto per non fare la figura del cafone ingrato.
            «Uccidetemi, vi prego.»
 
 
 
Il Campo Mezzosangue aveva diversi Oracoli su cui fare affidamento in momento di bisogno: c’erano le querce del bosco di Dodona all’interno della loro foresta, il cui ingresso veniva custodito dalle driadi; e poi lo spirito di Delfi, che risiedeva attualmente nel corpicino di una bimba di sei anni.
            Alice era arrivata solo l’estate scorsa, e fin da subito si era rivelata una fonte inesauribile di energia. La mattina sgambettava in mensa e si lasciava coccolare dai più grandi, masticando waffles straripanti marmellata e cioccolata, e poi subito scappava a giocare. Faceva gruppo con i più piccoli e correva in mezzo alle statue del cortile, raccoglieva le conchiglie colorate sulla battigia, si riempiva le guance con le fragole mature sotto il sole.
            Era difficile credere che un esserino così piccolo, che a malapena le arrivava alla vita, fosse capace di dare voce al destino di tutti loro e, in effetti, Blanca non l’aveva mai visto farlo. Alice non parlava attraverso versi in rima – non ancora almeno -  ma si divertiva a impiastricciare fogli su fogli con i suoi disegni incerti, rappresentando tutti i sogni che le attraversavano la mente.
            «Mi serve il grigio.» Le disse con aria solenne, e Blanca le passò il pastello a cera, osservandola tracciare delle linee un po’ confuse sulla carta. Aveva provato a sbirciare, ma Alice aveva piantato il braccino in mezzo a loro, e si era chinata così tanto sul suo lavoro, da poggiare direttamente la testa sul tavolo. Non aveva idea di come facesse a stare comoda, visto che le veniva il torcicollo solo a guardarla, ma lei continuava imperterrita a colorare come se non avesse una preoccupazione al mondo.
            Raccattò i disegni già finiti e li ordinò. Chirone era dall’altra parte del padiglione e, attualmente, stava parlando con la capocabina di Apollo, sul viso l’espressione più tetra che gli avesse mai visto. Non sapeva cosa fosse successo di preciso, e nonostante la curiosità, sperava che il centauro desse delle spiegazioni a pranzo, o a cena.
            «Mi serve un altro foglio!» Alice richiamò la sua attenzione, spingendo di lato il disegno finito. Blanca l’accontentò, e la vide fissare intensamente i pennarelli finché non afferrò il blu, stappando con soddisfazione e iniziando a scarabocchiare dappertutto.
            Aveva un’aria più serena rispetto a quella mattina: Blanca aveva fatto in tempo ad uscire per la colazione che Alfred, uno dei loro satiri, l’aveva trascinata fin sotto la veranda della Casa Grande. Aveva trovato Alice in un mare di lacrime, così disperata che i singhiozzi continuavano a scuoterle il corpo, mentre si aggrappava alla maglietta di Ed, che la teneva in braccio.
            Chirone le aveva detto che, probabilmente, aveva sognato qualcosa riguardo a una profezia e ne era rimasta terrorizzata. Blanca non poteva biasimarla, lei stessa non capiva i suoi sogni, e spesso si spaventava anche; ma immaginò che per una bambina così piccola non dovesse essere affatto semplice.
            Una volta calmata, Alice aveva reclamato tutte le sue attenzioni, e Blanca non ci aveva messo molto a capire che, in qualche modo, le visioni la riguardavano personalmente. Si erano messe a disegnare e Chirone aveva iniziato a far chiamare qualsiasi capocabina fosse disponibile al momento.
            «Non so come fare le stelle.» Pigolò Alice, aggrottando le sopracciglia. «Il giallo non si vede sopra il blu!»
            «Prova a usare la ceretta. Guarda.»
            Sul bordo del foglio, disegnò una piccola stellina, che risaltò nitida sopra l’inchiostro. La bambina rise entusiasta e le strappò il pastello dalle dita, iniziando a riempire il suo cielo.
            Blanca tornò a concentrarsi sui fogli. Non sapeva bene cosa aspettarsi, ma già la prima immagine le fece venire un colpo al cuore: l’omino era abbastanza stilizzato ma era lei, con la coda castana e la maglietta del Campo arancione. Nonostante lo sfondo fosse allegro, con una bella striscia di cielo blu, il sole in un angolo e i fiori sull’erba; la sua faccia era triste, con la bocca curvata all’ingiù e due grosse lacrime azzurre sulle guance.
            Passò oltre, osservando il resto. Nel secondo disegno c’era un deserto di sabbia con il sole che faceva capolino dall’orizzonte. Sul terzo compariva solamente un simbolo al centro del foglio, un cerchio storto con delle linee che si allungavano verso i punti cardinali. Poi il mare, una spiaggia, una donna altissima che occupava tutto lo spazio con i capelli neri e un vestito fatto di acqua e conchiglie.
            Più andava avanti, e più gli sfondi si facevano confusi; pieni di colori accesi e vibranti. C’era un cane su due zampe che indossava un vestito bianco e uno zaino, o almeno così credeva. Si teneva per mano con un altro cane più alto, rossiccio e con gli occhi verdi.
            Non aveva idea di che cosa volessero dire tutte quelle immagini. Riconobbe Lorina nei fogli successivi per via dei vestiti e del mantello, ma al posto della benda Alice aveva pasticciato con il pennarello rosso sopra il suo occhio sinistro. A ben vedere, tutte le gambe di Lori erano macchiate allo stesso modo, anche se il colore era stato coperto con del nero. La cosa la fece rabbrividire abbastanza da cambiare di nuovo foglio.
            Questa volta c’erano tre figurine. Un ragazzo altissimo a sinistra, e due bambine che lo seguivano. Tutti gli occhi erano stati stilizzati con delle lineette oblique, e i personaggi ai lati avevano orecchie a punta e code panciute che spuntavano dai vestiti larghi.
            L’ultimo disegno che le aveva dato la raffigurava di nuovo, ma questa volta accanto alla bambina del gruppo precedente, quella senza orecchie. L’aveva riconosciuta solo dai vestiti, perché a nessuna delle due Alice aveva disegnato la faccia: si era limitata a colorare solo la testa di rosa, e basta.
            «Ho finito!» Alice urlò e le spinse tra le mani il suo lavoro. Non aspettò nemmeno che dicesse qualcosa; balzò giù dalla sedia e si aggrappò alle gambe della ragazza che stava parlando con Chirone.
            «Posso usare la mazza?» Le sentì chiedere, e la mora le allungò la mazza da baseball che si trascinava ovunque, lasciandola libera di brandirla per il padiglione. Alice iniziò a sventolarla per aria, ridendo e giocando a non pestare le crepe sul pavimento della mensa, tutta felice.
            Blanca raccattò l’ultimo foglio, e nel momento in cui lo guardò sentì il cuore accelerare e una vertigine stringerle lo stomaco, come se si fosse affacciata su un precipizio e si fosse accorta di quanto profondo fosse.
            Circondati da un cielo blu pieno di stelle grandi e piccole, c’erano due ragazzini. Uno biondo, l’altro moro, con occhi scuri e sorrisi rossi. Era la stessa identica scena che aveva visto nel suo sogno; e più guardava quel disegno, più dettagli riusciva a riconoscere: gli ulivi con i tronchi storti che Alice aveva abbozzato ai lati, il mare, la spiaggia.
            Non sapeva cosa pensare. Era rimasta così colpita che poteva ancora richiamare la sensazione della sabbia sotto i suoi piedi, dell’aria calda e dolce dell’estate. Tutto era stato così intenso che si era marchiato a fuoco nel suo cervello.
            Con riluttanza, sistemò il bloccò di fogli. Chirone colse il movimento nervoso delle sue mani e, quando si avvicinò, Blanca sperò solo che avesse qualche risposta da darle.
 
 
 
Samuel incrociò le gambe sulla spiaggia, socchiudendo leggermente gli occhi. Sulla battigia, Scout aveva finalmente smesso di rincorrere le onde e si era accucciato, cominciando ad ammucchiare la sabbia in quello che sembrava essere un vero e proprio castello. Si stava divertendo così tanto che, ben presto, prese a scodinzolare, e Samuel osservò la coda muoversi a ritmo per qualche minuto.
            Era un cagnolino magro, con il pelo chiaro tutto arruffato e una tunica larga almeno il doppio di lui, decorata con ricami dorati. Le braccia erano sottili e lunghe, e le orecchie si muovevano a scatti sotto il velo che gli cingeva la testa. Come tutti gli esseri di quella dimensione, alternava caratteristiche antropomorfe a tratti tipicamente animaleschi. Non l’avrebbe definito un vero e proprio Arcano, assomigliava di più a un bambino sempre pronto ad entusiasmarsi per tutto. Faceva da guida a chi si perdeva tre le pieghe dei diversi mondi, e comunicava solamente a gesti e guaiti, portandosi appresso uno zaino di tela e un bastone intagliato con la punta ricurva.
            Aveva cominciato a fare buio, anche se lì era difficile percepirlo, visto che il cielo era costantemente scuro e le stelle erano visibili a qualsiasi ora. Sprazzi di luce viola e verde si allungarono verso l’orizzonte, in direzione degli altri Regni. Samuel affondò i piedi nella sabbia nera e sorrise a Scout, che gli stava mostrando trionfante una conchiglia liscia e lucida. Il cagnolino la posizionò in cima alla sua costruzione e poi si allontanò di qualche passo, osservandola soddisfatto.
            «È davvero molto bello.» Disse, e Scout annuì con un cenno della testa. Gli indicò in lontananza il palazzo di vetro del Mago, che scintillava alle loro spalle, immerso nella folta vegetazione dell’oasi.
            «Sì, è esattamente lo stesso.» Continuò, osservando con sguardo critico il modellino di sabbia. Scout si avvicinò per leccargli la faccia, dimostrando così tutto il suo apprezzamento, e poi caracollò tutto felice verso l’acqua alla ricerca di qualche manta rossiccia da accarezzare. Spesso si arenavano sulla sabbia, e quando le trovavano erano soliti rimetterle in mare spingendole con dei bastoncini.
            «Siete ancora qua fuori?»
            Il Mago si materializzò accanto a lui facendo increspare l’aria. «Pensavo che Scout fosse già tornato a casa.»
            Il cagnolino drizzò le orecchie sentendo il suo nome, e alzò la testa. Abbandonò la sua ricerca per avvicinarsi, e dal modo in cui osservò il cielo Samuel intuì non si sarebbe fermato ancora a lungo. Raccattò il suo zaino, si lisciò la veste bianca e preso il bastone glielo agitò sotto la faccia, in segno di saluto. Il Mago gli fece cenno con la zampa, e insieme osservarono Scout passare l’erba e tuffarsi in mezzo al laghetto tra le palme. La sua figura scomparve, e l’acqua rimase immobile.
            «Lo hai incontrato mentre venivi qui?»
            Samuel fece un cenno con la testa, alzandosi. Il Mago incrociò le braccia e le labbra si tesero verso l’alto, anche se il cambiamento era appena percettibile. Era una volpe snella dal pelo rossiccio, che si scuriva sulle zampe e all’estremità delle orecchie. Gli occhi erano allungati e di una sfumatura innaturale di viola, senza iridi e pupille; il muso sottile e ben definito.
            «Ho fatto fatica ad arrivare; ho aperto il passaggio ma mi sono ritrovato in mezzo al Regno della Torre. Scout mi ha dato una mano a non annegare.»
            Scosse le spalle. Il Mago non disse nulla e si limitò a voltarsi, camminando verso il suo palazzo; passata la spiaggia le palme si facevano più fitte, fino a lasciare spazio ad alberi sempre più alti e robusti, e i fiori sbocciavano sulle cortecce, tra i rami, insieme a una quantità spropositata di funghi. Mentre passavano, le corolle si schiusero e fiorirono all’istante, dispiegando i petali massicci.
            «Forse dovresti passare meno tempo qui.»
            «È un consiglio o una richiesta?» Domandò. Il Mago si lisciò le maniche della veste che indossava.
            «Vedila come preferisci.»
            Il palazzo consisteva in un’unica stanza circolare, dal soffitto così alto che si perdeva in mezzo alle sfumature del cielo. Le pareti erano completamente trasparenti, non c’erano porte ma finestre rotonde che si affacciavano all’esterno ad altezze differenti, e i mobili erano disposti con cura rivolti verso il centro. Due poltrone, un tavolino con una teiera di cristallo piena a metà, vasi di erbe aromatiche sospese sui muri. L’intero pavimento era un mosaico di tesserine cangianti che ritraeva il simbolo dell’infinito.
            Samuel aveva ammucchiato le sue cose ai piedi di una delle due poltrone, compresi i compiti di letteratura che, per una volta, era riuscito a finire. Non aveva nessuna fretta di tornare a casa e, anzi, probabilmente avrebbe passato tutta la notte lì come suo solito. Si accasciò sullo schienale morbido, rannicchiando le gambe incurante del fatto che avesse i piedi sporchi di sabbia e terra. Il Mago alzò un sopracciglio, ma non disse nulla. Gli rivolse solamente un sogghigno morbido prima di accomodarsi di fronte a lui. Anche da seduto torreggiava, superando i due metri di altezza.
            Con un cenno della zampa fece levitare il servizio da thè, e le tazze si riempirono all’istante mentre il profumo rendeva dolciastra l’aria. Fuori aveva cominciato a piovere, ma il mare continuava a infrangersi placidamente sulla battigia, senza neanche un’onda a scalfirne la superficie.
            «Che ne pensi?»
            Samuel bevve un sorso della sua bevanda, scaldandosi piacevolmente la gola. Sapeva bene a cosa si riferiva l’Arcano, eppure passò lo stesso qualche istante a guardarlo, prima di sogghignare.
            «Avrei messo dello zenzero, ma è buono lo stesso.»
            Il Mago alzò pragmaticamente un sopracciglio facendolo scoppiare a ridere. Di solito era abituato a rimanere impassibile, eppure Samuel in tutti quegli anni aveva imparato a riconoscere la sfumatura di divertimento nelle sue frasi, che andava dalla presa in giro all’ironia. Riuscire a prenderlo in contropiedi era sempre soddisfacente.
            «E così gli infusi sono diventati la tua priorità.» Gli disse, portandosi la zampa sotto il muso. Samuel storse la bocca in un sorriso e mando giù un altro sorso.
            «Ormai è ora. Gli altri hanno cominciato ad organizzarsi, e non credo passerà molto tempo prima che arrivino qui.» Disse. Un lampo squarciò il cielo in lontananza ma non ne seguì nessun rumore. La figurina della Torre si stagliava minuscola all’orizzonte, così tanto che se non avesse saputo dove guardare, non l’avrebbe nemmeno notata. «Tutto sommato credo sia meglio così.»
            Il mago annuì e le orecchie fremettero mentre l’osservava. Gli aveva mostrato immagini fatte d’acqua quando era arrivato; immagini di dei capricciosi e litigi che si erano protratti a lungo: Zeus che si faceva più alto sul suo trono, Era con il viso rigido mentre gli urlava addosso, supportata dalle sorelle e i figli. Nonostante l’incontro con le altre divinità alla fine si fosse concluso con ottimi risultati, convincere il Padre degli dei era stato estenuante, e le scene che aveva viso avevano confermato tutti i suoi sospetti. Atena aveva lavorato senza sosta per appianare le divergenze, intessendo le sue parole di ragione e buon senso come la più abile delle ricamatrici. E poi c’erano stati tutti gli dei minori; Vesta che si rivolgeva al fratello nella stanza dei troni, sua madre che lo metteva in guardia dei rischi a cui andava incontro se avesse peccato di superbia.
            La cosa, alla fine, non l’aveva turbato più di tanto.
            «Sembri diverso.» Il Mago inclinò la testa, divertito.
            «In che senso?»
            «Oh no, no ragazzo. Non in questo modo. Scegli le parole con cura quando fai una domanda.» Era una delle prime cose che gli aveva insegnato, da bambino.         «…In che modo? Così ti piace di più?»
            «Meglio. Anche se, lo sai…» Gli rivolse un sorriso morbido. «Dovresti smettere di cercare delle risposte, qui.»




- THE LOVERS –
 
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            DIRITTO

                       Gli amanti si abbracciano, uniti dalla consapevolezza di essere più forti uniti.
            Ricorda il valore della connessione e della comunicazione. Una nuova partnership potrebbe presto essere nel tuo futuro.
            ROVESCIO
                       Gli amanti si girano gli uni dagli altri, permettendo al ponte di comunicazione tra di loro di sgretolarsi.
            Potrebbe essere il momento di riesaminare le tue relazioni e decidere se i tuoi valori allineare veramente.






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Ci ho messo ben tre mesi a tornare, ma adesso che gli esami sono quasi finiti posso dire di essermi liberata abbastanza da tornare a dedicarmi alle mie amate storie.
            Mi spiace avervi fatto attendere così tanto, ma spero che questo capitolo vi piaccia: non so, forse è una maledizione romana, ma ogni volta che devo scrivere di loro è un parto ahahah nonostante ci siano alcuni oc che amo davvero.
            E nulla, non ho molto da dire in realtà. Ho buttato in mezzo alcuni spoiler per le cose future, giusto per divertirmi un po’ e niente.
            Un bacione e ci sentiamo presto! Passate delle buone vacanze e mangiate tanto gelato ahahah
            Itzi.
   
 
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