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Autore: alessandroago_94    18/06/2019    4 recensioni
1202 d.C., Gerusalemme.
Sono trascorsi due secoli da quando il matrimonio tra l’Imperatore Ottone III di Sassonia e l’erede bizantina Zoe Porfirogenita ha legato di nuovo le sorti dell’Occidente a quelle dell’Oriente. Il rinato Impero Romano ha espanso i suoi confini fino ad abbracciare il remoto Medio Oriente.
Bruno è solo un umile crociato, giunto in Terra Santa per difendere i pellegrini dalle insidie dei predoni locali. Non ha mai conosciuto la guerra e sta prestando servizio sotto la lunga e duratura pace che ha reso i Regni Crociati floridi e fedeli alleati dell’Impero, creando una serie di Stati-Cuscinetto che hanno protetto la Cristianità da ogni remota insidia.
L’arrivo improvviso di un principe cadetto nella Città Santa, però, è destinato a sconvolgere tutto ciò che il giovane crociato e i suoi confratelli hanno vissuto fino ad ora, da generazioni. L’ombra di una guerra epocale e decisiva tra Oriente e Occidente è alle porte.
Terzo classificato al Contest “Senza Tempo, II edizione”, indetto da Mystery_Koopa sul Forum di Efp (attenzione, si tratta di un’ucronia).
Genere: Guerra, Storico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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Capitolo due mystery

CAPITOLO DUE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pace è finita. A quanto pare, senza preannunciare nulla, Enrico Porfirogenito ha indetto una nuova crociata. Da quanto l’Impero si estende dal Sud Italia fino all’estremo Nord, e dall’Al Andalus fino all’Oriente, nessuno a parte i crociati si è mai realmente interessato alla sottomissione dei territori al di là dell’Asia Minore.

Secoli fa, qualche pontefice spinse i primi disorganizzati volontari a conquistare la Città Santa, mentre gli Imperatori si erano solo limitati a riottenere il controllo sui territori latini orientali perduti, quelli più prosperi e ricchi di porti commerciali, lasciando perdere la desolazione della Siria. Io e i miei predecessori abbiamo tenuto ben salda Gerusalemme e diversi altri Regni Crociati senza mai ricevere alcun aiuto diretto da parte dell’Impero.

Nonostante siamo formalmente in territorio imperiale e cristiano, abbiamo una nostra organizzazione, una nostra Regola e un nostro Ordine; vestiamo la cappa bianca con la Croce rossa e preghiamo quanto i monaci delle nostre terre natie. Parliamo il latino come tutti i sudditi di Costantinopoli, la capitale del rinato Impero Romano Germanico, ma in realtà ormai non siamo più abituati a ricevere ordini che siano emanati da altri oltre al nostro Maestro e dal Capitolo Generale.

Enrico è giunto fin qui in silenzio, prevaricando il nostro Ordine e le nostre Regole. Ha infranto la nostra pace, facendo giungere dall’Occidente tantissimi soldati, e pare che molti altri si stiano dirigendo dall’Asia Minore verso Edessa.

Ha portato così la confusione. E la confusione ci porta a mancare le preghiere e ad abbandonare le nostre consolidate consuetudini.

I miei confratelli non la pensano come me, anzi, sono euforici… si sentono protagonisti di un’impresa. Io invece ho tanta paura.

Mentre Gerusalemme è percorsa da questo improvviso fremito, ne approfitto per recarmi dall’anziano Adalbert, al fine di confessarmi. Questa volta conto di riuscirci, sperando di non essere interrotto.

Il vecchio infatti mi accoglie subito, anzi, sembra quasi che mi stia aspettando; egli si erge diritto nel mezzo dell’ingresso della sua umile chiesetta.

Quando mi nota mi invita subito a seguirlo.

“Sei qui per la consueta confessione, immagino, mio caro fratello”, afferma il prete-guerriero, continuando a camminare verso l’angolino più buio del sacro ambiente, dove confessa i peccatori.

“Proprio così, Padre”, confermo con grande rispetto. L’uomo si ferma, poi si mette a sedere sulla sedia in mezz’ombra.

Io mi inginocchio al suo cospetto, sotto le ginocchia il duro pavimento è già un assaggio di penitenza.

“Questo è un giorno in cui nessuno pensa ai propri peccati. Tutto questo ti rende grande onore, Bruno”.

“E’ solo ciò che ho scelto. È la mia vita”, replico.

Faccio fatica a trattenere il nervosismo che mi assilla dall’alba di questa mattina.

“Immagino che tu sia uno dei pochi in disaccordo con quello che sta accadendo”, riflette il sacerdote.

“Lo sono. Mi sono addestrato per difendere i luoghi santi, le reliquie e i pellegrini indifesi, e non per entrare nelle milizie personali di un signore terreno”.

Non mi freno, non ho peli sulla lingua. La mia spada difende Dio e i poveri, non prende le parti di chi vuole aumentare la sua influenza. Al di là della Terra Santa, già sottomessa, non c’è nulla che possa importare a un fedele devoto.

“Mio caro fratello, dispiace anche a me tutto quello che sta accadendo. E’ preambolo di sventura”, sussurra.

“Poi, un principe si presenta qui all’improvviso, facendo sbarcare tantissimi uomini e mettendosi d’accordo con i nostri vertici al solo scopo di inserirci tra i suoi guerrieri. Tutto questo senza alcun avviso pubblico, né il supporto del fratello Imperatore e del nostro Pontefice. Non lascerò che il mio orgoglio venga così piegato”, torno ad affermare a voce alta, e non me ne pento.

È solo quello che sento dentro di me. Eppure, Adalbert pare contrariato dalle mie parole e si china verso di me, stringendomi in un fraterno abbraccio.

L’odore d’incenso emanato dalla sua barba inebria per un attimo le mie narici.

“Fratello Bruno, cerca di non gridare queste parole”, mi sussurra all’orecchio, “se il principe intende indire una guerra contro gli infedeli, è naturale che sia giunto fin qui con la massima discrezione, cercando di non spargere la voce. Cogliere il nemico di sorpresa è una delle più valide tattiche belliche”.

Adalbert scioglie l’abbraccio.

“E ti ricordo che purtroppo viviamo sulla Terra, e non tutto è giusto. Tu hai un animo puro, beato alla Fede, quindi investi le tue forze nel tuo progetto. Ricorda però che hai anche dei superiori, ed entrando nell’Ordine hai giurato di obbedire”, prosegue.

“Quindi…”, borbotto, un po’ perplesso.

“Quindi se si dovrà combattere, combatteremo tutti. Se i nostri confratelli di rango superiore decideranno che ciò è cosa buona e giusta per l’Ordine stesso, allora obbediremo”. Le sue parole risuonano come profetiche.

“Se il Capitolo ha accolto e scortato il principe, presto sarà ufficiale la collaborazione, se non lo è già…”, replico, ma per un’ultima volta il sacerdote mi zittisce.

“Entro sera lo sarà, probabilmente, e sarà come Dio vuole! E tu sei qui per una confessione, ricorda, e non peccare continuando a parlare di altro. Queste sono decisioni che non ci sfiorano, noi poveri servi della Croce seguiamo solo ciò che viene deciso. Tutto qui. Procediamo, quindi! Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…”.

So di aver messo in imbarazzo l’anziano con tutti quei miei dubbi, e preferisco quindi lasciare che accolga la mia confessione e mi infligga molte preghiere in più da recitare. In fondo ha ragione lui, non dovrei nemmeno pensare di poter mettere in dubbio le decisioni dei nostri superiori e dell’Ordine. E se guerra dev’essere, che guerra sia, se questo è il volere di Dio.

Quando torno all’aria aperta, dopo aver pregato assieme al vecchio e averlo ringraziato per le sagge parole che mi ha rivolto, confortandomi un po’, mi lascio solo avvolgere dal frastuono di una Gerusalemme sul piede di guerra.

 

Due giorni dopo l’arrivo del Porfirogenito, siamo già tutti in marcia verso Sud. Il Maestro ha sancito che giorno e notte ode le grida di dolore dei nostri fratelli cristiani in Egitto, che invocano il nostro aiuto.

Gli Ayyubidi devono essere finalmente puniti per tutti i crimini che hanno commesso.

L’altra branca dell’esercito, rimasto a Edessa, calerà invece verso la Mesopotamia. La nostra duplice manovra servirà per attaccare all’improvviso e su più fronti un nemico per ora molto più numeroso, però non adeguatamente preparato.

Il lungo periodo di pace ha reso stabili i confini e probabilmente gli infedeli non si aspettano alcuna mossa improvvisa.

Noi, i Cavalieri di Gerusalemme, abbiamo la fortuna di poter combattere direttamente sotto gli ordini di Enrico, il giovane e spavaldo principe sicuro della vittoria della Croce. Egli ci guida in prima linea e veglia sulla nostra difficoltosa marcia.

Il principe è un giovane dai capelli scuri, tarchiato e dalla carnagione abbronzata, è un greco in tutto e per tutto. E’ comunque davvero molto risoluto, sembra che sia stato forgiato in mille e più battaglie, un vero veterano, ma tutti sappiamo che è la prima guerra alla quale partecipa. Forse non ha nemmeno mai annusato l’odore del sangue.

All’epoca dell’ultima guerra balcanica, quando moltissimi uomini di ogni ceto ed età erano stati arruolati per conquistare il Regno dei Bulgari e sottomettere per sempre gli ultimi Ungari rimasti erranti, doveva essere ancora in fasce. Io stesso ero un bambino piccolo, e ben so che dopo quel breve ma sanguinoso conflitto non ci sono state altre campagne militari degne di rilievo.

L’Impero Romano Germanico ha già raggiunto un’estensione imponente e anche l’odierno e giovane Imperatore pare non avere il desiderio di spingersi più a Est, dove ancora i Variaghi possiedono un vasto e florido Regno indipendente basato sui commerci con la Scandinavia e altre terre ignote. Ma ora noi siamo in piena crociata, quindi dobbiamo essere pronti al peggio.

Il mio inseparabile amico Michele marcia a mio fianco, e nonostante il clima ostile siamo come rocce, nulla ci scalfisce.

“Secondo te, come sono questi infedeli?”, mi chiede, ed io sorriso amaramente. Bella domanda.

Nella Terra Santa ancora ci sono numerosi predoni appartenenti ai popoli al di là del confine, ma sanno confondersi tra i Franchi vestendosi come noi, e utilizzano armi occidentali. Non ho idea di come si comportino in battaglia questi individui.

“Non lo so, probabilmente sono molto simili a noi”, rispondo con razionalità.

D’altronde, per ora siamo ancora in territorio amico. Non vale la pena fasciarsi la testa, ormai siamo stati obbligati a questa follia.

 

Camminiamo per giorni e giorni, sembra un vero e proprio calvario. Il paesaggio è sempre tutto uguale e ogni tanto ci sentiamo osservati, forse il nemico presto verrà a conoscenza delle nostre mosse. Ma probabilmente sarà già troppo tardi, poiché le nostre truppe sono già presso Gaza, nostra ultima roccaforte meridionale.

Non ci viene concesso nemmeno di entrare in città, poiché alcuni dei guerrieri provenienti dalla Germania si sono ammalati di strane febbri e si teme una pestilenza.

A noi si unisce un intero reparto di catafratti, la cavalleria pesante d’eredità greca che ha donato alla cristianità e all’Impero notevoli vittorie, soprattutto nei Balcani.

Adesso, mentre l’implacabile marcia forzata prosegue verso Sud, iniziamo ad avere paura. L’euforia iniziale è svanita anche presso i miei confratelli; anche se siamo gli unici a essere abituati a tali sacrifici, la fatica inizia a farsi sentire.

Tutta l’accozzaglia proveniente dalle altre regioni dell’Impero è ormai ridotta a retrovia, lenta e impacciata.

Ad accompagnarci c’è il Maresciallo, a cui facciamo tutti affidamento, ma egli non si sbilancia e non ci ordina altro che continuare a marciare. Presto siamo solo una massa umana taciturna, ma il silenzio del deserto viene interrotto dal rumore ritmico del ferro che portiamo addosso.

L’acqua scarseggia e le nostre stesse borracce iniziano a vuotarsi.

Enrico resta sempre davanti a tutti, ma non si mostra più baldante e gioioso. La nostra guerra sta per concludersi ancora prima di iniziare.

Entriamo quindi nelle terre degli infedeli senza nemmeno accorgercene, immersi nella vastità desertica che separa Gaza dalla remota penisola arabica e dall’Egitto. Le nostre notti diventano rapide e disturbate per paura di un attacco nemico, i giorni sempre più caldi e sfiancanti.

Seguiamo le rotte delle carovane che a lungo hanno fatto la spola tra i Regni Crociati e i vari califfati meridionali, ma non notiamo nessuna traccia di vita umana. Inizio a credere che forse il nemico si stia prendendo gioco di noi.

Beviamo e mangiamo sempre più raramente, la nostra situazione peggiora e le giornate scorrono tutte uguali, non sappiamo nemmeno da quante settimane siamo in marcia. Per fortuna non dobbiamo pensare molto.

Inoltre, almeno il deserto ci ha risparmiato le tempeste di sabbia e i suoi patimenti più estremi. La penisola del Sinai si rivela un vero ostacolo, ma non insormontabile.

Dopo settimane di fatiche e di privazioni, giungiamo infine in una fertile e ristretta fascia di pianura circostante un grande corso di acqua, dove ci rifocilliamo a dovere. Ma ancora non possiamo riposare. Dove c’è necessità, attraversiamo le acque su fragili zattere improvvisate e costruite sul momento con i tronchi delle temerarie palme che resistono anche a questo clima.

Ormai siamo macchine da guerra, non più uomini. Non parliamo più, né preghiamo se non tra i denti e di sera, prima di addormentarci.

Qualche giorno dopo, finalmente giungiamo in quello che viene subito identificato come il delta del Nilo. Siamo nel cuore dell’Egitto, ed è là, nella fertile piana, che ci attende il primo grande esercito nemico. Già dispiegato, pare sia in attesa da settimane.

Io faccio fatica a camminare, sono stanco e ho la vista offuscata, ma come tanti altri miei compagni non ho nessuna difficoltà a focalizzare la massa umana che, non appena ci nota, inizia a muoversi verso di noi. E questi nemici urlano parole incomprensibili e minacciose, decise e colme di rabbia.

Non c’è tempo da perdere; le nostre fila si organizzano in fretta e dagli ordini impartiti sappiamo bene che noi crociati saremo i primi ad affrontare l’orda degli infedeli.

Sfilo la mia spada dal fodero e mi metto in attesa.

L’impatto è devastante; molti di noi vengono spinti all’indietro e il fatto che siamo coperti di ferro non ci aiuta. I primi si sbilanciano, alcuni cadono e vengono uccisi, ma noi li rimpiazziamo subito.

Mi ritrovo così ad affrontare per la prima volta una schiera armata di infedeli.

Mulino la spada e cerco di fare del mio meglio, ma si nota subito che loro sono in vantaggio. Sono più forti, più rapidi, più agguerriti, più numerosi e preparati.

Vengo affiancato subito dal mio amico greco, mentre le nostre formazioni sembrano sciogliersi, per poi mischiarsi a formare una rissa confusa.

Non riscontro difficoltà eccessive nel limitare la tecnica di combattimento avversaria, anche se loro sono molto più rapidi di noi nei movimenti. Vestiti in modo semplice, con soli abiti leggeri che svolazzano a ogni alito di vento, i nemici godono di una libertà quasi assoluta, anche se sono più vulnerabili di noi. Non mi impegno in combattimenti seri, cerco la difensiva e tanti altri del mio stesso schieramento sono nella mia stessa situazione.

Forse non ce l’aspettavamo neanche più, di trovarci a faccia a faccia con questi mitici infedeli, finora sempre rimasti nascosti nel cuore dei loro ostili territori.

Giungiamo presto a un punto in cui capiamo che stiamo per battere in ritirata. Allora una voce si alza perentoria nel bel mezzo del grido rabbioso della gente che muore; è Enrico, il Porfirogenito che alza verso il cielo una lunga asta, e su di essa è incastonato il mitico frammento della Croce, che i sovrani greci vantano di tenere con loro da tempi immemori, fin da Costantino il Grande. Egli ci ricorda così la nostra missione.

Riprendo a combattere con maggior impegno, ora mi è chiaro che non sono in Egitto solo per volere di un potere terreno, ma anche per portare la Croce nelle terre dove tanti poveretti sono alla sua ricerca. Gente che ne ha bisogno per andare avanti, per sopravvivere alle atrocità a cui viene sottoposta dagli infingardi conquistatori blasfemi.

Per la prima volta, affondo la mia spada nelle viscere di un Moro. È stato facile riuscire a violare la sua scarsa difesa e lasciare che il ferro squarci le sue carni.

Mi è capitato di ferire molti predoni, ma non ne ho mai uccisi. Invece quest’uomo crolla davanti a me, la mia lama tra le sue costole e le braccia allargate. È un uomo che non ha viso, poiché come la maggior parte degli aggressori è ricoperto da veli che lasciano intravedere giusto i bulbi oculari.

E la mia vittima li ha sgranati, quegli occhi neri come la pece e arrossati da venuzze che diventano violacee…

L’attacco di un altro nemico distoglie la mia attenzione da quella del cadavere ormai disteso al suolo. Lo calpesto involontariamente, mentre la scimitarra si cala su di me come fosse un’accetta e mi costringe a chinarmi un po’, per parare il colpo.

La lama insanguinata della mia spada emette uno stridio sinistro nell’impatto, un rumore che si propaga nonostante il clangore della battaglia in corso. Eppure, resiste alla potenza dell’urto.

Anche la lama della scimitarra è imbrattata di sangue, presagio sinistro per qualcuno dei miei compagni.

Il contatto tra i ferri si scioglie e torniamo a confrontarci mentre tutti attorno a noi duellano caoticamente, ma in modo abbastanza equilibrato.

Mentre torniamo a saggiarci, il suono di un corno manda in frantumi la parità ritrovata, segnale che i poderosi catafratti sono riusciti a raggiungerci e sono pronti a darci man forte.

La cavalleria spazza via i nemici in un battito di ciglia, i fianchi travolti dai prodigiosi cavalli corazzati e dai guerrieri che li cavalcano, molto più Cavalieri di noi crociati.

Io e i miei confratelli ci disimpegniamo in fretta e furia, lasciando gli avversari in balìa della cavalleria.

La ritirata degli infedeli quindi giunge rapida, ma nessuno riesce a inseguire quelle leggiadre figure così rapide da scomparire senza lasciare traccia, come se non ci fossero mai state. Noi purtroppo non abbiamo le forze nemmeno per provare a inseguirli.

Crolliamo sfiniti sotto il peso del ferro, del caldo e della fatica.

“Avanti, prodi guerrieri! Oggi abbiamo vinto, dobbiamo onorare a dovere la vittoria”, ci incita il Maresciallo, girovagando sul suo cavallo.

Attorno a noi, ci sono più morti vestiti di ferro che di fresco tessuto di lino. Non è stata una così grande vittoria.

 

Io e Michele ci ricongiungiamo presso uno dei tanti rigagnoli che formano il vasto delta del Nilo. Beviamo l’acqua sporca senza nemmeno prenderci la briga di farla bollire, meritandoci gli insulti del Maresciallo e dei vari comandanti occidentali, ma che importa in fondo? Abbiamo una sete così devastante che ci conduce alla pazzia.

I vertici reclamano l’ordine, ma noi siamo bagnati dal nostro stesso sudore e abbiamo una necessità urgente di rimpiazzare i liquidi perduti. Nessuno può comprendere la profondità del nostro strazio fisico.

Una volta dissetati, ci abbracciamo con forza.

“E’ stata una battaglia del cazzo”, afferma Michele, contrito. Come dargli torto.

“Andrà meglio la prossima volta… l’importante resta vincere, in fondo”, trovo la forza di aggiungere, la lingua resa impastata dalla disidratazione.

All’improvviso, alcuni nostri compagni gridano.

Ci volgiamo a osservare cosa sta accadendo, e vediamo subito uno dei nostri mentre viene trascinato in acqua da un grosso coccodrillo. È stato afferrato alla spalla, quando da chino ha cercato di bere proprio come abbiamo fatto anche noi. Inutile l’opposizione di alcuni prodi che cercano di trafiggere le sue dure squame con un paio di lance dalle punte smussate a causa del conflitto recente.

Questo ci ricorda che siamo in un territorio così ostile che pure gli animali si ribellano alla nostra presenza. E questo triste evento può capitare a ciascuno di noi.

Al cospetto della tragedia, e forse con il timore che ciò possa riaccadere, i nostri superiori ci ordinano all’unisono di rimetterci in marcia. Andremo verso la costa, nell’attesa che la flotta di Costantinopoli porti altri rinforzi alla guerra appena iniziata.

 

Il paesaggio limitrofo al corso del Nilo è differente rispetto a quello a cui ci siamo abituati.

La piana è fertile e lussureggiante, dobbiamo sempre stare attenti poiché tra gli insidiosi e alti papiri potrebbero nascondersi pericolose e improvvise minacce. Anche se c’è molto verde, il caldo però non si attenua.

La nostra marcia è tutto sommato tranquilla, capita che qualche predone o beduino ci tenda qualche imboscata, ma sono situazioni che provocano poche perdite e che vengono sedate in fretta. Non sono l’unico a pensare che i nemici siano tutt’altro che sconfitti, chissà quindi dove stanno organizzando la loro nuova offensiva.

Ci sentiamo tutti meglio quando viene divulgata la voce che Damietta dista solo due giorni di marcia da noi, quindi un importante punto di sbarco lungo la costa potrebbe favorirci di nuovo e permetterci sostanziosi rifornimenti di uomini e cibo.

Quando però l’euforia pare averci indotto al punto di abbassare la guardia, forse credendo che sarebbe stato tutto più facile del previsto, ecco che giungono i guai.

Restiamo con il fiato sospeso mentre un rombo improvviso ci avvolge con la medesima sinuosità di un eco. Sono loro, la possente cavalleria saracena che si sta muovendo verso di noi.

Il nostro esercito si compatta, non capiamo bene da che parte sta giungendo il nemico e l’alta e fitta vegetazione non aiuta la nostra vista. I catafratti si dispiegano tutti nelle retrovie, e per qualche attimo speriamo che tocchi a loro la bega. E invece iniziano a spuntare uomini armati ovunque, da ogni lato, agitano le loro armi da taglio dalle diverse fogge e fatture.

Molti infedeli sono in groppa dei loro cavalli bassi e leggiadri, altri addirittura sui cammelli. Altri, ancora, a piedi. Una moltitudine così numerosa che ci manda in confusione.

Sbucano ovunque e si muovono senza difficoltà in quel territorio che conoscono molto bene. All’improvviso, nessuno urla più ordini né appare il frammento della Croce, a sovrastare la nostra battaglia. È come se fossimo soli.

Cerco il mio amico greco, forse nella speranza di una qualche sorta di sostegno, ma non lo vedo da nessuna parte.

Mi circondano tanti confratelli, ma è come se per me fossero volti ignoti.

Ancora una volta mi ritrovo a combattere contro un nemico vestito leggero e molto più agile di me. Mi limito a rispondere ai suoi affondi e a tentare qualche fendente, ma l’elmo ostacola la mia vista, già annebbiata dal sudore, e presto mi accorgo che la mia vita potrebbe finire qui.

Per questo cerco di resistere con un ultimo impeto d’orgoglio, combattendo con tutte le ultime forze che mi restano. Ho il fiatone e so che non ce la posso fare a resistere a oltranza.

I nemici che mi circondano alla fine diventano due, tre, quattro, mentre sembra che il nostro esercito si stia sciogliendo come neve al sole. A terra le cappe con la Croce impressa sono molte, e ferro e armature fanno inciampare e rendono difficoltoso anche il solo restare in piedi.

Avverto le grida dei catafratti, forse stanno cercando un’ultima resistenza.

Poi, il corno suona la sua melodia più lugubre e profonda: quella che sancisce la ritirata. Non mi metto a pensare, mi limito a spostarmi all’indietro e a pregare.

I Mori a questo punto hanno notato che tutti i nostri si stanno ritirando e capiscono che possono attaccarci senza alcuna paura.

La battaglia diventa così un catastrofico disordine, dove noi crociati e occidentali cerchiamo di svignarcela e gli infedeli ci assillano con prepotenza. Le uniche urla che si odono, ora, a parte quelle dei feriti, sono proprio le loro.

Dobbiamo ritirarci ma non sappiamo cosa fare, cerco infatti qualche figura di riferimento ma noto solo qualche altro mio confratello sparso qua e là, soverchiato dagli aggressori.

In preda al panico, mi tolgo l’elmo e cerco di assicurarlo al cinturone, ma non ci riesco e finisce a terra, perduto per sempre. Sono in guai grossi, poiché sto compiendo tutte le azioni che mi hanno sempre vietato fin dai tempi dell’addestramento. Mai separarsi dai componenti del proprio armamentario, durante una battaglia.

Ma io non ci vedo più nulla e la mia testa pare esplodere.

Con il capo libero ho una visuale maggiore, anche se sono molto più esposto.

Ho paura e continuo a muovermi a caso, di fretta e cercando di evitare ogni scontro. Un paio di infedeli mi sbarrano la strada, per mia fortuna sembrano ragazzini e riesco ad avere la meglio sul più basso, mentre l’altro è indeciso come me. Conta solo sull’agilità e sull’euforia del momento.

Io combatto quasi a caso, affondo con la spada e non lo perdo d’occhio fintanto che non riesco a mozzargli la mano destra. Quasi per miracolo. Si vede che le mie preghiere hanno fatto effetto.

Riprendo la mia corsa, questa volta verso il limitare del campo di battaglia, che finalmente pare vicino. La boscaglia che ha protetto gli assalitori ora potrà essere d’aiuto a noi sconfitti.

Riesco a raggiungerla e mi ci getto a capofitto, limitandomi a correre.

Il cuore mi esplode nel petto, ma non ci bado nemmeno.

Sono così tanto terrorizzato da non riuscire più a fermarmi, fintanto che non crollo sfinito all’ombra di un’alta palma da dattero, circondata da fitti papiri.

Mi rannicchio contro il tronco e resto con il fiato sospeso, consapevole di non avere più le forze necessarie per correre o per difendermi. Se qualche infedele mi ha seguito, avrà una vittoria facile su di me.

Per fortuna, il silenzio mi avvolge.

Temo anche le creature selvagge di questa località esotica, quindi resto molto vigile. È già un caso che sono ancora tutto intero. Continuo a non sapere cosa fare, sono solo e isolato, nonché distante dal luogo dello scontro armato, ed ho perso l’orientamento.

Resto così fermo e immobile per tutto il resto della giornata, finché il buio non mi avvolge completamente e il caldo del giorno si tramuta in un fresco così intenso da farmi tremare in continuazione.

 

Con l’arrivo del nuovo giorno, so che devo andarmene. Non posso restare qui in eterno.

Mi muovo tra i papiri con circospezione, ma la mia attrezzatura bellica fa rumore. Allora compio l’ultimo atto scellerato, spinto dalla disperazione estrema: mi tolgo tutto il ferro che ho addosso, e lo abbandono. Resto vestito con la mia cappa crociata, ai piedi le calze e ai fianchi il cinturone con la spada nel fodero, nient’altro. Non posso più permettermi di attirare anche solo accidentalmente l’attenzione di qualcuno.

Cerco liquidi, perché ho un bisogno folle e impellente di bere. La presenza di papiri così imponenti è segno che non sono molto distante da un corso d’acqua.

Quando la terra inizia a diventare umida sotto i miei piedi, capisco che l’agognata meta è veramente vicina.

Mi muovo con ulteriore circospezione, e mi ritrovo in una sorta di oasi, dove un ampio acquitrino si estende a vista d’occhio. Accecato, quasi mi getto a capofitto, ma sono costretto a bloccarmi all’improvviso poiché odo delle voci vicine.

È così che noto un gruppo di uomini che vestono la cappa, proprio come me. Alcuni miei confratelli.

Abbandono di corsa il mio nascondiglio e corro loro incontro, euforico e contento di averli ritrovati. A guidarli c’è il Maresciallo, appiedato e stanco. Quando mi vede, batte due volte le mani.

“Un altro di noi si è salvato, grazie a Dio”, mormora, e mentre mi getto a bere, un paio di mani gentili mi cingono le spalle. Si tratta della stretta inconfondibile di Michele, il mio fedele amico. Attende che finisca di bere prima di rivolgermi la parola.

“Dio è stato dalla tua parte anche questa volta, vecchio mio. Ti avevo già dato per morto”, mi dice, felice di avermi ritrovato. Gli dono un sorriso, il primo dopo mesi di triste fatica.

“Sono coriaceo, lo sai”, affermo.

Controllo chi mi circonda, e mi accorgo con chiarezza che siamo pochissimi. Una cinquantina, forse qualcosa in più. Molti sono feriti, altri hanno una brutta cera.

Mi volgo verso Michele.

“Siamo tutti qui?”, gli chiedo, ed egli scrolla le spalle.

“Chissà. Dopo che il corno ha sancito la ritirata, molti si sono arresi, altri sono stati massacrati. I catafratti sopravvissuti si sono radunati assieme ai soldati tedeschi attorno al principe, poi i nostri gruppi sono stati separati. Non so se sono vivi o se sono morti”, mi spiega. Ha evidente voglia di parlare, dopo il dramma della scorsa giornata.

“Noi speriamo che chi non è presente si sia salvato, e che presto Dio ce lo riporti come ha fatto con te”, interviene il Maresciallo, che è vicino a noi e ci stava ascoltando. Non so come replicare, meglio tacere.

L’uomo mi pare per la prima volta molto umano, minuto e tozzo, non un’autorità distante. Le rughe che solcano il suo viso scoperto dall’elmo mostrano tutta la gravità dei suoi anni e dei recenti sforzi esagerati.

“Sono tutti morti”, afferma un confratello disperato, “tutti morti, e non torneremo più indietro da questo inferno…”. Le sue parole sconfortanti ci levano ogni speranza.

E adesso, che si fa? Il nostro superiore ci osserva, poi allarga le braccia.

“Andiamo via, prima che ci scoprano. Proveremo a tornare a Gerusalemme”.

 

Non torneremo mai indietro, è questa la verità.

Di muoverci verso Est non se ne parla proprio, il delta sta venendo invaso da infedeli armati e anche i nostri spostamenti sono difficoltosi e molto limitati.

Proviamo quindi a seguire il corso del Nilo, ma sappiamo che prima o poi ci troveranno. Resta la speranza di ritrovare ciò che resta dell’armata del principe.

Nessun altro dei nostri si ricongiunge al nostro gruppo. I giorni scorrono lenti, abbiamo paura e siamo taciturni. Ci limitiamo a lottare per il cibo e per l’acqua.

Capiamo che siamo braccati quando ci accorgiamo di essere osservati, probabilmente qualche civile ci ha notato e riferirà presto agli altri Mori. Iniziamo quindi a muoverci alla rinfusa e in fretta, provando anche ad allontanarci dall’acqua, ma quando avvertiamo il rumore prodotto dagli zoccoli dei cavalli nemici, capiamo che è tutto finito.

Il Maresciallo si volge indietro, come tutti noi, e osserva gli infedeli in avvicinamento. Accorgendosi che li stiamo guardando, gli uomini lanciano grida rauche e spaventose, colme di potenza e di orgoglio.

Il nostro superiore è categorico sul da fare: non tenta una fuga, non dice nulla, non ordina più. Si mette davanti a noi e toglie la spada dal fodero.

“Arrendetevi, fratelli. Non ha più senso combattere. Dio ci vuole vivi”, afferma, poi appoggia a terra la sua arma e attende che i numerosi Mori ci circondino.

Noi tutti, stanchi e provati, compiamo il suo stesso gesto.

 

Siamo schiavi, ora. Non ci hanno uccisi, ma ci hanno legati ai polsi e ci trattengono dietro le loro cavalcature.

Ci costringono così a umiliarci.

La sete e la fame tornano ad annebbiare la mia mente, ormai non fa più differenza questa sconfitta completa.

Ci fanno marciare per mezza giornata, poi verso sera torniamo a raggiungere l’immenso corso del Nilo. Ed è in uno spiazzo appositamente ripulito dalla vegetazione che possiamo notare lo scempio finale, ovvero decine e decine di cadaveri ammucchiati e ormai ricoperti dalle mosche e dal fetore della putrefazione. I corpi sono nudi, tranne uno che è stato crocefisso a testa in giù. Nessuno di noi ha difficoltà nel riconoscere che si tratta del principe Enrico.

Ecco quindi dove hanno raggiunto gli ultimi superstiti e dove li hanno sopraffatti e sterminati.

Ci slegano dai loro cavalli e ci conducono al cospetto di coloro che erano catafratti e guerrieri dell’Impero. Ci costringono a inginocchiarci tra risa e grida di scherno, ed io obbedisco.

La maggior parte di noi però unisce le mani all’altezza del cuore e inizia a pregare a voce alta. Noto che anche Michele e il Maresciallo si sono inginocchiati, ma quasi nessuno ci segue.

Sapendo che la fine è prossima, vogliono morire con dignità. Gli infedeli non si fanno troppi scrupoli e iniziano a scagliare frecce ravvicinate a chiunque non si chini. Chiudo gli occhi, mentre quasi tutti i miei compagni periscono in fretta.

Li riapro quando non sento più il sibilo costante degli archi.

Evito di guardare i crani spappolati e i petti trafitti, con l’odore ferrigno del sangue fresco che si mischia a quello della carne marcia.

Siamo rimasti una decina, abbiamo paura e tremiamo da capo a piedi. Ci costringono ad alzare lo sguardo e ci danno un colpo di frusta ciascuno, trattandoci peggio delle bestie, prima di mostrarci la Sacra Reliquia che Enrico Porfirogenito aveva portato con sé da Costantinopoli, appositamente per quella sua crociata improvvisata: il frammento della Croce.

Il legno è scuro, quasi fossilizzato, mentre i Mori lo mostrano. Poi, a turno, ci sputano sopra.

La rabbia del Maresciallo esplode e l’uomo grida, cerca di divincolarsi, ma una scimitarra lo decapita. Dal suo collo spruzza via il sangue, mentre il corpo si divincola ancora un po’, prima di smettere di dimenarsi.

I barbari sputano anche sulla sua testa.

Ridendo e schiamazzando, porgono il frammento anche a noi, e capiamo dai loro gesti beffardi che dobbiamo compiere quel loro stesso e orripilante gesto, se vogliamo continuare a vivere ancora un po’. Nessuno si fa avanti.

Allora, in ordine, lo mettono sotto al naso del primo prigioniero, ma egli sputa in faccia al Moro che gliela porge. Viene immediatamente decapitato.

Poi, si passa al secondo, e al terzo. Nessuno sputa.

Michele, a mio fianco, prega a voce sommessa. Continua a pregare fin quando la sua testa ruzzola a terra, e ancora pare che le sue labbra continuino a snocciolare un Padre Nostro.

Ora sono l’ultimo, l’ultimo sopravvissuto alla mattanza. L’ultimo prigioniero da decapitare.

Il frammento della Croce mi viene posto con insolenza, ed io socchiudo gli occhi. Penso alla mia vita, se davvero tutto merita di finire in quel modo. Dio mi vuole vivo, diceva il Maresciallo. Non voglio finire come i miei compagni, con la testa che ruzzola sulla terra molle e il sangue che schizza ovunque. Presto i coccodrilli sbraneranno le loro membra.

No, io voglio tornare a casa, sogno la vita, la libertà. Io voglio tornare indietro, non voglio morire qui. Io ho scelto di servire Dio, ma non ho voluto questa sorta di crociata tanto agognata dal potere terreno.

Mi ritrovo a piangere, quando la mano di un infedele mi afferra i capelli e mi scuote con forza, per costringermi a fare la mia scelta.

“Pietà di me”, mi ritrovo ad affermare, poi sputo. La mia bava appiccicaticcia insozza la reliquia. Per salvare la mia vita, ho ripudiato Dio. Io, che ero il prolungamento del Suo braccio, un misero frammento di Lui.

Non faccio in tempo a razionalizzare la cosa, poiché mentre i Mori ridono e sembrano soddisfatti, uno di loro si fa avanti e si inchina a mio fianco, prima di sciogliersi il ridotto turbante che porta sul capo. La seta scende rapida lungo il collo e mostra un volto bianco, latteo come il mio. Capisco immediatamente che si tratta di un occidentale.

“Non devi dispiacerti, amico. Anzi, sei stato coraggioso”, mi dice in latino, sorridendomi. Io ancora piango, ma smetto al cospetto delle sue parole.

“Non… non… dirlo…”, balbetto, scosso e traumatizzato.

“Anche a me, tempo fa, è toccata questa sorte. Sono stato catturato dai pirati berberi, che poi mi hanno venduto a un egiziano che mi ha reso un servo fedele di Allah. Allah è il vero e sacro nome di Dio”, afferma con risolutezza, poi si rialza e mi lascia solo.

“Da oggi inizia la tua nuova vita”, torna a dirmi mentre si allontana, poi la sua figura si mischia a quella degli altri infedeli, e non la scorgo più.

Manco riesco a scinderla dalle altre, in tutto quel vorticare di immagini, scene, colori… ciò che mi frulla per la mente. Questo è il mio calvario, e chissà quanto soffrirò, ora che ho tradito anche Dio. Il mio Dio, il suo Unico Figlio così infinitamente buono.

Torno a piangere, disperato. Spero che ci ripensino e che mi uccidano, ho paura di ciò che accadrà adesso. Meglio l’inferno a tutto questo.

Mi lascio crollare al suolo, riponendo le speranze in una morte che, però, non giunge a liberare il mio animo traditore.

   
 
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