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Autore: Adeia Di Elferas    19/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Finalmente la sera era scesa su quella prima fase di accerchiamento di Alessandria. Gian Giacomo da Trivulzio si stava tergendo il volto sudato con un panno e si stava avvicinando alla mappa stesa sul tavolo.

Era una riproduzione abbastanza fedele della città e l'uomo confidava nel fatto che una buona pianificazione dei prossimi attacchi sarebbe stata la chiave per far cadere quel penultimo baluardo milanese nel giro di pochi giorni.

“Ecco, se la prossima scarica di artiglieria la riserviamo per questa porta...” stava dicendo Troilo, al suo fianco, in presenza di appena un paio di annoiati comandanti francesi: “Li porteremo a dividersi ai due poli opposti della città e quindi...”

La voce dell'emiliano venne tacitata all'istante da grida scomposte che arrivavano dall'accampamento.

“Che succede?!” chiese subito il Trivulzio, smettendo di passarsi lo straccio in viso e correndo verso l'uscita del padiglione.

Il sole era calato da nemmeno un'ora, ma la scarsità della luna, a tratti coperta da qualche nuvola, rendeva difficile vedere cosa stesse capitando.

“Cavalleggeri!” gridò un soldato, correndo incontro al comandante generale: “Una sortita degli alessandrini! Cavalleggeri!”

Gian Giacomo tutto si era aspettato tranne una reazione di quel genere, per di più a quell'ora, dopo che per oltre metà giornata, nell'afa torrida d'agosto, i nemici non avevano fatto altro che cercare di respingerli dalle mura.

“Ci penso io. Se ne ho il permesso.” si offrì all'istante Troilo, che, pur non avendo brama di mettersi in mostra, voleva comunque dimostrarsi un valido appoggio per l'amico.

Il Trivulzio, ancora un po' stordito per quell'inattesa notizia, annuì appena e soggiunse: “Ricacciali indietro, ma non inseguirli. Non siamo ancora pronti, per penetrare in città.”

Il Rossi gli dedicò un cenno di intesa e poi, dirigendosi verso il proprio padiglione, per andare a infilare almeno l'elmo e la corazzina, cominciò a vociare ai soldati gridando: “Cavalleria! Pronti tra dieci minuti! Cavalleria a raccolta!”

 

Caterina aveva vagato come un'anima in pena per i prati di Cassirano, senza preoccuparsi del fatto che, così facendo, stava quasi lambendo il confine con Faenza. Scottata dal sole incandescente che brillava nel cielo lattiginoso di quel pomeriggio, sarebbe anche stata pronta a morire per un colpo di balestra. Provava un distacco così forte dalla realtà, che nulla le sembrava peggiore del destino a cui era stata condannata.

Poteva quasi rivedere il suo Giacomo che si annoiava, che se ne stava in disparte, quel pomeriggio di quattro anni addietro. Lui non c'era mai voluto andare e lei avrebbe dovuto ascoltarlo fin dal principio. Era come se quel ragazzo di ventiquattro anni per cui lei sarebbe stata pronta a dare tutto, perfino la vita, se lo sentisse che se fosse andato a quella battuta di caccia non ne sarebbe tornato vivo.

Ricordava ancora l'ultimo bacio che gli aveva dato. Veloce, discreto, di nascosto dagli occhi curiosi degli altri. Poteva ancora sentire il calore delle sue labbra e rivedere il castano un po' banale delle sue iridi, che però, nei suoi occhi, sembrava il colore più bello del mondo.

Si erano amati per sette anni, malgrado tutto e contro tutti, con momenti di forti incomprensioni, con litigi anche feroci, ma ritrovandosi sempre. Per quanto Caterina avesse conosciuto uomini decisamente migliori del Barone Feo, non l'avrebbe scambiato con nessuno al mondo.

Quando aveva cominciato a scendere la sera, la donna si era ritrovata immersa nei ricordi più vecchi, lasciando in pace il corpo martoriato del suo grande amore, e rivedendolo diciassettenne, bellissimo, perfetto e ancora innocente. Non poteva non ricordarsi come lei, per lui, fosse stata la prima e unica donna. Nessun'altra l'aveva mai avuto, a parte lei, e non era una cosa da poco.

Il suo stallone, in sua compagnia, si era calmato molto, quel pomeriggio e, quando erano arrivati in direzioni di casa, s'era fatto docile come un cavallo da soma. Gli succedeva sempre così, quando stavano assieme per qualche ora, specie se erano soli. Era come se riconoscesse nella Sforza l'unica persona degna di domarlo.

La Leonessa, riscoprendosi abbastanza metodica, forse anche grazie all'impostazione militare che cercava di dare alla sua vita, condusse la bestia fin nelle stalle e poi, dopo averla strigliata per bene, le diede una buona quantità di cibo e la salutò con un buffetto sul muso.

Nessuno, tra gli stallieri e i garzoni presenti, avevano provato a mettere il naso in quello che stava facendo, e la donna fu loro molto grata, per quell'accortezza.

Malgrado, però, la distrazione data da quei gesti quasi automatici, mentre lasciava l'ambiente che puzzava di cavallo e biada, la Contessa sentì la voragine che aveva nel petto ancora così aperta e profonda da riuscire a stento a trattenere le lacrime.

Diede un'occhiata veloce al cielo che si scuriva rapidamente e si chiese, in silenzio, se anche la sera in cui era morto Giacomo ci fossero così tante stelle a quell'ora. Non sapeva rispondere. Non ricordava quasi nulla, di quelle ore concitate, se non la paura, la rabbia, e il senso di colpa.

La paura di essere anche lei una possibile preda di non sapeva ancora con certezza chi, la rabbia dovuta al sospetto verso i figli più grandi, che non avevano avuto nemmeno il coraggio di seguirla fino a Ravaldino, e il senso di colpa per non essere riuscita a proteggere il suo grande amore e, ancor peggio, per essere scappata non appena si era accorta di quanto stava accadendo.

Per cercare di sfuggire – inutilmente – a se stessa, la Sforza stava raggiungendo a passi brevi e un po' incerti la sala delle armi.

Mentre entrava, scoprendola per fortuna deserta, e si avvicinava al tavolone, dove stavano un paio di spade messe da parte perché ancora da valutare, Caterina si ricordò alla perfezione del momento in cui aveva visto Giacomo cadere in terra, trascinato giù di sella. Prima ancora di essere del tutto certa che fosse morto, lei aveva preso un cavallo e si era messa a spronarlo, per scappare subito e mettersi in salvo.

Non si riconosceva, in quella reazione, specie quando ci ragionava a freddo. Era certa di essere pronta a tutto, per Giacomo e, allora, si domandava, perché non aveva nemmeno provato ad avvicinarsi a lui, a parare i colpi che ancora lo trafiggevano?

Con un brivido gelido lungo la schiena, la donna cominciò a interrogarsi su se stessa e su quanto poco ancora si conoscesse. Prese una delle due spade e la impugnò in modo saldo, facendola roteare un paio di volte.

Era di discreta fattura, ma aveva un'anima troppo corta e il peso si sbilanciava troppo facilmente, rischiando, a ogni fendente o quasi, di affaticare troppo il polso.

Era più facile del previsto, starsene lì, nella penombra della sala delle armi, a saggiare quella spada, ed estraniare la mente. Anche se il ricordo di Giacomo non se ne andava, anzi, si sovrapponeva sempre di più ad altre immagini – come quella di Giovanni agonizzante nel suo letto a San Pietro in Bagno, o quella del cadavere di Ottaviano Manfredi, così sfigurato da essere riconoscibile solo grazie ai lunghi capelli color dell'oro – il ritmico e familiare movimento con il braccio nel ripassare le figure di scherma stava dando alla Tigre una sorta di onirico equilibrio.

Soggiogata da quei gesti ben studiati, che le restituivano con precisione la forma di tutti i suoi muscoli, il loro stirarsi e contrarsi, Caterina si accorse solo dopo qualche minuto di essere osservata.

Tenendo l'arma alta, come se dovesse difendersi da un momento all'altro, si voltò di scatto in direzione della porta.

Bianca alzò un po' le mani, in segno di resa, e sussurrò: “Perdonatemi... Ero solo un po' preoccupata, non avendo vista tornare per tutto il pomeriggio e così quando mi sono accorta che eravate qui, sono venuta a vedere come stavate.”

La ragazza avrebbe voluto aggiungere che, di norma, non si impensieriva, quando la madre non rientrava al tramonto. Conosceva le sue abitudini e sapeva bene quanto lei fosse in grado di difendersi da sola dalle insidie della città di notte. Ma quella era una notte particolare...

Colta da un moto di rabbia che non riuscì a gestire come avrebbe voluto, la Sforza lanciò la spada sul tavolone e sbottò, tra il clangore del ferro: “Non hai pensato che fossi in giro per i fatti miei o con un uomo in qualche locanda?”

La Riario strinse le labbra, non volendo commentare quell'attacco gratuito, e provò a proseguire su una strada abbastanza tranquilla: “Sforzino era molto felice, per i confetti. Mi ha chiesto di ringraziarvi moltissimo.”

La Tigre fece un cenno con il capo e poi, con un sospiro, incrociò le braccia sul petto e si mise a fissare la figlia.

Questa, al solo scopo di non far cadere il discorso nel nulla e di restare ancora un po' con la madre, che le sembrava incredibilmente bisognosa di qualcuno che le stesse vicino, ma che, come sempre, faceva di tutto per allontanare chiunque, disse: “Ho saputo che Casteggio è tra i paesi catturati dai francesi. Mi hanno detto che mia cugina Ippolita ha provato a combattere... Dicono che vi somigli.”

“Non vedo che ci sia di strano.” sbuffò la Contessa, voltandosi verso il tavolo e riprendendo in mano la spada che stava provando poco prima: “È pur sempre mia nipote, l'unica figlia di mio fratello Carlo... Qualcosa significherà pure...”

La giovane annuì e poi, sollevando lentamente gli occhi blu scuro, chiese: “Volete che vi lasci sola?”

Caterina stava per rispondere di getto, ma poi, stringendo appena di più la mano attorno all'elsa della spada, scosse il capo: “No, resta.”

“Insegnatemi a uccidere un uomo.” fece allora la figlia, trattenendo un tremito: “Potrebbe servirmi, in fondo.”

“Le basi te le ho già spiegate...” fece la Sforza, trovando quella richiesta solo un pretesto, scelto, probabilmente, perché nella logica di Bianca uccidere era uno dei pochi argomenti che la interessassero.

“Ero solo una ragazzina.” si oppose la Riario: “Adesso sono una donna, l'avete detto anche voi, e voglio imparare. Sapete che cosa rischiamo, io e i miei fratelli. Vi prego, insegnatemi.”

Finalmente la Leonessa capì che la giovane non scherzava, né parlava superficialmente. Fece un sospiro pesante. Rimise la spada sul tavolone, questa volta con una certa delicatezza, e poi le si parò davanti.

“Porti ancora un pugnale con te?” le chiese, ricordandosi di aver sentito qualcuno dire che la ragazza aveva presa da lei quell'abitudine.

Bianca annuì e lo estrasse da sotto le gonne. Era una lama abbastanza corta, sottile, ma nelle mani giuste sarebbe stata letale quando qualunque altra.

“Sei troppo lenta.” la riprese la madre e, nell'arco di un battito di ciglia, estrasse il suo e lo puntò alla gola della Riario: “Devi prenderlo così. Altrimenti chiunque capirà che stai facendo.”

La giovane trattenne il fiato, la lama fredda che le sfiorava la pelle. Chiese di nuovo alla Contessa di insegnarle tutto quello che poteva e allora, incurante della notte che avanzava e di tutto il resto, la Tigre cedette e si preparò a dare alla figlia una lezione molto importante.

La milanese si prese qualche momento e poi cominciò a darle una serie di dritte e di nozioni, seguendo un ordine sparso che, però, portava sempre e solo a un unico finale. Le spiegava come avvicinarsi a qualcuno senza farsi sentire, come piantare correttamente una lama, piccola o grande che fosse, in un corpo per far il maggior danno possibile e poi le dava qualche consiglio su come evitare, nel caso fosse stato necessario, di sembrare colpevoli.

“Non sono cose che una madre dovrebbe insegnare a una figlia...” sussurrò alla fine, mentre le mostrava per l'ultima volta come tenere in mano correttamente la spada: “Ma penso che siano cose utili e non voglio saperti in pericolo per una mera questione di pudore.”

Siccome ormai la notte era quasi al suo mezzo e Bianca, malgrado la buona volontà, poteva definirsi stremata, non essendo avvezza, a differenza di parte dei suoi fratelli, a quel tipo di esercizio fisico, Caterina decise di chiudere lì la lezione.

Mentre si faceva aiutare a rimettere a posto le armi che aveva usato per illustrare alla ragazza i tanti modi esistenti per mandare un uomo all'inferno, venne colta dalla necessità di impartirle anche qualche altra lezione, più prosaica, forse, e meno immediata, ma altrettanto fondamentale.

“Se quando arriveranno i francesi, dovessero prendervi...” cominciò a dire, la voce bassa che sembrava quasi un'eco sbiadita nella sala della armi silenziosa e quasi buia.

“So cosa potrebbero farmi.” ammise la giovane, passando alla madre il coltellaccio che andava riposto ai piedi dell'armario: “Non c'è bisogno che me lo ricordiate. So cosa fanno alle donne...”

“Ecco – fece allora la madre, abbassando lo sguardo, i capelli bianchi che riflettevano come fili d'argento la fioca luce lunare che arrivava da fuori – se dovesse capitare... Non pensare che sia tutto finito. Il corpo guarisce, e la mente impara a difendersi.”

La contessa non aveva fatto cenno all'anima. Quella, immaginava Bianca, forse non guariva, né imparava a difendersi.

Sapeva che sua madre parlava con coscienza di causa. Sapeva che c'era passata, per anni, e che, la prima volta, era appena una bambina. Ecco perché le sue parole pesavano come macigni. Era come se ognuna di esse fosse un blocco di ghiaccio che le scendeva tra il cuore e lo stomaco.

“E se prenderai sempre la mia pozione, come ti ho detto, figli non dovresti averne, per colpa loro...” continuò la donna, che ormai non aveva più la scusa di sistemare la armi e poteva solo rivolgersi direttamente alla Riario: “Ma se per caso non potrai più prenderla o non funzionasse, e ti trovassi incinta...”

Alla sola idea, Bianca avvertiva un profondo senso di nausea. Era sempre stata sicura di volere dei figli, anche tanti, e lo pensava ancora. Solo, non nel modo in cui le stava prospettando la Tigre. Li voleva assieme a un uomo che l'amasse, che lei amasse. Non per una violenza.

“Non sarebbe facile.” soffiò Caterina, gli occhi che si velavano, mentre ricordava a come si era sentita, quando, uno dopo l'altro, erano arrivati i suoi primi sei figli: “Ma tu hai un cuore molto più grande del mio. Sopravvivresti, lo so, e sapresti accettarlo, e arriveresti anche ad amare il piccolo che nascerebbe. Non dimenticarti che non avrebbe colpe.”

La ragazza apprezzava la teoria di quelle frasi, ma riconosceva nella madre poco abilità nel metterle in pratica.

“Almeno...” riprese la Leonessa, alzando appena il tono della voce e muovendo mezzo passo verso l'uscita: “Sono riuscita a non darti in sposa a qualcuno quando eri piccola. Alla tua età, io avevo già te. Tre figli. Da un uomo che non volevo. Non è una cosa da cui ci si possa riprendere facilmente.”

La Riario avrebbe voluto azzardarsi a chiedere se la Contessa ci fosse riuscita, alla fine, ma evitò.

Le bastava vedere il suo sguardo vuoto per capire che non era così e che il solo parlarne la ripiombava in un baratro da cui non si era mai risollevata davvero.

Erano ormai fuori, nell'aria che sapeva di notte di fine agosto. Faceva caldo e i rumori quasi irreali della rocca arrivarono alle loro orecchie ridestandole dall'atmosfera ovattata in cui erano state fino a un istante prima.

Avevano cominciato a passare sotto agli archi che affacciavano sul cortile d'addestramento e, senza doversi nemmeno mettere d'accordo, in automatico stavano andando entrambe verso le cucine.

Caterina aveva come motivazione lo stomaco vuoto, che cominciava a disturbarla. Si era resa conto di essere a digiuno da quella mattina. Per la ragazza, invece, seguire la madre era stato una sorta di riflesso condizionato.

Si imbatterono in un gruppetto di soldati che stavano per andare sui camminamenti a dare il cambio ai commilitoni. Era stata la Tigre a volere turni più brevi, la notte. Finché si poteva, voleva cercare si risparmiare i suoi uomini.

Quando arrivarono in vista del corridoietto che portava alle cucine, un'ombra si fece avanti dal punto più buio del passaggio e, nel giro di pochi istanti, la Sforza poté osservare alcuni dettagli che le resero subito chiaro il quadro generale.

Ad attenderle – o meglio, probabilmente ad attendere solo Bianca – nel buio c'era un ragazzo, anzi, un ragazzino, uno di quei soldati bellocci, ma che la Leonessa aveva sempre scartato come potenziale amante proprio perché dimostrava molto meno della sua età. Questi non si era accorto subito della presenza della Contessa, ed era partito alla volta della Riario con un certo slancio, come se fosse sollevato e al contempo molto felice per qualche motivo. Solo quando aveva visto anche Caterina si era frenato, ricacciandosi in gola anche le parole che stava per dire.

Nel frattempo, la ragazza aveva fatto un'espressione difficile da interpretare. Era come se avesse calcolato la possibilità che quel giovane fosse lì ad aspettarla, ma avesse creduto di essere in errore.

Insomma, se lui era apparso sollevato, lei sembrava essere all'esatto opposto.

“Mia signora.” fece il soldatino, con voce un po' rigida, e, chinando il capo, si congedò subito con un cenno: “Mi aspettano al turno di ronda.”

La Tigre aspettò di vederlo allontanarsi e non le sfuggì il fatto che, malgrado la sua presenza, si era voltato almeno tre volte per dare un ultimo sguardo a Bianca.

Dal modo in cui la figlia aveva preso colore in viso, la donna credeva di aver intuito, bene o male, cosa ci fosse sotto.

La Riario, che era stata convinta, dopo il suo ultimo rifiuto, che il soldato si fosse stancato di aspettarla davvero ogni notte in angolo buio, si sentiva lusingata, ma allo stesso tempo un po' spaventata.

“Almeno questo non è scappato come un coniglio.” commentò piano la madre, convinta di aver fatto centro.

Il rossore ancor più evidente, per quanto la luce della torcia più vicina fosse abbastanza fioca, sul volto della figlia le tolse ogni dubbio.

“Mi raccomando, Bianca – sospirò la Sforza, decisa a dar fondo a buona parte dei consigli che si sentiva in dovere di dispensare – se vorrai un uomo, sceglilo, non prenderne uno a caso. Non farlo solo perché hai paura di non aver tempo o di non aver scelta. Fallo perché lo vuoi davvero, con qualcuno che ti piace molto o che almeno ti attrae sul serio.”

Il silenzio imbarazzato che seguì quelle parole sembrava quasi un piccolo muro, non impossibile da scavalcare, ma abbastanza alto da rendere difficile attraversarlo senza fatica.

“Forse ti dico cose che sai già, ma non so quanto tempo ci resta, quindi voglio dirti tutto quello che devo prima che sia troppo tardi.” riprese la Contessa, mesta.

Mentre scrutava il volto della ragazza, che in quel momento le ricordava in modo crudele quello di sua madre Lucrezia, si trovò a pensare che, esattamente come sarebbe capitato con Galeazzo, Sforzino, Bernardino e Giovannino – soprattutto Giovannino, che per lei sarebbe rimasto sempre un bambino piccolo – non avrebbe mai potuto vedere i figli che, ipoteticamente, Bianca avrebbe avuto.

Pur contro la sua volontà, si commosse, più nell'immaginare quel che non avrebbe visto che non al pensiero che, con altissima probabilità, non sarebbe sopravvissuta all'arrivo dei francesi.

Lasciando il suo istinto libero di guidarla, ma questa volta per un buon motivo, Caterina abbracciò con forza la figlia, tanto da farle quasi male. Sentì un paio di lacrime roventi scavarle le guance, ma non si affrettò ad asciugarle.

“Adesso va a riposarti. O va a cercare il tuo bel soldatino, come preferisci...” le disse, con la voce ancora un po' rotta: “Adesso voglio stare da sola.”

 

Respingere i cavalleggeri alessandrini non era stato facile come Troilo aveva creduto in un primo momento. Erano organizzati, erano tanti e si intravedeva l'abilità di un ottimo condottiero – quasi per certo Galeazzo Sanseverino – nel guidarli in quell'incursione che avrebbe potuto far davvero male ai francesi.

Il de Rossi aveva fatto del suo meglio, potendo contare su una cavalleria ben equipaggiata, ma stanca dalla giornata che era stata tutt'altro che rilassante. Aveva avuto la meglio, per quanto avesse perso molti uomini, troppi, per un'azione del genere.

Non potevano permettersi simili scivoloni e lui lo sapeva bene, come lo sapeva bene anche Gian Giacomo da Trivulzio che, al momento di contare le vittime della loro parte, aveva storto la bocca e aveva commentato, con voce bassa e contrariata: “E questo sarebbe l'esercito del grande re Luigi...”

Poi si era rivolto a Troilo, gli aveva chiesto se stesse bene e l'uomo aveva annuito senza dire nulla.

Il piano restava quello iniziale. Bombardare, disturbare e, al primo segno di reale cedimento, attaccare e prendere la città.

“Con un po' di fortuna – aveva soppesato il Trivulzio, lanciando un'occhiataccia alla città che si stagliava poco lontano dal loro campo – quei maledetti non proveranno più ad attaccarci di notte e avremo modo di andare per la nostra strada senza perdere altro tempo. Ah, per ringraziarti di aver guidato la difesa al posto mio, troverai un regalo nella tua tenda.”

Quelle parole l'emiliano le aveva già sentite altre volte e sapeva bene cosa aspettarsi. Fosse stato per lui, si sarebbe accontentato di qualche bicchiere di vino e di qualche ora di sonno ristoratore, ma Gian Giacomo conosceva bene l'indole degli uomini, dei guerrieri in particolare.

Quando arrivò al padiglione e trovò già nuda e stesa sulla sua branda una delle donne che stavano al seguito del loro esercito, non fece complimenti e sfogò con lei la frenesia che la battaglia – specie se vinta con difficoltà – gli aveva lasciato addosso.

Tuttavia, poco più tardi, insonne, si mise a sedere. La donna dormiva in silenzio, coperta dal telo leggero che il de Rossi usava in estate. Di lei poteva vedere solo i capelli lunghi e mossi e le spalle olivastre. Poteva giurare che fosse per metà araba, o comunque orientale. I francesi ne avevano tante così, al loro seguito.

Quando aveva provato a scambiare con lei qualche parola, in uno zoppicante francese, lei aveva solo scosso la testa e gli aveva fatto capire che non lo comprendeva. Così, mentre si rendeva conto di non sapere nemmeno il suo nome, Troilo sospirò, smettendo di fissarla. D'istinto poteva dire che avesse passato i venticinque anni. Era stata una finezza di Gian Giacomo, che sapeva che l'amico non apprezzava le ragazze troppo giovani. Lo mettevano a disagio, preferiva qualcuna che si avvicinasse almeno un po' alla sua età.

L'unica certezza che aveva riguardo quella donna era che non l'avrebbe voluta, se non gliela avessero fatta trovare già spogliata e pronta per lui. La sua vita da esiliato gli aveva reso difficile trovare un equilibrio. Per carattere era moderato e riflessivo, quindi era sempre stato lontano dai guai, ma, per quanto volesse una moglie e una famiglia, suo padre Giovanni non aveva mai fatto nulla di concreto per procurargliela, spiegandogli che nella loro posizione, nessuno avrebbe concesso la propria figlia.

Troilo, allora, si era ripromesso di trovarsi da solo una donna da amare e che lo amasse, ma non l'aveva mai cercata seriamente. Così, da quando era un adolescente, si limitava a cercare la compagnia di qualcuno di quando in quando, senza eccessi, prendendosi lo spazio di qualche ora, ma perdendo poi subito interesse per chi aveva diviso con lui il letto, stando poi a volte da solo anche per mesi e mesi, andando via via convincendosi che non avrebbe mai trovato quello che cercava.

Sconfortato, il de Rossi fece un profondo sospiro, guardandosi le mani. Non le aveva ancora sciacquate a dovere e su una aveva ancora del sangue secco, memoria della battaglia di quella sera.

Si alzò lentamente, cercando di non svegliare la donna che ancora dormiva. Si sgranchì le gambe e poi, facendo un respiro un po' più ampio del dovuto, avvertì una piccola fitta al costato. Aveva preso un colpo, durante la scaramuccia, ma non si era reso conto di quanto duro fosse.

Si toccò con attenzione appena sotto la clavicola, all'altezza del dolore che aveva sentito. Non c'erano coste rotte, come si aspettava, però era molto più sensibile del solito. Quasi a volersi rinfrancare, si passò una mano sul collo, scendendo poi sul petto, a scompigliarsi un po' i peli chiari che si erano incollati alla pelle per il sudore. Faceva un caldo tremendo perfino a quell'ora.

Prese uno dei suoi teli da bagno, per non doversi rivestire e, legatoselo intorno alla vita, andò all'ingresso del padiglione. L'aria nella tenda gli sembrava stantia e chiusa. Sapeva che era solo un'impressione, ma non la sopportava più comunque.

“Vi serve qualcuno che vi accompagni?” chiese la guardia davanti al tendone.

Troilo si grattò un momento la barba e poi scosse il capo: “No, state qui. Che nessuno entri a disturbare quella donna, intesi?”

Il soldato, un italiano che, come tanti, si era venduto ai francesi perché il Moro risaputamente pagava con ducati alleggeriti, annuì e ritornò sull'attenti.

L'emiliano, a quel punto, sentendo finalmente qualche refolo di vento sulla pelle nuda, incurante di farsi vedere con addosso solo un telo da bagno che lo copriva a stento fino alle ginocchia, camminò rapido tra le tende, uscendo dal campo dopo essersi fatto riconoscere dalle ronde e aver loro detto che sarebbe tornato nel giro di poco tempo.

Avanzò con una meta ben precisa e, quando finalmente sentì lo scorrere del Tanaro – lento e tranquillo, soprattutto grazie ai mesi di siccità che ne avevano ridotto l'irruenza – si permise un sorriso e, lasciato cadere in terra il pezzo di stoffa, andò senza indugio verso il fiume, per togliersi di dosso l'odore della battaglia, della donna con cui aveva giaciuto e di quell'estate afosa che, forse, l'avrebbe infine riportato a San Secondo.

 

Caterina aveva trovato le cucine deserte. C'era buio e, per non perdere tempo ad accendere un sacco di candele che poi avrebbe dovuto spegnere una a una, aveva preferito la luce del grande camino.

Aveva preso dalla dispensa del formaggio e un po' di carne salata e aveva recuperato un fiasco di vino e, seduta al tavolo su cui di solito le sguattere pulivano la verdura e le carni, si era messa a mangiare e bere.

All'inizio non aveva avuto altro per la mente, se non il riempirsi lo stomaco. Poi, però, un po' per via del vino e un po' per la visione ipnotica delle fiamme del focolare, la sua mente era tornata ai momenti che aveva passato con Bianca, quella sera.

Era davvero felice di essere riuscita a non venderla a nessuno, quando era piccola. Anche se si era trovata con quella figlia appena di sette anni, quando era rimasta vedova, era stata in grado di scansare proposte e imposizioni, permettendole di passare un infanzia libera.

C'era la questione del matrimonio con Astorre Manfredi, ma si trattava solo di una facciata. Anche se, probabilmente, in futuro avrebbe potuto portare qualche problema, almeno per il momento sua figlia era una ragazza che era riuscita ad arrivare quasi a diciotto anni – che avrebbe compiuto in ottobre – senza doversi piegare a nessun dovere coniugale con uomini più vecchi o da lei indesiderati.

Il fiasco di vino era ormai vuoto e la Sforza stava per alzarsi e ritirarsi per la notte quando, benché volesse evitarlo, il pensare a Bianca la portò a pensare a se stessa.

Mentre rimuginava sul fatto che nessuno aveva fatto per lei ciò che lei aveva fatto per sua figlia, tornò in dispensa e si versò in una caraffa una buona quantità di vino nero. Ne era rimasto poco, ma aveva bisogno di qualcosa di forte.

Rimettendosi al tavolo, le iridi verdi che inseguivano le lingue di fuoco nel camino, ricominciò a bere, crogiolandosi nel rancore. Poteva rivedere ancora il volto di suo padre. Per lei, dopo quella notte maledetta, aveva perso ogni luce. Rivedeva anche i visi di sua madre Lucrezia, e di Bona di Savoia, entrambe, per quanto a parole fossero state sempre brave a dichiararle il loro affetto incondizionato, messe alla prova si erano dimostrate disinteressate, superficiali e ipocrite.

Forse il suo era un giudizio troppo duro, ma non poteva ammorbidire ciò che gli anni avevano reso un nocciolo sempre più duro nel suo cuore.

I calici si susseguivano, e intanto la Leonessa ripensava a Girolamo, al primo momento in cui l'aveva visto, quando li avevano fatti sposare. Non l'aveva quasi guardato. Non sapeva nulla, in quel momento, non capiva nulla. Se fosse scappata subito, appena aveva subodorato qualcosa, forse si sarebbe salvata, forse suo padre si sarebbe sciolto davanti alla sua dimostrazione di paura e forse...

Asciugandosi il lato delle labbra col dorso della mano, la Contessa scosse tra sé il capo e bestemmiò un paio di volte il nome del Duca Galeazzo Maria Sforza. L'amore incondizionato che aveva provato per lui, fino ai suoi nove anni, era stato sporcato per sempre e, in notti come quella, si trasformava in odio puro.

La rabbia che da quel giorno funesto di tanti anni prima si portava sempre in corpo le stava rigirando le viscere e scaldando il sangue. Sentiva il vino ribollire nello stomaco e bruciarle la gola, ma quelle sensazioni non bastavano a distrarla da ben altro.

Ricordava perfettamente tutto il dolore, l'umiliazione, la confusione, e la paura che aveva provato, mentre il suo primo marito si faceva largo verso di lei, sopraffacendola, distruggendo ciò che di buono c'era in lei, strappandole l'infanzia, l'innocenza e la spensieratezza dei suoi anni. Tutte cose che nessuno avrebbe mai potuto renderle.

La collera stava montando così tanto che Caterina avrebbe voluto aver di nuovo davanti Girolamo per poterlo uccidere a mani nude, come aveva fatto con Ludovico Marcobelli e con tanti altri.

La cosa, però, che più la disturbava e la faceva arrabbiare era proprio quel senso di impotenza e di debolezza che l'aveva sempre portata a sottostargli. Non in tutto, perché lontano dalla camera da letto, lei riusciva a imporsi, a sbeffeggiarlo, perfino a fargli paura. Ma lui aveva sempre avuto quel vantaggio, che si era preso scorrettamente il giorno in cui si erano sposati.

La Tigre poteva sentire ancora le mani di quell'uomo che ai tempi non conosceva se non di nome tenerla ferma, il suo corpo pesare sopra di lei, il suo respiro farsi veloce e caldo, e...

Con un mezzo urlo, che assomigliava di più a un ruggito, la donna scattò in piedi e lanciò la caraffa nel fuoco.

Benché fosse ormai quasi vuota, l'impatto del poco vino con le fiamme diede una vampata accecante e caldissima.

Per qualche istante, la Sforza rimase come stordita. Non se l'era aspettato. Era stata una cosa tanto improvvisa e inattesa che ebbe il potere di riscuoterla un po'. O, se non altro, di scacciare la sensazione così reale di Girolamo addosso a sé.

Prendendosi un momento la testa tra le mani, la Contessa si scoprì sciolta in lacrime. Forse era meglio così. Aveva trattenuto troppe cose, quel giorno.

Aspettò di calmarsi, si asciugò il viso nella manica dell'abito, e poi, con passo incerto, lasciò le cucine e andò nella sua camera, così sfinita da non avere nemmeno voglia di cercarsi un uomo con cui dimenticare i suoi fantasmi.

 

 
 
   
 
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