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Autore: Happy_Pumpkin    19/06/2019    2 recensioni
La nonna di Abel Mahogany sosteneva che nella vita ci fossero due tipi di scelte: quelle obbligate dalle circostanze e quelle fatte d'istinto. A volte certo erano connesse, ma di una cosa la vecchia signora Abigail era sicura: le decisioni istintive erano le migliori.
Tim Westfield però, con il suo cognome dal sapore inglese, la cadenza ignorante della Louisiana e la sequela effettivamente incontestabile di sfighe, manifestava le sue rimostranze in merito, proprio perché si trovava nella condizione di aver fatto una scelta d’istinto poche ore prima, più precisamente nella fase disperatissima del ‘rielabora a mente fredda quello che hai appena fatto, idiota’.
Un viaggio on the road ironico e a tratti malinconico, fatto di scoperte, di scelte, di personaggi eclettici e ricordi.
[Partecipante alla challenge Somewhere over the Rainbow indetta dal gruppo SasuNaru Fanfiction Italia in onore del Pride Month]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.

1.
Life





La nonna di Abel Mahogany sosteneva che nella vita ci fossero due tipi di scelte: quelle obbligate dalle circostanze e quelle fatte d’istinto. A volte certo erano connesse, ma di una cosa la vecchia signora Abigail era sicura: le decisioni istintive erano le migliori. Difficilmente alla fine dei conti si arrivava a rimpiangere di averle prese.
Anche se a fatto compiuto e ragionandoci a mente fredda sembravano azzardate, persino stupide, secondo lei negli anni a seguire si riusciva a vedere ogni azione passata sotto un’altra prospettiva, in uno dei tanti resoconti che si facevano nella vita: difficilmente, a quel punto, ci si pentiva del proprio istinto.
Viceversa, i pensieri troppo ponderati, lasciati a macerare come una pozione misteriosa nella testa, non portavano mai a nulla di buono.
Tim Westfield aveva conosciuto la simpatica nonnina in una delle numerose occasioni in cui era andato a trovarla con Abel, in ognuna delle quali lei lo aveva messo a parte di cose e opinioni sorprendenti: più volte gli aveva confessato di vedere l’angelo custode del ragazzo e altrettanto spesso ammetteva che il giovane Timmy, come lo chiamava, era buono sebbene fondamentalmente sfortunato. Tim però, con il suo cognome dal sapore inglese, la cadenza ignorante della Louisiana e la sequela effettivamente incontestabile di sfighe, manifestava le sue rimostranze verso la bontà delle scelte d’istinto con la stessa sicurezza con cui sapeva di non avere alcun angelo custode – lo avesse avuto davvero, data la posizione infima del suo umano assistito, la creatura paradisiaca avrebbe dovuto ormai da tempo fare qualcosa a riguardo, a meno che non fosse un sadico bastardo, il che effettivamente poteva spiegare il prolungato sciopero angelico di ben ventun anni, più o meno da quando Tim Westfield era nato.
Allo stesso modo, però, in quella sera di giugno il giovane della Louisiana in realtà avrebbe comunque voluto trovare un fondo di verità, sicuramente più plausibile rispetto al presunto angelo custode, per quanto riguardava tutta quella storia delle scelte d’istinto decantata da nonna Abigail. Proprio perché si trovava nella condizione di aver fatto una scelta d’istinto poche ore prima, più precisamente nella fase disperatissima del ‘rielabora a mente fredda quello che hai appena fatto, idiota’, dunque con conseguente realizzazione di aver compiuto forse una delle più grandi cazzate della sua vita. E, in proporzione, considerando che di cazzate ne aveva fatte davvero tante per aver superato da poco la soglia dei due decenni di vita, si trattava veramente di una cosa apocalittica.
“Akash mi ammazza. Non mi assumerà più” dichiarò all’improvviso, quasi fosse un’enunciazione scientifica. Fredda, senza inflessioni patetiche. Si mise un braccio dietro la testa e fissò il soffitto: tappezzeria anni ‘60 dalle sfumature color senape, ventilatore inutilizzato da chissà quanti anni appeso sopra le loro teste e mobilio scarno tipico di uno dei tanti motel a cavallo tra New York e Pittsburgh.
“Non ti ammazza, non ci perderà tempo” assicurò Abel con tranquillità, tirandosi su a sedere dopo aver schiacciato il cuscino piatto. Cercò la sigaretta elettronica che da qualche anno aveva cominciato a utilizzare al posto del tabacco, più o meno da quando nonna Abigail gli aveva detto che era troppo giovane per morire di cancro ai polmoni e lui si era spaventato a morte; già, a morte, tanto per rimanere in tema. Ciononostante, non aveva smesso davvero di fumare, accontentandosi di quel palliativo ingombrante e dagli odori mentolati. Abel era uno che più gli si diceva di non fare qualcosa, più si ostinava a farla; magari cambiando qualche carta in tavola, ma la mano rimaneva sempre la sua, con il suo personalissimo tocco, vincente o perdente che fosse.
“Beh, bella roba. Io intanto sono senza lavoro; mi mantieni tu? Tuo papà? Tua nonna? L’angelo custode fancazzista?” replicò Tim incattivito, reagendo in maniera più feroce del solito quando si sentiva messo all’angolo.
Abel voltò la testa verso di lui, lo guardò dall’alto verso il basso. Fece un mezzo sorriso, per poi espirare tra le labbra la nuvola al mentolo, dando prova della sua incrollabile pazienza, al contrario di quel ragazzetto più giovane di sei anni, più magro per quanto alto quanto lui, e decisamente più biondo, anche se non altrettanto pallido.
“Io. Ti mantengo io. Troveremo un altro lavoro, Timmy. Quell’indiano di merda era un coglione, un approfittatore arrivista che ti sfruttava e basta. Ti pagherà pure gli arretrati che ti deve, vedrai.”
Tim lo guardò, per poi tirarsi a sua volta a sedere e, nudo, incrociare le gambe rivolto verso l’altro.
“Come fai?”
“A fare cosa?” domandò Abel, ridacchiando placido.
“A essere così. Tranquillo, sicuro che le cose andranno in maniera spettacolosa quando, concedimelo, sono proprio una merda.”
Gli fissò i capelli scuri e mossi, lunghi fino alle orecchie, selvaggi, gli occhi altrettanto neri e la pelle di contrasto bianca, di chi stava sempre in soffitta – a volte Tim pensava che Abel avesse una relazione con il suo attico polveroso, che odorava di acqua ragia, vernici e polvere di marmo, piuttosto che con lui – e usciva la notte, quando faceva meno caldo e incontrava più gente interessante. Provò un moto d’amore, ma anche d’odio, in quell’equilibrio cosmico che da tre anni a quella parte reggeva la loro strana eppure intensa relazione.
Volle schiaffeggiarlo, perché era un ricco figlio di puttana, però desiderò anche baciarlo, perché era il più altruista, intelligente e devoto ricco figlio di puttana che conoscesse.
Davanti a lui sentiva davvero di avere ventun anni e non di essere un vecchio precoce, di quelli troppo stanchi e troppo cinici; la cosa lo spaventava e lo elettrizzava allo stesso tempo, dandogli un sapore di genuina invidia per tutti i soldi che lui aveva, la casa, il futuro, misto a un senso di karmika soddisfazione, perché se c’era una persona che si meritava tutto, quella era Abel. Idealista ma mai sprovveduto, artista eppure coi piedi per terra nella determinazione di andare avanti, a qualunque costo. Egocentrico fino all’infinito ma appunto generoso e capace di coltivare i rapporti, anche a distanze che Tim considerava interplanetarie. Lo amava nei suoi infiniti contrasti, sebbene a volte quell’amore lo facesse riflettere sulle proprie insoddisfazioni.
Si grattò la profonda cicatrice sopra il sopracciglio destro, che gli pesava sulla palpebra conferendo all’occhio un aspetto più stanco rispetto alla sua controparte sinistra, poi sospirò e si trattenne dal dire altro, perché in quel momento, in quel merdoso motel disperso chissà dove c’era Abel con lui, nonostante i progetti in corso, la scultura lasciata a metà e tutta la vita rimasta sospesa nel suo attico  a SoHo.
Lo vide aspirare da quello che gli ricordava un detonatore per bombe e poi prendergli la mano, facendogli smettere di grattarsi; allora Tim sospirò ancora, come se fosse una stupida questione di principio, o di sofferta rassegnazione.
“Amore – come riusciva a non essere nauseante anche chiamandolo con un vezzeggiativo simile? Come? – Sono così perché mi rende felice l’idea che tu ti sia levato dal cazzo. Quel posto faceva schifo. Dai: vendita di pneumatici, un sacco riparati con materiale scadente. È solo perché paga la gente giusta che quel posto non ha ancora chiuso e lui non è andato dietro le sbarre; woh, a quanto pare questo cazzone di Akash paga tutti, tranne i suoi dipendenti.”
I due si guardarono, nel silenzio notturno della stanza, eccetto per il ronzio del frigo minuscolo che odorava di muffa, con dentro una bottiglietta d’acqua presa alle macchinette: tutto, di quel viaggio, era davvero d’improvvisazione e di fortuna. Dopodiché, scoppiarono istintivamente a ridere. Allora Abel lasciò andare la sigaretta elettronica e baciò Tim, senza impeto euforico ma comunque con trasporto, dotato di quel fascino leggero e impalpabile della sua persona, che sembrava perennemente destinata un futuro più grande, sebbene confinata in una stanza decadente con un ventunenne solo e carico di delusioni. Un martire innamorato – innamorato... forse; Tim aveva dubbi persino su quello – che aveva deciso di immolarsi per rendere migliore la vita di quel ragazzo spiantato, coi capelli pallidi al pari della pelle lunare di un amante delle soffitte.
Lo baciò e fecero l’amore, anche se erano stanchi dopo un viaggio fatto sull’onda di quelle famose scelte istintive eppure con un obiettivo preciso, sebbene rimandato da troppo tempo.
Dopo ulteriori baci, carezze e in procinto di spingersi oltre, Abel guardò Timmy, abbracciato a sé, gli portò all’indietro i capelli lunghi incollati dall’afa e dal calore di ciò che erano, assieme; gli accarezzò il sopracciglio deformato dalla cicatrice, passando il pollice lungo il collo magro, dove vedeva le vene pulsare e il pomo d’Adamo sporgente spingere per scacciare la saliva scarsa.
Così arrabbiato, ferito, disilluso. A ventun anni. Pensava al lavoro mal pagato e pagato in ritardo, non si ribellava allo sfruttamento, anche se dentro piangeva e fuori urlava, scaraventava quel poco che aveva perché forse il nulla era meglio. Ma anche così… ah, era pieno d’idee, di fantasie, di racconti. Raccontava tanto, e bene. Storie della Louisiana, della mama Hazika che praticava il vodoo e usava le ossa di pollo, storie di quando riusciva a prendere con sua sorella il bus fino a New Orleans e vedere il Mardi Gras, storie della cucina creola di sua mamma, delle discendenze francesi dei nonni, della zona palustre in cui sognava di cavalcare alligatori misteriosi fino al vicino lago Pontchartrain.
Lo amò e lo sentì gemere, innamorandosi della passione con cui sconfiggeva la sua condizione di ‘sfortunato Timmy ignorato dal suo angelo custode’. Abel credette che anche quello fosse un suo racconto speciale, per ricordargli che persino lui sapeva amare.
Poi, all’improvviso squillò il cellulare, mentre lo stavano facendo e il letto cigolava con trasporto, la testiera sbatteva contro il muro e ansimavano, ignorando l’unica suoneria collegata a una persona specifica che Tim si fosse scomodato a mettere nel cellulare modello ultrabase.
Lasciarono che Lady Gaga continuasse a cantare e in un certo senso fu divertente. Abel guardò Tim, il quale però gli mise una mano sulla bocca, impedendogli di ridere anche se stava scoppiando a ridere a sua volta, ma soprattutto di chiedergli cose come vuoi rispondere?
“No” gli disse solo, ansimando. Poi gli tolse la mano e lo baciò, un bacio sconnesso, esattamente come era sconnesso, assetato, il modo in cui si cercavano.
Quando Tim venne, Lady Gaga aveva già smesso da un pezzo di suonare e il cellulare giaceva ormai silenzioso sul comodino.
Abe
.
Mormorò flebile, girando gli occhi verso il soffitto, quasi stesse per morirci. Metteva un’intensità incredibile durante l’orgasmo; chiamava Abel abbreviandogli il nome, quasi non avesse più fiato ma prima di andarsene volesse comunque avere tempo di ricordarsi del suo compagno un’ultima volta.
Questi lo guardò, non chiuse un istante gli occhi, anche se aveva le lacrime e sentiva il sudore contro le cosce e la fronte. Pensò che gli avrebbe fatto una statua, nonostante la promessa di non ritrarlo più. Ebbe a sua volta un orgasmo, però... un po’ si vergognò, per non essere altrettanto intenso, con l’impressione irrazionale che Tim potesse ritenere di non piacergli abbastanza. Westfield era fatto così: pensava di se stesso come un passatempo, un viaggio effimero con un ritorno senza di lui, ma non perdeva mai tempo a lamentarsene, dandolo per scontato, come se non gliene importasse particolarmente. Ragionava da vecchio veterano rassegnato, congedato dal sistema.
Il ragazzino della Louisiana si alzò infatti in piedi in fretta una volta che ebbero finito, legandosi i capelli come faceva d’abitudine per farsi la doccia. Sembrava non ci fosse sentimento in lui eccetto un tiepido distacco, terminato, esaurito in una supernova universale dopo aver fatto l’amore, quando prima era stato passione e sorrideva cercando paradossalmente di non farlo.
Abel si passò allora una mano sul volto, poi lo guardò prendere il cellulare e cambiare espressione.
“Perché mi ha chiamato?”
Tim sembrò chiederlo a se stesso. Forse era così.
Abel si alzò in piedi ravvivandosi i capelli ondulati, anche se erano schiacciati dal cuscino e dal sesso, e frugò nella tasca dei pantaloni per porgergli il proprio cellulare, anticipandolo su tutta la linea.
“Richiamala.”
Tim roteò gli occhi, con un senso di fastidio. Poi annuì e mormorò una sorta di grazie, tenendosi una mano sulle costole: quasi si abbracciava per suonare le ossa leggermente sporgenti, simili a tasti di un vecchio pianoforte da saloon. I suoi muscoli nervosi, i tendini del collo, ogni cosa sembrava tendersi fino a fargli spiccare il volo.
Compose il numero ricordato a memoria, per tutte le volte in cui l’aveva cercata in un bar o a casa di qualcuno così da dirle che stava bene.
Guardò Abel che, fermo con una mano nel suo caso sul fianco, in attesa lo osservava a sua volta, l’espressione intensa eppure placida capace di placare Tim, le sue paure, l’ansia e la rabbia.
Dopo diversi squilli rispose una voce maschile, che Tim conosceva bene, ed era così vibrante da assordarlo:
“È nata! Gesù Signore, è nata, è nata cazzo!”
Abel sgranò gli occhi scuri prima ancora di Tim e gli afferrò un braccio. Questi non si mosse. Aprì una volta la bocca asciutta e annuì, senza smettere di fissare il compagno.
“Ellie sta bene? La bimba anche?”
Domandò alla fine e sentì dall’altra parte Steve Wu, cinese di seconda generazione nato negli U.S.A., compagno e ora padre devoto... piangere. Tim seppe che era un buon pianto e, sollevato, senza pensarci si sedette per terra, espirando mentre il cuore batteva impazzito nel petto svuotato.
“Sta bene, Timmy, stanno bene tutt’e due. Quando smetto di tremare e tua sorella riprende a capirci qualcosa ti... ti mando un sacco di foto. Oddio, oddio, ci pensi? Sophie. Vuol dire sapienza, lo sapevi? Ellie si è letta un sacco di cose.”
Disse qualcos’altro e Tim lo ascoltò, mentre Abel gli si sedeva accanto, appoggiando la testa su quella del compagno per ascoltare a sua volta, anche se Steve parlava con sufficiente energia da sentirsi benissimo anche a distanza.
“Ok, ok, Steve, non preoccuparti. Quando riesci. Salutamele. Sapevo che... che non sarei riuscito ad arrivare prima del parto ma un po’ ci speravo.”
Lo sentì ridere leggero dall’altra parte del telefono: “Arrivare? Ma dove sei? Con Abel, giusto?”
Per qualche istante, Tim una volta di più realizzò che sua sorella aveva memorizzato in rubrica il numero di Abel. Evidentemente, lei ci credeva più di quanto ci credesse lui.
“Sono in viaggio. Veniamo a trovarvi. Ma è una sorpresa, non dirlo a Ellie.”
Sentì qualche esclamazione di deliziosa sorpresa da parte di Steve e pensò che come sempre era l’uomo capace di esprimere maggiore genuino entusiasmo sulla faccia della Terra. Sua sorella era una donna fortunata, finalmente.
Dopodiché lo udì zittirsi e abbassare il tono di voce: “Contaci. Ma e con Apu – sempre adorabilmente ironico sentire un asiatico ironizzare sugli stereotipi degli indiani, specie se quell’indiano era un pezzo di merda come Akash – come hai fatto? Ti ha dato giorni di ferie?”
Lo disse senza nemmeno crederci davvero, eppure fu in grado di manifestare una sorta di stupore quasi ingenuo.
“Sì. In un certo senso sì” mentì. Avvertì il respiro caldo di Abel, cadenzato e calmo.
“Bene. Bene. Grandissimo – tacque un istante, poi si sentì un fruscio e uno scambio di parole – aspetta. Aspetta, te la passo.”
Suo malgrado Tim sorrise. Si grattò la cicatrice, ma Abel si tolse dall’appoggio e lo fermò, scuotendo la testa con quel fare tranquillo, vagamente divertito eppure ammonitore che gli era proprio in quei casi.
“Ehi” disse la voce di Ellie, un po’ stanca, ma felice.
“Ehi” replicò l’altro. La sua era incrinata, sbeccata da quell’impatto imprevisto con il suo maltrattato lavandino intasato di emozioni.
“È una cicciona. Oltre nove libbre*. Secondo me diventa una bella biondona come te e la mamma.”
Tim rise e Abel si morse un labbro, fotografandolo nella sua testa.
“Una bionda cinese non s’è mai vista, entrerebbe nella storia. Mamma la adorerebbe.”
“Timmy...” mormorò dopo un istante, con la risata che si spense lenta, un fuoco dopo lo scintillio di un nuovo ciocco di legno.
“Riposati. Io sto bene. Mi mancate, Signore Wu.”
“Anche tu, baby, anche tu. Dai un abbraccio ad Abel da parte nostra. Steve ti manderà una foto di Sophie, anche se è rossa e piena di rughe – ridacchiò e aggiunse – non mia eh. Faccio schifo. La mia foto domani, dammi il tempo di riprendermi” sospirò, con fare fintamente drammatico.
Si salutarono e Tim chiuse la telefonata dopo un ultimo saluto di Steve.
Nuovamente avvolto dal silenzio, si grattò un gomito:
“Come si chiamano i mulatti quando sono cinesi e... americani? Mah, non proprio americani. Creoli? Francesi?” domandò a caso, senza che realmente gli interessasse.
Si alzò poi in piedi, con Abel che lo guardò. Disfò la coda, lasciandosi l’elastico al polso, infine si massaggiò il collo. Abel notò che sul proprio telefono erano arrivate una serie di foto di Sophie, una delle quali ritraeva in pieno anche la mamma che cercava di guardare altrove per non essere catturata dall’obiettivo.
“Saremo gli zii che la porteranno alle mostre d’arte, a teatro, a vedere le drag queen più fighe del pianeta” annunciò, distendendo le gambe sul pavimento fresco, come se facesse una previsione ormai certa. Sembrava un divo o un Gesù moderno, forse entrambe le cose. Tim schioccò la lingua, gli prese il cellulare quasi con stanchezza, quasi non volesse davvero vedere le foto.
“Tu e la convinzione che il tuo mondo queer sia speciale. Siamo solo ricchioni, Abel, non c’è nulla di cui vantarsi.”
L’altro gli dette un calcio alla caviglia, leggero, una sorta di pacca, e replicò: “Se siamo solo ricchioni allora perché non ci lasciano in pace e siamo ancora costretti a manifestare per i nostri diritti? Domani ti porto in un posto figo, amore” decretò all’improvviso, in uno dei suoi infiniti collegamenti tra un discorso e l’altro. Si alzò in piedi, prima che Tim potesse afferrargli il piede.
“Una delle tue due tappe prima di arrivare a Lafayette?” domandò Westfield, senza ancora guardare le foto. In quella posizione, nudo, coi capelli sciolti oltre le spalle e un po’ sporchi per via del sesso e del caldo, il cellulare schiacciato contro il petto, Tim sembrava un ragazzino invecchiato presto, come se si fosse appropriato di anni non suoi. Eppure, anche con il suo sopracciglio appesantito dalla cicatrice, la muscolatura nervosa e lo sguardo cinico, aveva una sua personale forma di bellezza, simile a una statuina di vetro che rifletteva le luci dell’arcobaleno ma, purtroppo, con l’arrivo della notte si eclissava.
“Una delle mie due tappe – confermò – ho intenzione di pensare alla mia prossima mostra. Potrei lanciarmi nella fotografia, credo di avere un certo talento” ammise, senza falsa modestia.
“Indubbiamente” replicò Tim, a sua volta senza cinismo. Ci credeva davvero e apprezzava quell’ego sicuro di sé di Abel; avrebbe voluto poter succhiare un po’ di quella convinzione ed essere così capace di piacere comunque agli altri.
Alla fine Tim si decise: abbassò lo sguardo e vide la foto di Sophie, dopo aver sbloccato lo schermo. Ovviamente la bimba aveva i capelli neri, anche se radi, ed era bruttina, come tutti i neonati appena decompressati dopo l’uscita dal confortevole utero. Non capiva se si vedesse qualcosa degli occhi, se fossero vagamente a mandorla o meno. Era una smorfia addormentata di rughe.
“Mia nipote.”
Nel dirlo, per la prima volta ebbe gli occhi lucidi. Sigillò le labbra e si sedette sul letto, dopo essere indietreggiato mentre continuava a guardare la foto.
Pensò che l’idea di Abel, di loro due zii, non fosse poi così folle. Perché no, giusto? Magari... beh, magari in fin dei conti nemmeno tutta la storia delle scelte d’istinto professate da nonna Abigail era poi così sbagliata.
Sollevò la testa e gli chiese all’improvviso, dopo aver appoggiato il cellulare sul comodino:
“Siamo quello che siamo; nel nostro piccolo, possiamo essere stelle: ce ne sono tante nel cielo, ma ognuna a modo suo brilla. Hai ancora voglia di fare l’amore con me, Abe?”
Questi gli sorrise, mordendosi un labbro. Avanzò e si piegò sulle ginocchia, posando le mani sulle sue cosce: “Sempre – gli baciò un ginocchio – zio Timmy. Zio Abel.
Poi lo baciò ancora. E Tim non lo zittì, cominciando a crederci, con il cuore che galoppava e la vita che scorreva in sangue. La vita, lui l’aveva quasi vista nascere.

 

Sproloqui di una zucca

Lo so, dovrei scrivere di un mucchio di cose e ne ho altrettante da pubblicare, ma è un periodo intenso e non avevo la giusta concentrazione. Poi ieri sono stata illuminata dall'ispirazione e ho scritto di getto, dopo aver pensato e ripensato ai protagonisti di questo racconto breve, di cinque capitoli, che illustrerà un viaggio on the road.
Ringrazio il gruppo SasuNaru Fanfiction  per la bellissima challenge a tema per il pride month (qui il link
https://www.facebook.com/groups/1712840615712529/permalink/2254066268256625/), per ogni colore della bandiera arcobaleno, simbolo della comunità LGBT, cii sono dei prompt associati.
Il primo colore è il rosso, la vita, con ulteriori prompt Scoperta / Dubbio / Passione.  Mi sono concentrata sulla vita, ma anche sul dubbio e sulla passione, sebbene il primo inerente al dubbio esistenziale.
Dedico questo capitolo in particolare a Sunako, la futura zia che mi ha ispirata per il prompt più bello ed emozionante di tutti: vita. Sarai la zia più bella, sensibile e tosta del mondo. Tuo nipote è fortunato, fortunatissimo.

P.s. il titolo principale è ispirato a due canzoni, una di Jimi Hendrix, Voodoo Child, l'altra di Johnny Jenkins, I Walk on Gilded Splinters. Hanno tutta l'atmosfera che volevo per questa storia e un tocco di New Orleans.

 

 

 

 

 

   
 
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