Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Bianca_brunori    21/06/2019    1 recensioni
A volte dura solo la notte. Ma la notte può essere abbastanza.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Le luci della sala vengono spente. La saracinesca della biglietteria viene abbassata. La serratura della porta del cinema scatta. La strada è silenziosa, solo i tacchi delle sue scarpe scandiscono il passare dei minuti nel momento della giornata in cui ogni secondo sembra dilatarsi all’infinito. Eppure, il passo di Anna non è pesante: lei fluttua. Sembra uno di quei lenzuoli stesi per i vicoli delle città del sud: si lascia attraversare dal vento, si muove con una delicatezza quasi infantile. La notte è il momento che più ama nella giornata, per questo chiede sempre i turni di chiusura del cinema. Le piace osservare gli avventori degli spettacoli delle dieci: coppie di innamorati che bisbigliano, impiegati che sullo schermo ricercano quella vita che a loro è scivolata via dalle mani, giovani intellettuali che dietro ad occhiali tondi dalla montatura spessa catturano le parole che utilizzeranno in uno dei tanti dibattiti di cui si sentiranno protagonisti. Lo spettacolo delle dieci è riservato a pochi: per questo Anna ogni sera si ferma ad osservare quelle figure disperse per la sala e a volte si siede sulle file in fondo, per ricordarsi l’odore delle tende rosse che oscurano l’ambiente, la sensazione d’attesa che scaturisce dal lento abbassarsi delle luci. Ogni notte, mentre raggiunge il cinema, Anna si affaccia sulla darsena e, premendosi il basco rosso sulle tempie, guarda le persone tirare fuori dalla borsa i calici, il vino e tutto il necessario per quello che è di fatto un aperitivo arrangiato, per lei una delle manifestazioni degli ultimi romantici. La darsena le è sempre piaciuta, soprattutto d’estate, quando l’aria umida si attacca alla pelle e si trasforma in una sottile pellicola. A volte, mentre aspetta la fine della proiezione, infila il naso nella piega tra il braccio e l’avambraccio e inspira. È il suo odore preferito: quello della notte di Milano, quello che ogni sera la porta da Jacopo.  Se lo ricorda bene il loro primo incontro. Aveva subito pensato che la sua andatura sfrontata fosse uguale a quella dei bambini di “Sciuscià”: le mani in tasca, la fronte alta, la frangia che ondeggia ad ogni passo. Si ricorda bene il momento in cui lui aveva incrociato le braccia sul bancone e, sporgendosi in avanti, le aveva chiesto un biglietto singolo.  
Ogni volta che inspira l’aria della darsena, Anna chiude gli occhi e lascia che le sue palpebre proiettino le immagini di quella sera, come fossero quelle di un film. E forse si era trattato proprio di questo. Quella sera era stata la scena perfetta di un film di Wes Anderson: le luci saturate, i contorni nitidi. Le persone che camminavano per Milano sembravano essere soltanto delle comparse, delle figurine di cartapesta che dovevano muoversi intorno ai suoi dialoghi con Jacopo. E così quella sera avevano preso forma le cartomanti di Brera, che offrivano il nome di un amante o la chiave per la felicità eterna. E poi i musicisti di strada, a cui Jacopo aveva lasciato degli spicci. “Il folk mi ricorda casa, Anna.”
 
Quelle strade con te le ho ripercorse talmente tante volte nella mia testa che penso di aver mischiato ciò che è realmente accaduto a ciò che ho soltanto immaginato. Non ho mai capito se tu stessi recitando il tuo bel copione da attore avviato o se ti fossi concesso almeno con me il lusso di improvvisare. E forse è meglio che io non abbia mai scoperto la risposta. Cosa vuoi che ti dica? Dicevi di non voler farmi soffrire. Lo dicono tutti. E in realtà, ad oggi, non so neanche se posso dire di aver sofferto per te.  Perché non so se mi manchi veramente tu. Quello che sono sicura mi manchi è quell’egoistico piacere di essere anche solo per cinque minuti al giorno la protagonista della tua mente, di sapere che anche una sola delle tue decisioni dipenda da me. Quindi, in effetti, io non piango per te, ma per quella me che sentiva di non essere di troppo con te. La morsa allo stomaco quando ti vedo entrare, con quella sfrontatezza che tolleravo soltanto in te, quella non se ne è ancora andata del tutto. Però si affievolisce con il passare dei mesi. A mano a mano, lascia spazio solo ad una vena di nausea, che mi assalta la pancia  quando penso alla mia quotidianità senza di te. Non l’ho mai detto ad alta voce, perché mi spaventava il vincolo che quelle parole creano, ma a sipario chiuso tutti gli attori si tolgono la maschera: ti amo. Sei stato l’unico che io sia mai stata in grado di amare, di certo non quello che se lo sarebbe meritato di più. A volte spero di sognarti. E nel sogno ti cerco. Aspetto di girarmi e di incontrarti in un vicolo cieco; a volte riesco a ritrovarti davanti a me. Ti avvicini e, inspirando, infili il naso nell’incavo tra il mio collo e la spalla. Allora capisco che sto sognando. Perché nella realtà preferisci tornare a quando eravamo sconosciuti ed io ti sussurravo soltanto un flebile “Buona visione”.
 
La guardavo e mi chiedevo come quel corpo, che sembrava nato per fluttuare, non avesse mai imparato a nuotare al largo. “Mi spaventa l’acqua alta. Non riesco a nuotare se non vedo il fondo. Ho paura di non avere il controllo.” Anna, quella sera avevi scelto di nuotare al largo; per una sola volta avevamo scelto di svestire i panni dei ruoli che ci eravamo scelti: la nostalgica sfuggente e il dandy senza cuore. E, in fondo, non era stato così sbagliato. Tu non te ne accorgi ma prima di entrare nella biglietteria ti guardo dalla vetrina per cinque minuti. Ricordo bene cosa mi ha colpito di te la prima volta che ti ho vista. Il tuo collo. Perché forse è la parte del corpo che meglio esprime il tuo carattere. A volte lo tendi, fiero, caparbio; ci sono però dei momenti in cui lo pieghi in avanti e lo torturi con la mano, fino a farlo diventare tutto rosso. In quei momenti ti perdi con lo sguardo fisso nel vuoto e quelli sono gli attimi che preferisco, perché so che stai lasciando che sia la tua mente a circondarti, perché so che stai pensando. E io sono innamorato dei tuoi pensieri. Sì, lo sono ancora. Vorrei che tu capissi.
 
“Come stai?”
“Come sempre, Jacopo. Dormo poco, bevo il giusto, non fumo. Leggo dieci pagine prima di andare a dormire, il più delle volte mi addormento sull’undicesima. La mia vita è perfettamente nella media.”
“Sei scostante.”
“No, sono stufa.”
“Chiamami ogni tanto.”
“Sono 5 euro, fila F, posto 20.”
 
L’aria è più pungente del solito, tanto da sembrare meno inquinata. Anna abbassa la saracinesca e gira la chiave del lucchetto. Decide di allungare la strada. Passa per le strade più strette; le porte dei locali si aprono e si chiudono, lasciando uscire un po’ di aria consumata e di frammenti di dialoghi. Si solleva sulla punta dei piedi quando vede la luce accesa nelle case, perché spera di intravedere le sagome di un bel romanzo familiare. Continua a camminare, finché non lo trova. È lì, di fronte a lei, imponente, severo, paterno. Le linee delle guglie sono illuminate dalle luci, la piazza del Duomo è quasi deserta.
“La vuoi una rosa?”, “Meglio di no”, “Niente più fidanzato?”, “No, niente più”. O almeno non nella realtà, perché lui continua ad essere l’inquilino prediletto della sua testa. Per questo quando vede quella figura con le mani in tasca e la fronte alta lo riconosce senza alcuna esitazione. È nella stessa posizione in cui era la prima volta che l’ha incontrato: guarda il Duomo rapito, con gli occhi fissi sulla pietra, e sposta le pupille per non perdersi nessun particolare. Sembra un’immagine eterea, un soffio di vento e rischia di dissolversi. Anna solleva la mano, ma il nome rimane soffocato nella sua gola. Se ne va, continuando a voltarsi sperando che lui la veda, la chiami e la trattenga. Non succede nulla e Anna si chiede per l’ennesima volta se esista qualcuno in grado di ricordarle che la prima regola dell’essere scostanti è quella di non rimpiangere di provare ad esserlo.
 
Gli occhi di Jacopo percorrono per l’ultima volta le linee del Duomo; chiude gli occhi e inspira. Quando li riapre, con la coda dell’occhio scorge Anna: la coda le ondeggia sul collo mentre attraversa a passo svelto la Galleria. Le labbra di Jacopo si piegano in un sorriso: gli sembra di sentire ancora il profumo di shampoo alla mandorla che le rimaneva incastrato tra i capelli. Avrebbe voluto avere delle dita in grado di assorbirlo, per i momenti nei quali ricordarlo non gli sarebbe più bastato. “Vorrei risistemarti la testa, ripiegarti i pensieri e infilarli nel cassetto giusto: solo che non lo so fare.” Era come una fotografia stampata nella sua testa: quella figura in miniatura, accartocciata nel suo cappotto, che parlava con una voce apatica, come leggendo il gobbo che qualcuno aveva preparato per lei. Sapeva che quella scena Anna l’aveva immaginata tante volte: lo si vedeva dallo sguardo assente che cercava di recuperare un ricordo mai vissuto, ma che lei aveva già immagazzinato per non dover improvvisare la propria reazione quando fosse servito. Si ricorda bene quando l’aveva accompagnata a casa l’ultima volta e l’aveva salutata posandole la mano sul collo, come a darle la sua benedizione: quel collo che lei irrigidiva fiero, per trattenere i singhiozzi infantili che avrebbe lasciato straripare una volta chiuso il portone. Jacopo aveva sentito il suo collo tremare: in quella sua vita di eccessi ostentati, lei era forse stata la sua più grande trasgressione. 
 
Anna si strucca senza fretta. Le piace togliersi l’ombretto dagli occhi, per vederli così come non sono apparsi a nessuno in quella giornata. Poi si rannicchia nel letto, in quella posizione fetale che ha caratterizzato le sue notti dal primo vagito. Le viene in mente una canzone ed inizia a sussurrarsela. E così scivola lentamente nel sonno, rallentando il battito e lasciando che i nodi che le stringono le meningi si allentino. Ogni notte si abbraccia le ginocchia, premendo forte con le braccia sulla pancia per trattenere tutti quei sentimenti ingoiati e mai digeriti. E ogni notte rafforza la stretta, per non lasciarsi scappare neanche un frammento di sé stessa.
 
Jacopo gira la serratura di casa e sbatte la porta dietro di sé. Lancia le chiavi sul tavolo all’ingresso e si cucina la solita pasta: 200 grammi per uno. Sistema le ultime analisi dati bevendo la solita birra non filtrata.  Poi si stende sul letto: sembra una statua greca, come se anche nell’intimità della sua stanza non potesse eludere e deludere il suo pubblico. Legge alcune pagine di un libro prima di dormire, anche se ormai da qualche tempo ha perso il filo della trama, troppo perso nei suoi di pensieri per riuscire a capire quelli di uno scrittore sconosciuto dei primi del Novecento. Senza rendersene conto allunga una mano sull’altro lato del letto e rimane quasi stupito trovandolo vuoto. Inizia ad arricciare le dita sul tessuto delle lenzuola, sperando che, chiudendo gli occhi, possa ricordargli il collo liscio di Anna. Ha sempre scelto solo e soltanto la sua libertà, ogni sera si ripete che la storia con Anna sia finita proprio per questo. Volevamo cose troppo diverse. Non posso sentirmi legato a qualcuno. E allora perché questa libertà non gli sembra comunque abbastanza? E nella sua notte bianca cerca di ricordare tutte le volte che si erano urlati in faccia, perché anche quelle grida erano meglio del silenzio assordante della sua stanza senza il respiro di Anna soffiato sul suo collo. Meglio di quella gelida metà di letto impregnata di detersivo alla lavanda.
 
 
(Nella realtà, la storia di Anna non si è conclusa con questo finale. Ma a volte la malinconia di una notte va semplicemente accarezzata. Ed è giusto che sia così.)
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Bianca_brunori