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Autore: Lost In Donbass    21/06/2019    0 recensioni
E' tornato in Irlanda, nella terra dei suoi padri, ma pensa a lui, al giovane soldato conosciuto in Ucraina.
E' scampato alla guerra del Donbass, ha perso tutto, eppure pensa a lui, al fotografo irlandese.
Mi ricordo di te, ragazzo.
Mi ricordo di te e affiderò al mare la nostra canzone.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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AMHRA'N NA FARRAIGE
 
O ye'll take the high road and I'll take the low
An' I'll be in Scotland afore ye
For me and my true love will never meet again
On the bonnie, bonnie banks o' Loch Lomon'
[The Bonnie Banks Of Loch Lomond]
 
FIRST SCENE – RETURN TO THE SEA, TO THE OCEAN, TO YOUR MOTHERLAND
 
Let me tell you that I love, that I think about you all the time
Caledonia, you’re calling me, now I’m going home
And if I should become  a stranger
No, it’d make me more than sad
[Caledonia]
 
Tirava vento di tempesta. Oliver lo aveva capito subito. Ricordava il rombo selvaggio delle nuvole all’orizzonte, l’incresparsi delle onde, il vento mugghiante e il nero selvaggio degli abissi. Sapeva come muoversi, quando arrivava: prendi le pecore, di corsa, portale al sicuro per non farle volare via. Stai attento ai piccoli. Chiudi bene la stalla. Non lasciare i badili fuori, che se no li perdiamo. Chiudi bene le finestre e assicurati che Tina, la roulotte, sia ben ancorata con le funi. Poi corri in casa e aspetta che passi.
Tutto si ricordava, Oliver, di quando era bambino e arrivavano le tempeste dall’oceano. Ma erano passati moltissimi anni dall’ultima volta che lui e il nonno Ian avevano assistito insieme a un fatto del genere. Quando lui era andato a Dublino a studiare, aveva tentato di fingere di non essere uno dei ragazzi del Mayo e il nonno Ian se l’era presa da morire. Lo aveva abbandonato, e cercava di rinnegare le sue origini. Che nipote bastardo – ma poi un tumore si era portato via il nonno, la mamma aveva venduto la casetta e Oliver si era reso conto solo in quel momento di quanto avesse sofferto a stare senza il nonno. Di quanto fosse stato stupido a dire di non essere del Mayo. Di quanto invece quella terra selvaggia gli ardesse nelle vene.
Non era più tornato su Achill Island per paura di venire sopraffatto dai ricordi del nonno, delle pecore, della roulotte che usavano come magazzino ma adesso, a trentatre anni, un matrimonio fallito alle spalle con un suo compagno di università e una macchina fotografica appesa al collo, era tornato.
You’re back, lil’Oli, sembrava dire l’oceano che si estendeva i suoi piedi.
Welcome back, Oli!, urlava il vento selvaggio.
You’re a fucking tosser, Oli, but we missed you, ululavano i gabbiani che gli volavano in cerchio sulla testa.
-Sono tornato.- mormorò, fissando il mare che lambiva la candida spiaggia di Keel, dove da bambino andava a nuotare.
Non sapeva nemmeno lui perché, ma dopo che Jordan aveva chiesto il divorzio (Scusa, Oli, ma io non ti reggo più), dopo che il nonno era morto, dopo che la sua vecchia depressione adolescenziale stava facendo di nuovo capolino, aveva mollato tutto quello che aveva a Dublino per quella vacanza completamente senza senso. Voleva tornare su Achill. Voleva rivedere il Mayo. Voleva chiedere scusa a una terra che aveva tradito. E in quel momento fissava l’immensità oscura con le lacrime agli occhi, stringendo il bordo della camicia come quando era bambino e aveva paura della tempesta. Ma all’epoca c’era il nonno Ian ad abbracciarlo dicendogli che sarebbe andato tutto bene, bastava avere fiducia. In quel momento, invece, non c’era nessuno che lo stringesse, che lo rassicurasse. Era solo, solo come non lo era mai stato in vita sua.
Si sedette per terra, sulla sabbia candida, e ripensò a quando su quelle stesse spiagge correva e giocava, inseguendo gli aquiloni che gli fabbricava il nonno. Dove sei finito, piccolo Oli?, si chiese, sorridendo amaramente. Era tanto che il bambino felice e dinoccolato, con l’aria appena malinconica, era tramontato tristemente. Adesso, non era altro che un uomo perduto, lasciato a sé stesso, vittima di una depressione inscalfibile. Non poteva essere salvato, e forse nemmeno voleva, lui, che era scappato dal Mayo rinnegando la sua terra e che si era trovato perso in una Dublino ingiusta che se l’era divorato vivo. Pensò a Jordan, che l’aveva abbandoato con il primo vento. Pensò al nonno Ian, morto senza il suo adorato nipote al fianco. Pensò alla vecchia casetta dove aveva trascorso la sua selvaggia infanzia. Pensò alle pecore che lo facevano impazzire. E poi pensò a lui, al soldato che aveva incontrato quando era andato a fare quel reportage durante la guerra in Ucraina. Lui, con quegli occhi d’ambra, lui, con quel sorriso che avrebbe fermato un carroarmato, lui, che cantava le antiche canzoni cosacche.
Oliver si passò una mano tra i capelli scuri, già umidi per colpa del vento e guardò il cielo tempestoso, col vento che veniva da ovest. Chissà dov’era il suo soldato. Chissà se era morto, o se ancora si ricordava di lui. Chissà se cantava ancora le canzoni cosacche. Ricordava con perfezione fotografica ogni imperfezione del suo corpo sottile. Il naso largo e schiacciato, gli occhi da ragazza che brillavano, vivi come non mai, la massa scompigliata di capelli scuri, il taglio squadrato della mascella. E poi i tatuaggi strani, il grosso anello al dito appartenuto alla nonna Ljuba, il sorriso così franco e così aperto nonostante avesse appena ventitre anni e avesse già sperimentato orrori sulla pelle che nessuno dovrebbe vedere.
A lui aveva detto di venire dal Mayo. Gli aveva raccontato di essere un campagnolo, di aver allevato pecore sino a diciassette anni, di aver scavato la torba. Gli aveva anche rivelato di come aveva tradito il nonno scappando da Achill Island e andando a Dublino, mentendo spudoratamente a tutti. Non l’aveva mai ammesso, nemmeno con Jordan, ma con quel bellissimo ragazzo di Donetsk aveva lasciato tutto fluire insieme alla vodka che aveva bagnato il loro pianto.
 
-Vengo da Achill Island, nel Mayo.
-Dov’è?
-In Irlanda. A nord-ovest.
-Dev’essere bellissimo. Io non sono mai andato oltre Kiev, ma mi piacerebbe tanto vedere il mondo.
-E’ una terra di pecore e gabbiani, ragazzo.
-Ma almeno è libera, Oliver. È libera.
 
Gli mancava? Sì, al diavolo, gli mancava. Gli mancava quella voce dolce, appena arrochita dalle sigarette che fumava in continuazione, gli mancava quel suo modo di chiamarlo “ljubov”, che se ricordava bene voleva dire “amore”, gli mancavano i suoi baci un po’ ruvidi ed eccitanti. Gli mancava tutto di quel giovane ragazzo ucraino eppure, eppure non riusciva a ricordarsene il nome. Aveva fatto di tutto per farselo venire in mente ma c’era solo vuoto al suo posto. Come si chiamava, Oliver non lo sapeva più e si chiedeva come avesse fatto a dimenticarlo così facilmente quando invece ricordava ogni neo, ogni cicatrice, ogni più piccola espressione del viso.
Guardò il mare, e pensò a quando, da ragazzo, cantava insieme alle foche. Scendeva in spiaggia la notte e guardava le testoline di quei buffi animali spuntare dalla spuma e così cantava, cantava e rideva quando si rotolavano sulla sabbia. Aveva continuato a cantare, anche a Dublino, nei pub e sul tetto di casa quando Jordan andava via per lavoro. Aveva cantato anche al soldato le vecchie canzoni tradizionali che un tempo sapeva fare anche col violino, insieme al nonno. Una notte, lui e il ragazzo ucraino si erano messi a intonare Joan Baez nella camera di quello squallido albergo ed era stata la notte più dolce della loro breve relazione. Il loro spagnolo non era dei migliori, ma Oliver era sicuro che la loro versione di Gracias A La Vida avesse un tale sentimento da far commuovere. Erano due ragazzi che, dopotutto, ringraziavano ogni giorno di essere ancora vivi. Poi, dopo Joan Baez, avevano fatto l’amore sino al mattino e Oliver ricordava alla perfezione quel corpo snello che si scioglieva sotto ai suoi tocchi, quei gemiti, quegli urletti strozzati, quei movimenti sensuali, quelle gambe avvolte attorno al suo bacino e quelle labbra, dio mio, quelle labbra dappertutto sul suo corpo completamente tatuato.
-Y la voz tan tierna de mi bien amado …
Canticchiò tra sé e sé, ricordando come le loro voci si fossero fuse così bene insieme, la sua, malinconica e triste, e quella del ragazzo, sincera e squillante. Anche i loro corpi si erano fusi alla perfezione. Ricordava il ragazzo sdraiato sulla pancia, col viso adagiato sul cuscino, il bacino sollevato e lui che lo rimirava come fosse un’opera d’arte, toccando quel corpo pieno di cicatrici e di tatuaggi volgari, stringendo quelle mani troppo grandi e callose, che stonavano con quel fisico sottile e perfetto. Gli aveva baciato le natiche sode, lo ricordava e aveva spettinato quei capelli scuri, baciandogli il collo e la guancia mentre lo apriva con le dita. Era così bello, quel giovane soldato, così inerme tra le sue braccia, così voglioso di amore visto che dalla vita non ne aveva mai ricevuto, così desideroso di compiacerlo da fare quasi tenerezza, lui, il giovane uomo che non era mai stato bambino. Aveva fatto una cosa azzardata: lo aveva violato con la lingua, e lui aveva spalancato gli occhioni, cercando di soffocare uno strillo di sorpesa. Ma Oliver lo aveva tenuto fermo e lo aveva leccato, aperto, baciato, riducendolo a un ammasso gemente e ansimante. Era così felice di farlo godere così, di farlo sentire così voluto e desiderato. Poi, prima che venisse, gli era entrato dentro e gentilmente avevano continuato quella danza sensuale e desiderata. Aveva portato il ragazzo a urlare di piacere, aveva portato sé stesso oltre il limite, sprofondando il quel corpo sconosciuto ma contemporaneamente amico. Ricordava ancora l’orgasmo, così dolce eppure travolgente, e ricordava altrettanto perfettamente l’abbraccio amorevole e tenero in cui si erano avvolti subito dopo. Ricordava i baci e le carezze di quella notte, l’ultima che avrebbero passato insieme prima che uno tornasse al fronte e l’altro tornasse a Dublino, lontano dal dolore, lontano dal soldato.
Si rialzò e si avvicinò all’acqua, entrando in mare a piedi nudi e cominciando a camminare lungo la linea della spiaggia, verso la scogliera.
Aveva tentato il suicidio, un paio di mesi prima. Il rasoio premuto sui polsi tatuati, il sangue scarlatto che sgorgava, il ricordo bruciante di Achill Island che si sovrapponeva a quello del ragazzo ucraino. Soffocato dalla sua depressione, mollato da un uomo che pensava di amare, solo e reietto in una città che lo aveva tradito, Oliver era così fottutamente stanco da aver anche provato l’estremo gesto, pur di mettere a tacere i suoi demoni selvaggi.
Non era morto, perché qualcuno era entrato in casa prima che fosse troppo tardi.
Non era morto, e in fondo si chiedeva come mai. Perché lasciare in vita lui, un giovane uomo così usato, così distrutto, così devastato dai ricordi brucianti di una terra, di un ragazzo, di una vita felice a pascolare pecore.
Non era morto, e adesso era tornato nella terra dei suoi padri, a chiedere scusa all’oceano, ai gabbiani, alle scogliere battute dai venti. Era tornato per inchinarsi a quella natura folle che lo aveva dato alla luce in una tempestosa notte di novembre.
Non era morto.
Sorrise appena, quando vide una conchiglia scontrargli il piede ma non si chinò a raccoglierla. La lasciò al mare, a suo padre, anzi, al loro padre che li aveva cresciuti e amati nella sua violenza ferina.
Si chiese ancora come si chiamasse il bellissimo soldato.
Voleva solo quello. Ricordarsi il nome di un uomo che aveva amato.
 
 
 
А еще просил казак, правды для народа,
Будет правда на земле, будет и свобода.
За друзей молил казак, чтоб их на чужбине
Стороною обошли алчность и гордыня.

(E il cosacco chiese anche giustizia per la nazione,
Se sulla Terra c’è giustizia, ci sarà anche libertà.
Il cosacco pregò per i suoi amici, cosicché in quella strana terra
Avidità e arroganza li lasciassero stare)
[Ойся, ты ойся]
 
SECOND SCENE: RUN AWAY, SOLDIER, AND FIND YOUR TRUE LOVE
 
Час рікою пливе, як зустрів я тебе,
Як зустрів я тебе, моя пташко,
Довго-довго дививсь, марно очі трудив,
Та впізнати тебе було важко.
 
(Il tempo scorre come un fiume, quando ti ho incontrato,
Quando ti ho incontrato, mia colomba
Per tanto tempo ho cercato, senza che nulla colpisse il mio sguardo
Perché rinoscerti era difficile)
[Час рікою пливе]
 
Aveva amato un uomo che veniva dall’Irlanda, Denis lo ricordava così bene. I tatuaggi assurdi, i capelli scuri portati lunghi sulle spalle, i tratti affilati del viso, gli occhi grigi come i cieli che lo avevano messo al mondo: Denis ricordava tutto di Oliver, trentenne, fotografo e reporter che era finito in Ucraina per documentare una guerra che lui stava vivendo sulla pelle. Ricordava la voce malinconica e stanca, le lunghe mani tatuate che gli scompigliavano i capelli e gli accarezzavano il viso, l’andatura ondeggiante, il sorriso mesto che gli aveva fatto tornare la speranza.
Denis era solo un ragazzo quando si era arruolato per combattere una guerra che non sentiva sua. Aveva vissuto sulla pelle i demoni del campo di battaglia, del fronte, del dolore, della privazione.
Si rigirò tra le mani il medaglione appartenuto a sua madre, e sentì una singola lacrima scorrergli sulla guancia. La mamma. Le sue sorelle. Tutte morte in quella guerra civile che stava insaguinando l’Ucraina. Adesso, Denis non aveva più nessuno se non sé stesso, i suoi demoni, e i ricordi brillanti di Oliver dal Mayo. Tutto quello che aveva se l’era portato via la guerra, che l’aveva lasciato senza niente. Solo una misera casa in un palazzone popolare dove non riusciva a vivere per i ricordi brucianti delle donne di casa che si affacendavano. Aveva perso amici, parenti, conoscenti: aveva perso tutti, Denis, ma per adesso non aveva perso sé stesso. Era forte, era sempre stato d’acciaio e anche quella volta non si era spezzato. L’ennesima incrinatura per il cuore di un venticinquenne che aveva già vissuto l’inferno.
Guardò il Mar Nero che si estendeva di fronte a lui e si passò una mano tra i capelli. Seduto sulla rena, pensava ad Oliver dal Mayo. Chissà se si ricordava ancora del soldato ucraino con mille cicatrici sul corpo e nell’anima. Chissà se desiderava ancora una notte di passione, chissà se cantava ancora Joan Baez in ricordò di quella notte in cui lui gli si era donato completamente, nei modi più osceni che gli venissero in mente, per dirgli che era pronto ad essere del tutto suo, nella sua totalità di anima e corpo. Lo ricordava seduto su quella poltrona, intento a fumare e lui gli si era seduto a cavalcioni, gettandogli le braccia al collo. Entrambi nudi, sudati, ancora eccitati, sporchi di sperma avevano continuato a fare l’amore su quella poltrona, davanti alla finestra da dove in lontanza si vedevano le bombe al fronte.
Denis sorrise all’infinito cielo ucraino e si sdraiò sulla sabbia dorata – avrebbe tanto voluto ritrovare quel fotografo. Chiedergli come stava, prenderlo per mano e farsi portare in Irlanda, lontano dalla morte, dalla guerra che gli aveva portato via ogni cosa.
-Mamouch’ka, mi manchi.- disse, baciando il medaglione – Mi mancate, sorelle. Mi manchi anche tu, baba. E voi, zie. E anche tu, Oli.
Era stato il primo uomo di cui Denis si fosse seriamente innamorato. In realtà, prima c’era stato Kuzma, ma Kuzma era scomparso quando avevano appena diciassette anni e aveva lasciato un tale vuoto dentro che solamente l’arrivo di Oliver era riuscito a riempire.
Aveva pensato di andare su Achill Island a cercarlo. Scappare dall’Ucraina, e dalla morte che lo perseguitava, rivedere l’uomo che gli aveva detto “non morire”, ringraziarlo come avrebbe voluto, dirgli “se sono vivo è grazie a te”. C’era stato un momento, quando era nell’esercito, in cui aveva voluto morire. Uccidersi sul campo per non dover più sopportare la perdita della sua famiglia, per non dover più vedere la sua terra insaguinata dalla guerra civile. Ma poi era arrivato lui. Bellissimo, straniero, inafferrabile eppure così buono, lui che lo aveva salvato dalla sua disperazione, lui che gli aveva dato un motivo per tenere duro. Lui, Oliver, che lo chiamava “a mhuìrnin”, che cantava Joan Baez con quel suo spagnolo maccheronico, che lo abbracciava forte e non lo lasciava andare.
Si erano conosciuti in un locale di notte fonda e non si erano separati per tutto il tempo in cui lui era rimasto in Ucraina. Aveva ascoltato con gioia mentre lui cantava le canzone cosacche. Aveva ballato con lui sui tavoli una giga circolare.
Denis lo aveva amato, di un amore tenero e fedele e anche ora che erano passati due anni non se l’era dimenticato. Lo amava ancora, nonostante non si fossero più sentiti dopo quei giorni bollenti. Lo avrebbe voluto come se non se ne fosse mai andato. Lo avrebbe stimato come all’epoca.
Ma chissà se lui si sarebbe ricordato del giovane cosacco con la passione per Dostoevskij e l’anima ancora pura, nonostante quello che aveva visto in guerra, nonostante la perdita di tutta la famiglia.
Sorrise al cielo, come quando era bambino e andava al mare con la nonna, zampettando sulla sabbia.
Forse sarebbe partito, quel giorno.
Avrebbe fatto i bagagli, avrebbe salutato le tombe di mamma e sorelle e sarebbe andato a Dublino, alla ricerca di Oliver dal Mayo. Sì, forse l’avrebbe fatto, perché oramai non aveva più niente da perdere. Una casa in cui vivere si era fatto impossibile, una nazione distrutta, una famiglia uccisa: ora Denis aveva solo tempo per pensare a sé stesso e per salvarsi dall’autodistruzione.
Si mise seduto e raccolse una conchiglia. La lanciò in mare e lasciò che qualche lacrima silenziosa gli bagnasse il viso bellissimo
-Verrò a cercarti, ragazzo del Mayo.- disse, a voce alta – Oliver, ti ricordi di me? Ti ricordi di Denis?
 
Denis.
Il ragazzo ucraino.
Si chiamava Denis.
  
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