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Autore: crissi    22/06/2019    6 recensioni
Il mio lavoro mi costringe a volte a diventare invisibile nelle famiglie; obbligato a rimanere, indesiderato testimone, anche in momenti che intimi e segreti dovrebbero restare. E a restare imperturbabile, saldo, professionale, anche quando il loro dolore diventa mio.
Missing moments molto liberi visti da una personaggio marginale, una figura professionale ricorrente nell’anime, che ho voluto immaginare sempre come lo stesso individuo.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Rosalie Lamorlière, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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14 inevitabile follia 14 inevitabile follia

Palazzo Jarjayes, 17 Luglio 1789

Oscar e André sono morti, ma sono ben altri i fantasmi che si aggirano in questa notte di veglia per Palazzo Jarjayes.
Sono i fantasmi delle colpe, dei rimorsi, degli sbagli.
Sono spettri di giorni passati, spesso troppo uguali, con silenzi egoisti, bugiardi, vigliacchi.
Sono i sentimenti troppo taciuti o malamente espressi e le presenze date per scontate, ignorando la parca pronta a tagliare il filo.
Sono tutti quei giorni trascorsi ad autoingannarsi in attesa di un domani ugualmente freddo e senza coraggio.
Giorni come celle con pietre di gelide bugie ed alla sera restavano solo i rimpianti.
Non c'erano veri motivi di malessere tra queste mura sontuose ed eleganti: una buona salute, le tavole imbandite, un futuro potenzialmente roseo.
Ma… Se solo… Questo mancava: se solo... Se solo avessi agito, parlato, osato.
Se solo…
Perché apriamo gli occhi sul mondo quando già li stiamo chiudendo?
Vago al buio per questi corridoi e d'un tratto mi par di sentirlo: l'inconfondibile aroma del suo tabacco da pipa, pizzicare le narici, obnubilare la mente, trasportare i pensieri altrove, in paesi lontani, in luoghi piacevoli. Semplicemente altrove, perché qualunque luogo sarebbe meglio di qui ed ora per lui.
Seguo le tracce del fumo, dapprima solo per mezzo dell'olfatto, poi scorgo anche una piccola nube vagare per il corridoio, come una nebbiolina di fine estate, che mi guida a ritroso alla sorgente, fino al grande salone dove egli si è ritirato allontanandosi da tutti, deluso dalla progenie superstite, dal mero accapigliarsi dei generi per vili questioni economiche, da uomini quest'ultimi che di uomo hanno solo la parvenza, non certo la statura da lui pretesa. Per lui, per il generale, “l'uomo”, inteso nelle virtù di coraggio, determinazione, valore, si fa, non si genera. Ormai lo ha capito, sua figlia glielo ha dimostrato. Triste che se ne renda conto troppo tardi. 
E capisco perché proprio lì sia andato.
Eccola: mi accoglie appena entro, illuminata dalla luna e dalla mia candela; superba ed angelica al contempo e resto tanto incantato e sorpreso e ammirato che allungo una mano perché d’istinto vorrei toccare, sapere se è reale o solo un altro fantasma della mia mente.
- No! ... È ancora fresco… - esclama una voce autoritaria alle mie spalle, dal buio.
Immaginavo fosse lì. Un ombra nell'ombra, invisibile.
- Sembra così … viva. - mormoro senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla tela.
- Già, il pittore è stato bravo, dannatamente bravo.
Odo tintinnare cristallo con cristallo; si riempie il bicchiere di cognac, il generale, per l'ennesima volta credo a giudicare dai movimenti scoordinati.  La voce strascicata mi fa capire che si è abbonamente rifugiato un qualcosa di consolatorio, sebbene dannoso e temporaneo. Male consolatorio abbastanza comune in questa casa; male che ho affrontato anch'io e, lo ammetto, mai realmente sconfitto.
Scomposto, disordinato nell'aspetto, egli siede  sulla poltrona che so di un vivace, sanguigno, color porpora, ma che nelle tenebre pare nient'altro che nera; porta il bicchiere alle labbra, ma non beve.
- Non sono riuscito a dirle addio, - mormora - ero convinto che sarebbe tornata.
Stringe un pugno lo porta alla fronte, picchiettandosela nervosamente, incapace di capire, di credere, di accettare ciò che non può più essere rimediato.
- Non doveva andare così…- sibila, malcelando un dolore rabbioso - Le cose potevano cambiare, io potevo cambiare… Si parla, si ragiona, le cose si aggiustano… Il tempo…
Lo ascolto seguitando a contemplare i tratti perfetti di quel volto che fu altrettanto perfetto; scuoto appena il capo perché so che il generale non parla, ordina; egli non ne discute, esige; e soprattutto, non cambia; non su valori per lui intoccabili quali la lealtà alla Corona. E so che è quello il peccato mortale che non le avrebbe mai perdonato.
- Aveva la tisi …- lo interrompo.
Ormai non c'è motivo di tacere, non c'è ragione perché egli non debba stare peggio di come sta. Ed il colpo è grave.
- Terminale. Al meglio, solo pochi mesi di vita. - aggiungo mestamente.
Restiamo in silenzio per attimi senza tempo, ciascuno immaginando a modo suo, un futuro che mai arriverà.
- Volete farmi compagnia, Lassonne? Le va di bere qualcosa con me, dottore? Per scaldare lo spirito e confondere la mente.
Annuisco ancora rivolto al ritratto e poi capisco che non può vedermi mentre lo faccio.
Jarjayes mi allunga un bicchiere nella penombra, senza alzarsi dalla poltrona e, quando giungo a stringerlo, me lo riempie.
- Beva, mio caro Lassonne, abbiamo dei buoni motivi per festeggiare, in fondo.
Resto basito ed un poco inorridito.
- Sì, dottore, piangiamo la morte di mia figlia e del buon André, ma al contempo festeggiamo la fine dei Jarjayes, una fine che ho tentato di ingannare con un imbroglio, tanti anni fa. I Jarjayes: una nave che ho incautamente guidato per i mari della carriera ed ho affondato con la follia. Mi pensate un ipocrita vero? - chiede guardandomi sbieco. - Mia figlia imputridisce in una bara ed io mi preoccupo del futuro.
- Penso solamente che abbiate bevuto troppo questa sera, generale - rispondo diplomaticamente.
Sorride, amaro.  Si sporge in avanti di scatto, inclinando paurosamente il bicchiere.
- Male! Male, caro Lassonne, perché avreste ragione: sono un ipocrita! Sono un egoista! Sono un essere che ha giocato col destino della sua stessa figlia solo per orgoglio personale! - poggia rumorosamente il bicchiere sul tavolinetto ed affonda nello schienale.
- Come vorrei essermi fermato prima.. Come vorrei averle detto che … - sospira - Non avrei potuto avere figli migliori. Mi riferisco ad Oscar, ma anche ad André. Egli era nato servo, ma il suo cuore mi rispettava come un figlio rispetta e forse ama il padre. Se solo fosse stato nobile…se solo… Come sarebbe stato tutto diverso... Ma fatemi compagnia, dottore. Solo un po’... - mi tenta riprendendo il bicchiere, inalzandolo appena in segno di invito.
Se solo fosse stato nobile? Non lo avrebbe mai conosciuto, non allo stesso modo. Erano due germogli cresciuti insieme, rinforzati dalle medesime avversità, dalla medesima solitudine e solo alla fine, intrecciatisi l'uno all'altra.

Sollevo il bicchiere alle labbra ed assaggio il pregiato cognac dei Jarjayes, caldo e avvolgente come un abbraccio. Un conforto che non meritiamo.
- Perché lei? - domando all'improvviso.
- Come?
- Ricordo tanti anni fa, in questa stessa stanza: avevo una domanda da porvi e temevo la vostra risposta. Un uomo dalle origini nobili, ma fumose, che osava chiedere la mano di vostra cugina. Avrei dovuto rivolgere quel quesito al fratello che ne gestiva le proprietà e non sarebbe stato felice di rinunciarvi. Così mi feci coraggio e vi pregai di trovare una transazione adeguata che non rovinasse Alexandra di quanto le spettava, ma che nemmeno invelenisse suo fratello nei miei confronti. 
- Ricordo, dottore...
- Mi raccontaste, francamente, che vostro cugino nulla aveva fatto per proteggere la sorella da quel mostro che l'aveva sposata e che avreste sempre pensato voi a lei, che l'avreste protetta ed agito per il suo bene...
- E vi diedi la mia benedizione, oltre al mio permesso, dottore.
- Voi avete salvato Alexandra da un marito violento e da un fratello dispotico...
- E? …
- Voi non avete mai alzato le mani su una donna. Vi conosco bene.
- E?
- Perché su di lei sì?
Lo sguardo arrossato ed umido corre al ritratto.
- Non ho scusanti. In parte, applicavo la disciplina che ho ricevuto. Disciplina e severità, così cresce un soldato, così cresce un Jarjayes. Poi, giorno dopo giorno ho cominciato col  vederla più figlia e meno figlio. Confesso: ho dubitato che non sarebbe stata all'altezza, ho messo in discussione quella decisione folle e ne ho temuto le conseguenze. Ho avuto… paura.
Più per i Jarjayes che per Oscar, penso malignamente conoscendo le sue convinzioni, però evito di sottolinearlo.
- Allo stesso tempo non potevo sopportare che non fosse un fallimento, perché era il figlio perfetto che avevo sempre desiderato, ma non era un maschio. Ma non potevo nemmeno tornare sui miei passi, non riuscivo a fermare ciò che avevo cominciato. Inconsciamente, desideravo che fosse lei a ribellarsi. Solo lei poteva porre fine alla follia cui avevo dato inizio… Ed infine lo ha fatto: ha scelto il cuore. … Infine… - ripete, sentendo il peso tombale di quella parola: fine. Distoglie lo sguardo dal ritratto e rabbocca il proprio bicchiere, sversandone buona parte.
- E la capisco. Davvero. Voi potete non credermi, ma se solo André fosse stato nobile, avrei benedetto la loro unione… - si sbilancia -  In ogni caso, non li avrei ostacolati. - aggiunge aggiustando la mira del precedente pensiero troppo audace - Ma era anche destinata a grandi cose. Un vero peccato...
- No, generale, il peccato sono quelli come noi. Vanitosi, ambiziosi, persi nel nostro mondo, sempre in cerca di qualcosa di grande. Noi che guardiamo lontano, e calpestiamo chi ci sta accanto. È così, generale: i peccatori restano. Lei, io… i peggiori, mentre i migliori vanno.
- Lassonne, di quale colpa vi caricate ora? - domanda guardandomi con ansia.
“Se solo… se invece…”, penso lasciando cadere la sua domanda nel vuoto.
Porto la mano alla fronte per l'insopportabile dolore e vacillo un istante.
La stanchezza si fa sentire.
- Mancano poche ore all'alba, dovreste riposare. - osserva il generale  - Abbiamo tante stanze, occupate quella che più vi aggrada, dottore.
Annuisco, conosco i miei limiti e la giornata in arrivo non sarà leggera, né tanto meno piacevole.
- Se posso, riposerei un poco nella stanza delle rose, era quella di Alexandra quando visse a palazzo Jarjayes.
- Era sua, è vostra.
- Anche voi dovreste riposare, signore.
- Ora devo solo bere, Lassonne. - mormora riportando il bicchiere alle labbra e lo sguardo al dipinto. - Bere e pregare pietà.
Lo lascio ai suoi rimorsi, alle sue confessioni, al peso del domani che arriverà, e mi trascino al primo piano, alle camere.
Varco la soglia della stanza che ho scelto: le rose, a centinaia, sono ancora lì, stupendamente dipinte sulla tappezzeria da mani abili e pazienti. Le aveva scelte Alexandra, una consolazione per non poter vedere quelle vere del giardino durante gli interminabili mesi trascorsi immobile in quel letto, pregando la grazia di poter un giorno camminare ancora. Ed il generale mai volle levarle in seguito, anche dopo la di lei sommaria guarigione. Troppo belle.
Mi lascio cadere sul letto; gli arti pesanti come mai mi è capitato.
Spesso mi è accaduto di raccogliere gli ultimi rimpianti dei morenti, cose semplici, come il non aver passeggiato ormai vecchio in riva al mare con la moglie stupidamente abbandonata anni prima o non aver carezzato di più la tua bambina da piccola, a volte ora troppo pragmatica e fredda e sola. Mi domando quale sarà il mio rimpianto dell'ultimo momento.
Il suo invece lo conosco, ha un nome: Oscar. Ed una parte di lui è morta con lei.

   
 
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