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Autore: milla4    23/06/2019    3 recensioni
Due piccole sorelle vengono osservate con insistenza dal padre mentre si trovano al parco della città. Strane voci girano sul suo conto, ma se la gente sapesse, se la gente potesse conoscere la loro verità i loro pettegolezzi sarebbero pieni di morte e distruzione.
Questa storia partecipa alla Parole Intraducibili Challenge indetta sul gruppo facebook Il Giardino di Efp
Genere: Angst, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La morte è come un'onda




I momenti che passavano in macchina erano i peggiori, era impossibile tenerle ferme. Le due bambine fremevano sui sedili posteriori, cercavano di trattenersi per non creare disagio al papà ma era molto difficile non mostrare l‘eccitazione per quell’uscita.
Era mercoledì pomeriggio, i bambini e i ragazzi della città si riversavano nei vari parchi pubblici ma Brishem Park era quello preferito dalle due sorelline. Era posizionato nella zona sud-est della città, accanto a una riserva naturale dove da decenni si cercava di preservare e accrescere la popolazione di piccoli scoiattoli autoctoni che stentava però a decollare. Era un luogo riparato, di zona, non molto grande né dispersivo, un posto dove sentirsi al sicuro.
Aprì la portiera e fece scendere figlia maggiore, Agathe, tese poi la mano alla minore che l’afferrò con dolcezza; mentre attraversavano il parcheggio Rosie riuscì a scorgere il viso familiare della sua compagna di scuola. Cominciò ad accelerare il passo, il braccio legato alla figura del padre si tendeva con sempre più forza, la bambina avanzava con più velocità, pian piano arrivò a strattonare suo padre che come se fosse inciampato, cadde quasi in avanti.
Non riesce a reggersi in piedi… avrà bevuto un’altra volta…
Jace incespicava nei propri piedi, le gambe reagivano scoordinate ad ogni passo, la testa ciondolava senza nessuna forza, non vedeva dove stesse andando, seguiva pedissequamente la figlia più piccola, si lasciò trasportare come un cane fa con il suo padrone. Rosie cominciò a correre lasciando la mano del padre che, improvvisamente, si ritrovò a sobbalzare prima di arrestarsi a mezzo metro da loro. Agathe gli passò accanto sorridendo, poi si diresse al centro del piccolo parco giochi e si mise come al suo solito a cercare la sua prossima vittima. Scrutava con attenzione ogni piccolo particolare, dal peso corporeo al tipo di vestiti: erano indici di adattabilità non indifferenti. Rosie si gettò tra le braccia di Susan, la madre della sua amica, aveva un buon odore, sapeva di arrosto e candeggina, due aromi molto distanti fra loro ma per il suo naso complementari.
Il padre rimase fermo, in mezzo al parco e scrutava ogni azione delle proprie figlie, non distoglieva mai lo sguardo contornato da occhiaie scure, rispondeva a monosillabi se qualcuno gli rivolgeva la parola, aveva un comportamento strano e  da qualche mese avevano cominciato a girare voci tra le annoiate donne della scuola sulla morbosità con cui Jace Jodyn controllasse le figlie, lui probabilmente ne era a conoscenza; conosceva ogni sordido pettegolezzo sulla sua ossessione per le piccole figlie e sulla presunta scomparsa dalla scena pubblica di sua moglie. Ma non aveva la forza per pensare anche a quello, il suo scopo da quando si alzava dal letto a quando chiudeva la porta di casa era quello di controllarle e di cercare di far rimanere il loro segreto oscuro e inviolato. Era allo stremo, ma era quello che ancora si reggeva in piedi e doveva lui badare alle creature a cui aveva dato la vita.
 
 Ne avrebbe presa a volontà, ma non poteva scordarsi che per vivere in armonia tra la gente un requisito essenziale era sicura sopravvivenza della vittima.  Non si sarebbe ricordata di lei, delle sue trecce bionde e dei suoi occhi verdi o della sua bocca sporca del sangue appena preso dal collo; nella sua memoria, appena il profumo di rose aveva pervaso la sua mente, si era formato il ricordo di un animale, un pipistrello che avrebbe dovuto attaccata prendendola alle spalle. La sua razza era la causa dell’odio immotivato per quei piccoli animali innocenti.
La madre di Sandie era così dolce, il suo sangue era caldo e accogliente come lei; per Rosie era facile fare amicizia, specie quando ne conosceva le madri. Aveva scartato compagni di gioco per via di un genitore troppo stressato o con un odore strano per i suoi gusti. Agathe era diventata meno selettiva con il tempo, le sue abilità si erano raffinate, era già capace di atterrare un uomo adulto, ma le era rimasto il divertimento di scovare la sua vittima perfetta tra il branco di prede. Aveva delle caratteristiche precise, di solito uomini sulla trentina; ne era attratta in modo quasi maniacale, ma in fondo aveva venticinque: era rimasta infantile, il suo cervello non era progredito dagli otto anni d'età che aveva al momento della sua mutazione, ma ogni tanto la donna che avrebbe potuto essere faceva capolino, un esempio lampante era la sua vittimologia.
Avevano fatto il pieno, li avevano attirati nel bosco con una banale scusa e ne avevano succhiato il collo. Con un dente avevano rotto la carotide e dalla fontanella uscita avevano succhiato il loro nutrimento. Il padre le richiamò, era ora di andare. Salutarono i loro piccoli amici e salirono nuovamente nell’auto, il padre arrivò poco dopo, faceva difficoltà a camminare e quel giorno si erano trattenuti più del previsto. Salì in macchina, una smorfia di dolore «Papà, tutto bene?» Rosie preoccupata posò una mano sul viso di suo padre, Jace stava per scansarla ma si ricordò di chi fosse quella mano e desistette. Piano piano, quasi piangendo rispose che sì, era tutto ok.
 
«Mamma, mamma, siamo tornate!» le bambine entrarono urlando entusiaste e si diressero in cucina, aspettando di trovare la loro madre ma una rapida occhiata fece capire loro di dover andare verso il salone.
Angela Josyn era sdraiata sul divano, le braccia gettate all’infuori, il respiro affannoso, i lividi erano così grandi che si erano come uniti formando una ragnatela giallastra.
«Bambine, è andato tutto bene?» cercò di sorridere e di alzarsi ma il marito le premette una mano sulla spalla per farla desistere. Era il suo amore quello, il suo autentico desiderio da quasi trentanni; l’aveva sposata perché l’amava e ora vedere il suo corpo divenire un vuoto involucro lo faceva morire dentro. Ne vedeva la pelle bianca perdere tonicità, i capelli cadere, gli occhi spegnersi di giorno in giorno e a quel punto avrebbe voluto prendere la bombola del gas e far esplodere quella casa con quei demoni che l'abitavano. Un boato e tutto sarebbe finito, avrebbe riavuto la sua bellissima moglie e avrebbero trascorsero il resto della vita insieme, magari avrebbero viaggiato come avevano previsto di fare con le loro splendide figlie, o sarebbero rimasti lì, nella stessa città ma liberi. Aveva bisogno di ricordare che c’era un passato, che si potesse vivere anche in un altro modo. Quei pensieri di morte lasciavano subito spazio al senso di colpa per aver pensato una cosa così sbagliata e ingiusta, facendolo sentire il primo dei peccatori. Erano le sue bambine quelle e non era colpa loro. Non era colpa loro se quella sera aveva lasciato la finestra aperta e quel mostro era entrato per prendere le loro anime, né poteva lasciare che sopravvivessero da sole. Era stata colpa sua, solo colpa sua e per questo stava pagando anche la sua Angela.
Avevano giurato insieme di non far uscire la cosa, che ci avrebbero pensato il più possibile da soli; non potevano lasciare che facessero del male al prossimo. Ma con il tempo avevano dovuto lasciarle andare, il loro sangue era poco e le piccole ne richiedevano sempre più; non si può fermare l’onda della morte, si può arginare ma non interrompere. Avevano ricominciato ad andare a scuola, a vivere una vita pressoché normale, solo che non cambiava mai. E il tempo dei coniugi Josyn stava terminando: cosa avrebbero fatto senza loro a vegliarle, era la domanda che li teneva svegli tutte le notti.






 
NOTE:  Salve salvino gente, visto che avevo detto e ripetuto di essere troppo impegnata per pubblicare e per scrivere ulteriori storie ovviamente che ho fatto?
Sto partecipando ad un contest/challenge sul gruppo Facebook "Il Giardino di Efp" in cui devo scrivere storie a volontà ispirate da delle parole che in italiano non esistono ma che all'estero pare siano molto in voga... quindi sì, sono una persona "incoerente" (avrei voluto usare un linguaggio un pelino più colorito ma non mi sembrava il caso).
Per questa storia, comunque, ho usato la parola tedesca Sehnsucht (avevo letto Shatush...) e significa  nostalgia profonda di qualcosa.

Spero che almeno a qualcuno piaccia, se lascerete un commento mi fareste molto felice

a presto (temo)

milla4

 
   
 
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