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Autore: moira78    24/06/2019    2 recensioni
Questa storia è il sequel di "Dove volano i miei desideri".
Le coppie sono formate ormai, gli anni passano e le cose cambiano per tutti, nel bene e nel male. La nuova generazione di artisti marziali di Nerima si è appena affacciata al mondo e già dovrà affrontare nuove sfide.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Le ombre del destino.'
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CAP. 13: Sentimenti

"Ora sei in connessione con la parte più profonda di te stessa. Osserva. Respira e osserva. E adesso amala. Non hai nulla da perdonarle. Il tuo corpo ti ha tradita, ma lei non ne ha colpa. Ha lottato, è sopravvissuta. Lo ha fatto per la meravigliosa bambina che aveva da accudire. E questo è il suo merito più grande".

Shampoo si lasciò cullare dalla voce calda e tenera dell'uomo, a tratti così profonda che non si sarebbe detto che provenisse da un fisico così minuto e ultracentenario, forse anche più del vecchio Happosai.

"Concentrati sull'amore per tuo marito e tua figlia: tu ne sei l'artefice. Tu hai donato la vita al legame più forte che c'è tra voi, Shampoo. Abbandona i sensi di colpa e la rabbia".

Sentì le lacrime pungerle gli occhi e la gola chiudersi. Lasciò che sgorgassero, ma erano meno numerose delle volte scorse. Forse, al pari di Mousse, anche lei stava guarendo. Quell'uomo era davvero meritevole della sua fama.

Quando aprì gli occhi si ritrovò davanti il suo sguardo sorridente e la sua buffa barbetta bianca lunga fino alla pancia. "Bene, figliola, direi che ormai manca poco, sia per te che per tuo marito. State guarendo quasi allo stesso tempo. Incredibile come siate in sintonia."

Anche Shampoo sorrise: fino a qualche anno prima non lo avrebbe creduto nemmeno lei, eppure quel ragazzo quasi cieco con cui era cresciuta era davvero la sua perfetta metà.

"Vorremmo comunque rimanere ancora per un po'. Misaki si sta allenando volentieri con quel ragazzino che è rimasto orfano... come si chiama?".

"Wei Qi. Così lo hanno battezzato gli abitanti del villaggio quando sua madre morì di parto: significa "fortunato", volevano fosse di buon auspicio per lui. Povero ragazzo, nonostante non abbia mai conosciuto né lei né suo padre, ha avuto più genitori di qualsiasi altro bambino, dato che lo hanno cresciuto a turno", raccontò il vecchio guaritore.

Shampoo si accigliò: "Mi spiace, non avevo idea che la sua storia fosse così triste. Ha solo un anno più di Misaki ma sembra già un piccolo adulto".

L'uomo sgranò gli occhi: "Ma la sua storia nasce triste per poi diventare più gioiosa di quella di chiunque altro! Ha l'amore di tanti uomini e donne che lo considerano come un figlio e anche di tanti fratelli e sorelle che lo trattano da tale. La sua famiglia è la più numero sa che io conosca. Dobbiamo continuare a lavorare sui punti di vista, vero, Shampoo?".

"Ha ragione", si schernì l'ex amazzone con una risatina. Chiuse gli occhi e si preparò nuovamente ad entrare in sintonia con la sua anima.

***

Ukyo guardò fuori dalla finestra mentre sfogliava distrattamente il libro di ricette che aveva davanti. I mesi passati all'estero erano stati elettrizzanti, aveva imparato tantissime cose nuove e non solo sulle culture dei luoghi che aveva visitato, ma anche sulle diverse tipologie di cucina. Al suo ritorno avrebbe allargato il commercio di okonomiyaki proponendo specialità francesi, inglesi e italiane. O forse avrebbe dovuto adeguare i suoi okonomiyaki ai gusti esotici di quei luoghi? Ancora non lo sapeva, ma non vedeva l'ora di provarci. Da qualche settimana, però, era in pensiero per Ryoga: le mancava, ogni giorno, ma ultimamente lo sentiva come in apprensione per qualcosa. Le loro chiacchierate non finivano mai sulla distanza che li separava o sul suo eventuale ritorno, eppure lei sentiva che avrebbe voluto dirle di tornare. C'era un che di diverso nel suo tono di voce, come se le nascondesse qualcosa.

Forse erano sciocchezze, o probabilmente era solo stanca di stare lontana da casa ed era ora che tornasse in Giappone. Avrebbe avuto ancora un mese da poter passare in quell'esclusivo albergo italiano, lavorando fianco a fianco con uno chef col quale scambiava i segreti della cucina nipponica. La sua borsa di studio l'avrebbe coperta per un altro mese e avrebbe anche guadagnato qualcosa per acquistare degli ingredienti speciali da portare con sé.

Ma la sera prima aveva colto la cocente delusione nella voce del suo fidanzato, quando gli aveva comunicato di avere quattro settimane in più da passare in Italia, e che non sarebbe partita con il volo della mattina dopo come aveva preventivato.

Qualcuno bussò leggermente alla porta, riscuotendola dalle sue riflessioni. "Avanti", disse in giapponese e si ritrovò di fronte allo sguardo confuso del suo collega. "Scusa, ero distratta", spiegò nel suo italiano stentato.

"Però ho capito lo stesso che il tuo era un invito a entrare", rispose quello, ripetendo un paio di parole nella sua lingua affinché lo comprendesse meglio.

Ukyo sospirò. "Se rimanessi qui ancora un po' imparerei meglio l'italiano. E le tue ricette, Marco", concluse sorridendo.

Il cuoco di accigliò: "Hai un altro mese, infatti. Ieri mattina ne sembravi felice. Ora, invece...".

"Ho un locale da gestire, a casa. E un fidanzato a cui manco e che mi manca. Devo tornare", disse, improvvisamente conscia che non sarebbe rimasta.

Marco non ne parve sconvolto. Ukyo aveva più volte avuto l'impressione che si fosse infatuato di lei, in quelle poche settimane, nonostante avesse almeno sette anni in più. Ma la stupì quando disse: "Quello è il tuo posto, allora. Ti manderò il mio nuovo libro di ricette quando uscirà, a fine anno".

"Grazie", rispose lei semplicemente, abbracciandolo e cominciando a pensare a tutte le cose che avrebbe dovuto mettere in valigia in una sola sera.

***

Tu-Tum

Tu-Tum

Un cuore che batte.

Tu-Tum

Tu-Tum

Un essere vivo

Questo sentivi mentre un'infermiera sorridente passava l'ecografo sul tuo ventre gonfio, impiastricciato di un gel freddo e appiccicaticcio.

"Guardi, si vedono i piedini e le manine!"

Ma il tuo sguardo rimane fisso al soffitto: una, due, tre ombre... vetture che passano per la strada e attraverso la luce del sole che filtra dalle tende.

"Vuole sapere il sesso?"

Ti chiedi perché quella donna si ostini a tormentarti, hai l'impulso di strapparle quel maledetto aggeggio dalle mani e scagliarlo con violenza sullo schermo dove tuo figlio viene fedelmente riportato.

"Signora?"

Stringi i pugni, ti mordi le labbra fino a sentire il sapore del sangue sulla punta della lingua.

"Signorina. E non m'interessa il sesso, lo darò in adozione."

Fulmini con lo sguardo l'infermiera che sbatte le palpebre un paio di volte, mentre il sorriso beota che si era incollata sulla faccia muta in un'espressione di perplessità, poi di delusione.

"Oh..."

Già, 'oh'.

Nabiki si svegliò, madida di sudore. Non aveva mai fatto quella maledetta ecografia, perché l'aveva rimandata più e più volte, nonostante fosse ormai entrata nel quinto mese e fosse assolutamente necessario fare un visita per controllare che tutto procedesse bene. Non lo aveva mai sentito muoversi e ormai si era convinta che fosse morto.

Ma continuava, imperterrita e instancabile, a consultare avvocati e libri di testo per cercare un vincolo, una scappatoia che le permettessero di darlo in adozione, casomai fosse nato. Tra lei e Tatewaki si era scatenata una lotta a distanza, fatta di silenzi, visite inaspettate e litigate sulla soglia di una porta che veniva quasi sempre sbattuta, dall'uno o dall'altra.

Suo padre si era ormai rassegnato a quella storia, forse già abbastanza soddisfatto di aver fatto pace con Akane. A volte le sembrava che la sua famiglia avesse paura di lei. Con la gravidanza non si era trasformata in una di quelle donne amabili e addolcite come la rotondità del loro stesso ventre, ma in una specie di arpia presa in trappola. Più le parole di Akane di qualche tempo prima le riecheggiavano nella mente, meno sentiva di voler amare quell'essere nel suo ventre.

Non poteva, non voleva amare. Amare faceva male, portava solo sofferenza, lo aveva ben constatato quando sua madre...

Nabiki scattò a sedere sul letto, con una mano che andava automaticamente alla pancia e gli occhi spalancati.

"Che diavolo era?!", chiese alla stanza vuota.

Possibile che...

Sentì un'altra torsione, come un movimento involontario all'altezza dell'intestino, ma che non era nell'intestino.

Il marmocchio aveva deciso di prenderla a calci proprio nel momento in cui realizzava che il suo odio era semplicemente il timore di soffrire per amore, come era successo alla morte della mamma.

Quindi era vivo.

Quindi era così che succedeva. Scoprivi una verità inconfutabile e tuo figlio si faceva sentire.

Tuo figlio?!

"Io non ho un figlio, non l'ho deciso io", disse rivolta al proprio ventre, sicura di essere impazzita. Il feto rispose con un altro movimento, stavolta più forte. Forse aveva riconosciuto la sua voce.

Nabiki si portò le mani al viso, terrorizzata e si ributtò sul letto. Non doveva succedere, non doveva provare quella sensazione di sollievo, di apertura, di speranza. Doveva impedirsi di amare di nuovo. Erano più di quindici anni che scacciava certi sentimenti con decisione, in favore di questioni più concrete che portassero solo il bene della famiglia. E non l'avevano mai delusa.

Si rizzò a sedere e corse in bagno appena in tempo per rigettare una bile giallognola e disgustosa, simile al colorito della loro mamma quando la malattia...

Bastò quel pensiero a farle salire in gola un altro conato, a vuoto. Non aveva mangiato nulla la sera prima e non voleva mangiare neanche quella mattina. Ma il marmocchio continuava con i suoi colpetti, forse chiedendo a gran voce che le mandasse giù qualcosa.

Stava tentando di affamare lui o se stessa? O i propri sentimenti? Non lo sapeva più.

"Tutto bene, tesoro?". La voce di suo padre quasi la spaventò.

In tutti quei mesi, da quando avevano discusso per via del bambino e del matrimonio, si era tenuto alla larga, come osservandola da lontano. Non era mai entrato in bagno quando lei si sentiva male, anche se aveva avvertito più di una volta la sua presenza e la sua preoccupazione vicino alla porta.

Senza attendere una risposta, le mise una mano sulla fronte, attendendo che lei si raddrizzasse. Poi la sostenne gentilmente per le spalle, accompagnandola al lavandino perché si rinfrescasse. Nabiki non ebbe le forze per opporsi a quel calore, a quel contatto che minacciarono di soffocarla. Suo padre non la toccava così da quando era piccola.

"Mi ha preso a calci", disse improvvisamente.

"Davvero? Ma questa è...".

"Cosa, una bellissima notizia?", concluse acidamente, interrompendo l'espressione di gioia dell'uomo. Non le fece piacere farlo, e quella consapevolezza la spaventò, se possibile, ancora di più.

Si sciacquò la bocca e si bagnò il viso.

"È arrivata Kasumi con Tofu e i bambini. Ha portato uno dei suoi manicaretti. Perché non scendi a mangiare con noi?".

Nabiki era sicura che suo padre avesse espresso a sua sorella maggiore la propria preoccupazione per la scarsa alimentazione di quegli ultimi giorni e le avesse chiesto di fare qualcosa. Più volte Kasumi aveva tentato di parlarle, un po' come aveva fatto Akane, ma non era riuscita ad aprire alcuna breccia nel suo cuore. Almeno, così sperava.

"Non ne ho voglia. Penso che tornerò a dormire". Quelle strane sensazioni che sentiva la indurirono ulteriormente. Doveva ergere una barriera più forte e non permettere più che nessuno la toccasse o la inducesse a mangiare.

"Ma...".
"Cosa? Rischio di svenire? Di fare del male a tuo nipote? Beh, non me ne importa un fico secco, chiaro?!". Mentre registrava vagamente l'espressione costernata dell'uomo, girò i tacchi e si chiuse in camera.

Chiuse gli occhi, sedendosi sul letto. Sentì i passi di suo padre risuonare stanchi attraverso il corridoio. Ora sarebbe andato dagli altri e avrebbe detto loro, tristemente, che lei si rifiutava di mangiare e che era molto preoccupato. Forse sarebbe salita Kasumi con un contenitore caldo e lei l'avrebbe scacciata in malo modo.

Non era passato che qualche minuto che il suo timore si realizzò. Non bussò neanche, ma aprì la porta come se nulla fosse.

"Da quando in qua...". La voce le morì in gola quando vide Daiki porgerle un piatto fumante.

"Mamma ha detto che se non mangi sale pessonalmente a sculacciarti", disse sbagliando l'avverbio ma non il verbo. Rifletté, confusamente, che forse gli avevano ripetuto più volte quell'ultima parola, a lui di certo sconosciuta, perché la riferisse in modo corretto.

"E tu pensi di fare la spia se non mangio?", chiese inarcando un sopracciglio.

"Fare la spia è brutto come scuccialare", affermò sbagliando finalmente il termine.

Suo malgrado, a Nabiki venne da ridere ma si trattenne. Non avrebbe certo cacciato via malamente suo nipote di poco più di quattro anni, ma non si sarebbe fatta vedere fragile nemmeno da lui. "E tu sai cosa vuol dire sculacciare?"

Daiki ci pensò su un attimo: "No, ma la mamma mi ha detto di dirlo a te questa volta e poi di dimenticarlo. Dice che è meglio parlare, ma quando una persona è adulta e fa come i bambini, dirlo non fa male".

Stavolta rise apertamente, divertita: "E tu cosa ne pensi, credi che dovrei mangiare?". Parlare con quel piccoletto le trasmetteva una strana serenità. Sapeva che lui sarebbe stato sincero ma non l'avrebbe giudicata o rimproverata.

Il bambino parve riflettere, poi fece una cosa che la stupì. Le si avvicinò e le toccò la pancia. Il marmocchio scelse quel momento per dare un altro calcio e Daiki dovette sentirlo, perché sussultò: "Lì dentro c'è il mio cuginetto, vero?"

Come era capitata in quella situazione? Kasumi sapeva come sarebbe andata a finire, era per quello che aveva mandato avanti suo figlio invece di salire personalmente o mandare Tofu?

"Sì", rispose cercando di mantenere un tono neutro.

"Mamma mi racconta che quando ero nella pancia con Akio lei aveva sempre fame, e anche quando non l'aveva mangiava perché così dava da mangiare anche a noi", spiegò in tono serio, accarezzandole la pancia come se stesse conversando anche con il futuro cugino.

Quella era la mattina delle sorprese. E Nabiki fu, a dir poco, sorpresa di scoprirsi improvvisamente certa che il bambino sarebbe stato un maschio. E che avrebbe voluto che somigliasse a quel suo nipotino così intraprendente e coraggioso, che solo qualche tempo prima aveva affrontato indicibili pericoli per salvare suo fratello.

Ma non voleva disfarsene? Si chiese mentre cominciava a mangiare. Il primo boccone le parve spalancare una porta nel suo stomaco e Nabiki divorò tutto il piatto in pochi minuti, sotto lo sguardo soddisfatto di quel diavoletto di Daiki.

***

Akari chiuse gli occhi, concentrandosi. Ryoga era lì, accanto a lei, ne poteva avvertire il respiro. Le aveva spiegato tante volte come convogliare il proprio ki per dirigerlo verso le gambe, ma fino ad allora non era riuscita a muovere neanche un dito del piede.

D'altronde, i medici erano stati chiari, cosa avrebbe potuto fare se non affidarsi alla scienza? Eppure, ogni volta che tentava di fare per le gambe lo stesso che faceva per la mano destra quando usava il Bakusai Tenketsu, le pareva di avvertire una sorta di formicolio. Forse i collegamenti neuronali danneggiati tentavano di ricomporsi, magari era solo questione di tempo.

Dopo cinque minuti si arrese e si tirò a sedere, frustrata. "Niente da fare, è tempo sprecato".

"No, che non lo è. Se ci credi succederà, Akari!". Lei lo fissò. Da quando Ukyo gli aveva comunicato che sarebbe rimasta ancora all'estero sembrava più nervoso del solito e i suoi allenamenti finivano sempre più spesso con un muro da riparare o uno Shishi Hoko Dan che rompeva il vetro di una finestra.

Le si avvicinò con gli occhi che brillavano e lei quasi si spaventò. "Pensa a quel momento, concentrati sulla trave. E convoglia la tua rabbia nelle gambe".

Era qualcosa di simile proprio allo Shishi Hoko Dan che le stava proponendo? "Ma... ma il mio ki...".

"Si tratta della stessa cosa. Usa la rabbia", ringhiò fuori di sé.

Akari fu certa che stesse pensando a lei. Non sopportava più la sua lontananza, e di certo non sopportava più di sentirsi trascurato in favore dei suoi studi. Si sentì contagiata da tanto rancore e, improvvisamente, tutto venne a galla.

Il terremoto, la trave, le urla. Akari, seduta a terra con le gambe inerti, si puntellò sui pugni tentando di sollevarsi. Ryoga, il tentativo di suicidio, l'ospedale. E poi Ukyo, l'addio all'amore della sua vita. Un ringhio quasi animalesco le vibrò nel petto, scuotendola fin nel profondo del proprio essere. Ryoga, Ukyo, lei, con le sue speranze inutili.

Gridò forte e una luce improvvisa l'accecò. Udì distrattamente anche l'urlo di stupore di Ryoga e, come risvegliandosi da un incubo, si ritrovò sulle punte dei piedi, i muscoli delle braccia e del collo contratti, le gambe che sembravano attraversate da milioni di spilli incandescenti. Durò solo qualche istante, poi crollò al suolo, nel solco che lei stessa aveva creato sotto di sé.

Si guardò le gambe e i piedi, incredula, e cercò Ryoga con lo sguardo. "Io... io...". Le tremava la voce, era sul punto di piangere e nello stesso tempo avvertiva una speranza ardente avvolgerla come un manto benefico.

Ryoga, chiaramente sconvolto, l'abbracciò di slancio e lei cominciò a singhiozzare sul suo petto. "Ce l'hai fatta, ce l'hai fatta, piccola Akari. Non piangere", le ripeteva con voce rotta.

Fu allora che accaddero due cose. Come in sogno, alzò il viso madido di lacrime verso quello di lui e lo baciò con una passione di cui non si credeva capace. E si rese conto, turbata e furente, di udire la porta della palestra spalancarsi e una voce tristemente nota blaterare: "Sono tornata, testone! Ora proveremo insieme la pizza italiana al posto degli okonomyia...", per poi spegnersi di botto.

Capì la portata di quello che era accaduto solo quando, frastornata e delusa, si ritrovò da sola sul pavimento mentre Ryoga correva via gridando il nome della fidanzata che, evidentemente, aveva deciso di anticipare il rientro proprio a quel giorno.
   
 
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