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Autore: Adeia Di Elferas    24/06/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quando sentì lo scatto della porta, Caterina, che per ingannare l'attesa si era seduta sul letto, si alzò all'istante.

Giovanni da Casale era da solo, aveva aperto l'uscio senza annunciarsi, come qualcuno che torna in casa propria dopo essere stato via appena cinque minuti, e poi l'aveva richiuso immediatamente, quasi a voler lasciar fuori da quella stanza il resto del mondo.

Aveva la barba un po' lunga, segno, pensò subito la Sforza, mentre gli andava incontro senza esitazione, di qualche giorno di trascuratezza. Però lo luce dei suoi occhi e il nero dei suoi folti capelli erano gli stessi che si ricordava lei.

Mentre lo baciava, prima ancora di riuscire a dirgli una parola, fece correre le mani sulle sue braccia forti e poi sulla schiena e sul petto. Le sembrava che, se non avesse fatto a quel modo, non sarebbe riuscita a riconoscerlo appieno.

Di contro anche Pirovano si era messo subito a indagarla, affamato per la lunga separazione, distrutto, dopo quella missione di cui aveva capito poco e da cui aveva ottenuto anche meno, e accecato dal desiderio, che era rimasto frustrato per settimane, nell'attesa di riavere la donna che amava.

La Tigre sentiva la voglia dell'uomo che aveva davanti, l'esuberanza della sua età, il calore del suo corpo che la chiamava e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, tutti i suoi propositi, tutte le sue domande, sparirono nel nulla e si lasciò guidare dal suo istinto.

Giovanni da Casale, già annebbiato per il lungo viaggio e per lo stordimento di ritrovarsela finalmente tra le braccia, bellissima, assetata e vorace come la ricordava, intese bene la sua resa e non perse altro tempo.

La Contessa continuava a baciargli le labbra, a mordergli il lobo dell'orecchio e poi a scendere lungo la gola, sentendo quel sapore un po' salato e aspro che le raccontava di una giornata passata a cavalcare sotto il sole, spronando di continuo il cavallo per arrivare presto da lei.

Vedeva come gli abiti di lui fossero impolverati e come il suo viso fosse ancora un po' arrossato e anelante una bacinella d'acqua fresca per ristorarsi. Ma non le importava.

Mentre Pirovano le metteva con decisioni le mani sui fianchi, spingendola verso il letto, lei iniziò a slacciargli le brache. Per agevolarla, Giovanni sollevò un momento le braccia e così, in un sol colpo, lei gli tolse il camicione e il giustacuore leggero.

“Non ne potevo più...” soffiò lui, lasciando cadere in terra i propri vestiti e facendo sdraiare la Leonessa, iniziando a sollevarle le gonne e a cercarla.

“Nemmeno io...” sussurrò lei, intendendo, però, qualcosa di un po' diverso.

Era vero, aveva voglia di risentirlo sopra di sé, si amarlo fino allo sfinimento, ma soprattutto non ne poteva più di saltare da un uomo all'altro per riuscire a calmarsi. Voleva disperatamente tornare a essere un'amante fedele. Era difficile, ma con lui vicino, poteva riuscirci.

Da quel punto in poi, spense la mente. Si lasciò trasportare dal milanese che, reso più intraprendente del solito probabilmente dall'attesa, si dimostrò all'altezza della situazione, facendola sentire lontana da tutto, estranea ai problemi della sua vita, immersa in un completo benessere.

Quando finalmente placarono entrambi la propria furia, Caterina si coprì un po' con il lenzuolo, benché non facesse affatto freddo. Il letto era sfatto e uno dei cuscini era finito a terra. Se non fosse stato che sapeva di aver ancora mille cose da fare, la donna si sarebbe abbandonata a un sonno ristoratore, che di certo, almeno quella volta, sarebbe arrivato facilmente e sarebbe stato privo di incubi e senza risvegli bruschi.

Ma non poteva, e così cercò di restare sveglia. Si voltò sul fianco e guardò Pirovano che, al contrario di lei, non pensava nemmeno minimamente di coprirsi, restando nudo davanti a lei, come se volesse indurla a guardalo.

In quel momento, vedendo il suo corpo muscoloso e giovane, la Sforza si disse con un velo di ironia, che aveva fatto bene a scegliersi un amante che avesse quasi quindici anni meno di lei. Per quello a cui le serviva, dopotutto, la resistenza fisica e l'entusiasmo erano qualità fondamentali, e, dopo l'esperienza di Giacomo prima e di tanti altri poi, aveva capito che la giovinezza spesso racchiudeva entrambe le caratteristiche.

Allungando una mano verso di lui, cominciò ad accarezzarne il ventre, scendendo poi alla radice della coscia, disegnandone il contorno.

Si chiedeva perché non fosse riuscita ad aspettare, perché non avesse cercato di controllarsi. Con tutte le cose che doveva chiedergli e che doveva dirgli... Non era stata in grado di vincersi.

Pirovano si stava godendo in silenzio il tocco della sua amante, osservandone con attenzione il viso, una delle poche parti di lei rimasta scoperta dal lenzuolo. Era ancora più bella di come la ricordava, anche se il volto era stanco. Si chiese quale fosse il motivo di quegli occhi un po' pesti, ma sapeva di non essere oggettivo, quando si rispondeva che probabilmente lei aveva passato intere notti insonni in sua attesa.

“Che aria tira a Firenze?” chiese di punto in bianco la Sforza.

“Vuoi parlare di politica? Adesso?” domandò subito di rimando l'uomo, accigliandosi, l'espressione beata che aveva avuto fino a un'istante prima che si dileguava.

“Perché, di che altro dovrei voler parlare?” fece allora la Contessa, smettendo immediatamente di accarezzarlo e facendosi più seria.

“Non... Non vuoi parlare di... Di noi, ecco?” ribatté, quasi confuso, Pirovano.

In quel momento Caterina ebbe di nuovo l'evidenza tangibile della loro differenza d'età, ma, a dispetto di quanto aveva pensato poco prima, adesso non le sembrava più tutto questo gran vantaggio.

Era vero, anche un uomo di quarant'anni avrebbe potuto farle quel genere di obiezione, ma Giovanni, con il suo viso ancora senza una ruga e l'incrollabile ottimismo di un ragazzo che ha da poco passato i vent'anni, era comunque più difficile da far ragionare.

Così la Leonessa provò a smorzare la cosa prendendola in un verso che il suo amante non si aspettava. Con una breve risata ricominciò a passare lentamente una mano sul suo corpo, quasi sperando di distrarlo, e scosse il capo.

“Parlami di che aria tira a Firenze. Voglio sapere tutto, da come si sta muovendo mio cognato Lorenzo a cosa si dice alla Signoria. Hai rivisto Machiavelli, mentre eri lì, giusto? Ecco, parlami anche di lui.” gli disse, non con il tono che usava quando dava ordini, ma con voce più leggera.

Pirovano, ancora un po' interdetto, decise di non farsi domande. Aveva già avuto modo di scontrarsi con la donna che amava e non voleva ripetere l'esperienza. Si disse che Caterina era così e basta e che cercare di indurla a parlare d'amore o pretendere che, almeno quella volta, gli affari di Stato restassero fuori dalla camera da letto, erano solo sforzi inutili.

Così le parlò diffusamente di quanto aveva visto e fatto, dell'accoglienza fredda del Medici e di come la Signoria l'avesse rimbalzato di continuo, trattandolo come l'ultimo dei servi.

“Sono stato sulla tomba del tuo Giovanni, come mi avevi chiesto.” concluse, poi, quasi sussurrando, una mano aperta sul petto e lo sguardo che si perdeva contro il soffitto: “Il giorno stesso in cui sono arrivato a Firenze.”

Nel sentire ciò, le dita della Sforza, che non avevano smesso un attimo di saggiare il corpo dell'amante, mentre parlava, ebbero un breve fremito. Il nodo nuziale che ancora portava e che testimoniava il legame che ancora aveva con il Medici sembrava rilucere di vita propria in quel momento.

“Grazie.” disse, in un soffio, la donna.

“È una tomba tranquilla.” commentò Pirovano, quasi distrattamente.

Caterina sospirò e poi, avvertendo le sue ombre riavvicinarsi in modo pericoloso, smise bruscamente di accarezzare il milanese e si mise a sedere: “Avanti. Ci sono tante cose da fare. Come ti avevo scritto anche per lettera, l'epidemia di peste stenta a cominciare, ma non bisogna permettersi di abbassare la guardia. E poi voglio portarti a vedere la cittadella. Ormai è pronta e nel giro di un mese voglio che tu ne sia abbastanza pratico da poterne essere il Capitano.”

“Quindi mi spedirai a vivere alla cittadella del Paradiso?” domandò l'uomo, con un sospiro, mentre lasciava a sua volta il letto, seppur di malavoglia.

La Tigre aveva capito benissimo cosa intendesse dire Giovanni, e, volutamente, lo prese in giro, scherzando: “Quando sarà il momento. Quindi sfrutta bene le prossime notti, finché puoi, mi raccomando...”

Il giovane ricambiò la bassa risata, ma non era per niente divertito, dato che, come sempre quando lei parlava di certe cose, non sapeva fino a che punto fosse seria.

 

Galeazzo Sanseverino era scappato da Alessandria, seguito senza esitazione alcuna da Lucio Malvezzi e da un centinaio di armigeri, con qualche decina di cavalleggeri.

Alessandro Sforza non riusciva a capire quel gesto, si sentiva tradito, messo in ridicolo, perfino, e vedere i francesi continuare a insidiare Alessandria lo stava facendo sprofondare nel più nero pessimismo.

“Dobbiamo andarcene.” provava a dirgli qualcuno.

“Battiamo in ritirata!” esclama qualcun altro.

“Ripariamo a Pavia!” proponeva un terzo.

Ma solo il suo attendente, coprendosi le orecchie per ripararsi da un colpo di cannone sparato abbastanza vicino a loro, che seppe trovare le parole giuste per convincere il comandante: “Mio signore – gli disse, accorato – siamo una manciata appena di uomini, siete sprecato, qui. Ritiriamoci verso Milano, rimettetevi alle decisioni di vostro zio, che vi darà truppe fresche, e allora sì che rispediremo indietro i francesi!”

Lo Sforza credeva alle parole del soldato solo a metà, ma era abbastanza intelligente da rendersi conto che, restando, sarebbe davvero andato incontro a una morte sì onorevole, ma del tutto inutile.

“E va bene...” soffiò, per poi ordinare, con voce tonante: “Prepararsi a ripiegare! Lasciamo la città!”

“Avete preso la decisione giusta.” gli disse l'attendente.

Alessandro annuì, secco, ma dentro di sé si sentiva morire. Mentre guardava i suoi soldati – o, meglio, i pochi rimasti – prepararsi per andarsene, si chiese cosa ne sarebbe stato della sua Milano.

Solo in quel momento riusciva a capire che Malvezzi, Galeazzo Sanseverino, e perfino Fracassa, che stava impegnando in modo molto saltuario le truppe di riserva dei francesi lì nell'alessandrino, avevano avuto più ragione di lui fin dall'inizio. Quella guerra il Moro la stava gestendo malissimo e non sarebbe riuscito a vincere.

Aveva sbagliato l'intero impianto difensivo e, colpa ancor più grande, era stato proprio Ludovico a insinuare nel re Luigi il gusto per il Ducato di Milano. Se lui non li avesse chiamati, anni prima, nell'illusione di far conquistare da loro Napoli per poi riceverla in dono, forse ai francesi non sarebbe nemmeno venuto in mente di provare a conquistare quelle terre...

“Mio signore, tutto bene?” chiese dopo un po' l'attendente, vedendo lo Sforza un po' assente, immobile mentre tutti si affaccendavano per essere pronti a partire.

Alessandro si riscosse e, con tono funereo, rispose: “Bene, tutto bene.”

 

“Va pure avanti, che poi arrivo” gli aveva detto Caterina, quando il castellano l'aveva fermata, mentre scendevano nella sala dei banchetti per la cena, e così Pirovano aveva fatto.

Lui e la Sforza erano stati al Paradiso per tutto ciò che era rimasto loro del pomeriggio. Il tempo non era stato sufficiente per mostrare al milanese tutto quello che c'era da vedere, però Giovanni aveva potuto cominciare a farsi un'idea di quello che sarebbe stato il suo lavoro. Da quando era partito per Firenze, la cittadella aveva assunto una struttura molto più definita e la gran quantità di armi e vettovaglie che la Leonessa vi aveva ammassato dava l'idea che ormai il Paradiso fosse pronto all'uso.

Sperava che la Contessa arrivasse in fretta, perché, anche se non era stato via molto, si sentiva un po' a disagio, senza lei affianco, a quel tavolo attorno al quale cominciava a esserci già troppa gente.

In particolare, anche se era stato appena un attimo, a metterlo in difficoltà era stato incontrare tre dei figli della Tigre – Galeazzo, Bianca e Bernardino – che l'avevano fissato un po', come preda di chissà quali domande, e poi l'avevano salutato in modo formale, alla stregua di un mezzo sconosciuto.

Non gli erano parsi ostili, ma comunque c'era stato qualcosa, nel loro modo di rivolgerglisi che gli aveva messo un po' d'ansia. Non che si sentisse in qualche modo minacciato da loro, tutt'altro. I figli della sua amante sembravano averlo accettato con una certa serenità, perfino Ottaviano, che era quasi suo coetaneo e, proprio per questo, avrebbe potuto essere il più insofferente.

Solo, mentre incrociava i loro sguardi, avvertiva in loro una sorta di rassegnazione, un po' come se nel vederlo pensassero: ecco l'uomo di turno, finché dura.

Pirovano, giusto per non restare con le mani in mano, cominciò a servirsi un pezzo di stufato di cervo. Aveva saputo che sia a Forlì sia nei dintorni trovare carne stesse diventando molto difficile. Il fatto che Caterina potesse permettersi di portarla in tavola anche a beneficio dei suoi soldati, lo sapeva, era dovuto solo al fatto che la sua riserva di caccia era abbastanza grande da permettere di trovare buone prede anche con quel clima sfavorevole.

Però, si chiedeva, che avrebbero pensato i forlivesi comuni, nello scoprire che alla rocca si mangiavano ancora quotidianamente stufati e arrosti?

Mentre era immerso in quei pensieri che, se ne rendeva ben conto, lo sfioravano appena, sentì la voce del Capitano Rossetti salutarlo: “Messer Giovanni!” esclamò l'uomo, passandogli accanto, prima di andarsi a sedere: “Siete tornato! La Contessa ne sarà felice, immagino...”

Il sorriso che gli aveva incurvato le labbra, a Pirovano proprio non piaceva. Tuttavia ricambiò con un saluto e confermò che era così.

Seguì distrattamente il Capitano che andava a sistemarsi accanto a un paio di soldati, e si stava già rimproverando silenziosamente di essere troppo paranoico e di aver visto in quel sorrisetto troppi sottintesi, quando sentì la voce di Rossetti sussurrare a uno di quelli che aveva accanto: “Ora che è tornato lui, la pacchia per voi è finita...”

“Parla per lui – rispose uno dei due, sulla quarantina, senza uno degli incisivi superiori, indicando il compare alla sua destra – perché a me, vecchio e brutto come sono, quella non mi vede nemmeno!”

Questi aveva alzato un po' troppo il tono e infatti anche il Capitano occhieggiò, un po' teso, verso Giovanni da Casale.

Egli, però, faceva mostra di non aver sentito, e così Rossetti tirò un mezzo sospiro di sollievo e, con un calcetto da sotto il tavolo all'amico, disse: “Usa il cervello, prima di parlare!”

Però Pirovano aveva sentito, fin troppo bene. Provò a mettere in bocca un pezzo di cervo, ma gli pareva stopposo e insapore. Sentiva le mani sudate e la sua incrollabile certezza, ovvero che la Tigre gli fosse stata fedele durante tutta la sua assenza, stava venendo rapidamente meno.

“Scusami se ti ho fatto aspettare – fece Caterina, arrivando finalmente accanto a lui, sedendosi e versandosi subito da bere – il castellano doveva parlarmi di alcune cose... Ne discuteremo però domani in consiglio di guerra. O, se preferisci, noi due possiamo parlarne già dopo, in camera.”

L'uomo fece un cenno con il capo, che voleva dire tutto e niente, e mentre la sua donna attaccava con voracità lo stufato, a lui non restò che provare a mettere ancora qualcosa nello stomaco e attendere che il nodo che gli stringeva la gola passasse.

 

Ludovico teneva le grosse mani stretta l'una nell'altra dietro la schiena e lo sguardo fisso su quel che si poteva vedere di Pavia dalla finestra. Stava scendendo la sera e il Duca non poteva non ripensare a sua moglie Beatrice e a quello che, per volere di lei, lui si era ritrovato a fare.

Quel castello gli era sempre piaciuto poco. Ricordava che per suo fratello Galeazzo Maria, invece, era una vera passione, da ragazzo. Probabilmente solo perché quando andava a Pavia poteva scrollarsi per un po' di dosso i genitori e i precettori...

“Andate avanti.” disse, con voce tetra il Moro, spostando lo sguardo dalla soleggiata giornata di fine agosto all'interno del salone.

Aveva deciso di spostarsi a Pavia per controllare – come gli era stato suggerito dal nipote Ermes e dal cancelliere – lo stato delle truppe e raccogliere informazioni più certe riguardo lo stato dell'esercito francese. Tuttavia, non appena aveva visto in lontananza la torre in cui aveva fatto rinchiudere tempo addietro Isabella d'Aragona, si era subito reso conto che era stato un errore.

Quella città aveva la spiacevole capacità di metterle subito di cattivo umore e trovarsi in quelle grosse stanze disadorne e poco illuminate peggiorava solo la situazione.

Appena era arrivato, aveva voluto vedere Francesco, il figlio di suo nipote. Aveva otto anni, ma aveva qualcosa, nello sguardo, che lo faceva sembrare più vecchio. Era in buona salute, ma al Duca diede l'impressione di essere troppo delicato, per poter affrontare la vita reale. Forse, restare chiuso in quel castello, orfano di padre e lontano dalla madre, aveva fatto più danni del previsto.

“Vi ho detto di andare avanti!” sbottò Ludovico, vedendo come il portavoce del campo sforzesco di Pavia taceva.

Questi sospirò e proseguì: “Come vi dicevo, c'è agitazione tra i soldati perché hanno saputo che Giampaolo Manfrone ha attaccato i nostri a Pontoglio, battendoli anche abbastanza facilmente, essendoci Melchiorre Ramazzotto a Pontevico, a sorvegliare la costruzione di un ponte sul fiume che...”

“Pontoglio è a giorni di distanza da qui! È quasi a Brescia, per Dio! Che gliene importa, che siamo a Pavia!” fece contrariato il Moro, che, però, nel pensare a come tutti, francesi di qua e veneziani di là, stessero aggredendo senza alcuna creanza i suoi confini, si sentiva prossimo alle lacrime.

“Manfrone – riprese il portavoce, ignorando il piccolo scatto di nervosismo del suo signore – si è ricongiunto col resto dell'esercito veneziano, riunendosi con il Conte di Pitigliano, Niccolò Orsini, che era corso a sua volta a Pontoglio assieme a Bernardino da Montone e Bartolomeo d'Alviano con milleseicentotrenta lance e novemilacento fanti.”

“E adesso dove stanno muovendo?” chiese lo Sforza, cercando di non pensare alle cifre appena dette dal soldato.

“Pare che l'Orsini volesse andare subito verso Cremona, ma l'Alviano l'ha convinto a fare altrimenti e hanno preso Antegnate, Barbata, Pumenengo, Calcio e Fontanella.” spiegò il portavoce, abbassando lo sguardo: “E poi...”

“E poi! E poi cosa?!” Ludovico avrebbe voluto prendere per il collo l'omuncolo che aveva davanti e farlo a pezzi, se solo fosse servito a qualcosa: “Che altre catastrofi dovete dirmi?! Avanti, non siate un vile! Parlate!”

L'altro, ben lungi dal farsi sconvolgere dalle esortazioni tutt'altro che gentili del Moro, sospirò e disse: “Nessuna catastrofe. Solo Prospero Colonna, che ha annunciato di essere appena partito, per ordine di Federico d'Aragona, e che sta per arrivare qui in Lombardia per...”

“Cos'è? Anche Napoli, adesso, parteggia per Venezia o per la Francia? Perché se è così, io..!” fece lo Sforza, gli occhi che si sgranavano e una mano che si agitava in aria stretta a pugno.

“No, ha con sé quattrocento lance e millecinquecento fanti, per venire in nostro soccorso.” non appena il portavoce del campo pavese ebbe finito di dire la frase, una delle guardie arrivò con il fiato grosso alla porta e richiamò l'attenzione del milanese.

“Mio signore – gli disse – c'è qui Lucio Malvezzi e vuole incontrarvi.”

“E che ci fa qui? Non doveva essere ad Alessandria, a difendere la città?” chiese il Duca, accigliandosi.

La guardia appena arrivata prese aria e poi spiegò: “Alessandria è caduta. Lui e il Sanseverino hanno ripiegato qui a Pavia.”

Lo Sforza sentì la terra mancargli sotto ai piedi. Sapeva, in cuor suo, che Alessandria non avrebbe resistito in eterno, ma, per Dio, era sotto assedio da appena un paio di giorni, secondo i suoi calcoli, come poteva essersi già arresa? Perché Malvezzi e il Sanseverino l'avevano già abbandonata?

“Lo incontrerete qui?” chiese il soldato, che ancora aspettava.

“Io non incontro assolutamente nessuno!” rispose Ludovico, con la gola che si stringeva per il panico e l'aria che gli mancava nei polmoni: “Io... Io devo tornare subito a Milano! Pavia sarà la prossima, e io non voglio essere catturato!”

Il momento di gelo che seguì non fece altro che aumentare la paura nel cuore del Duca, che, quasi annaspando, andò alla porta e ribadì: “Devo andarmene! Devo tornare a Milano!”

“Quindi non incontrerete Malvezzi..? Dice di avere cose importanti da...” provò la guardia, ma lo Sforza era già andato via.

Vedendolo così di corsa, il segretario, che l'aveva seguito da Milano per quella breve missione, gli filò dietro e, quando lo raggiunse e si sentì dire che sarebbero tornati a casa subito, chiese, con un senso pratico decisamente più reattivo di quello del suo signore: “E Francesco, il figlio di vostro nipote? Lo lasciate qui, col rischio che Pavia cada e finisca in mano francese? Col rischio che possano usarlo contro di voi?”

Il Moro non aveva né tempo, né voglia, né testa per seguire il suo ragionamento e così, avanzando come una furia per andare a ordinare personalmente agli stallieri di preparargli il cavallo, gridò, con fare quasi oltraggiato: “Ma che me ne importa di quel bambino! Io devo mettere in salvo i miei, di figli! I miei!”

Tuttavia, già mentre si trovava in strada, Ludovico cominciò ad avere qualche dubbio. Francesco, per quanto fosse ancora piccolo, poteva davvero essere un'arma, nelle mani di re Luigi.

Si lambiccò a lungo, fin quasi alle porte di Milano e poi prese la sua decisione. Appena giunto al palazzo di Porta Giovia, convocò il suo cancelliere, Ermes e Ascanio. Ordinò a quest'ultimo di preparare la partenza dei suoi figli, dicendogli di far in modo che se ne andassero il prima possibile e nel modo più sicuro, mentre, con gli altri due, iniziò a sgranare una serie di possibilità, e, ciascuna di esse, vedeva Francesco non più come un pericolo per lui, ma come un'opportunità di salvezza.

 

Caterina sospirò e riprese: “Adesso che Giovan Francesco Sanseverino ha abbandonato mio zio ed è passato al soldo dei francesi, ci vuol ben altro che Annibale Bentivoglio coi sui cento armigeri e cento cavalleggeri, per tener testa al Trivulzio.”

Giovanni da Casale l'ascoltava solo con un orecchio. Da quando erano arrivati in camera, benché lui volesse ripetere quello che avevano fatto quel pomeriggio, la sua donna non aveva fatto altro che parlargli prima della condotta ancora pendente per Ottaviano, poi del processo a Castrocaro e dell'impegno solenne e commovente di Luffo Numai e infine delle novità della guerra e del suo parere a riguardo di ogni minima mossa, sia sul fronte milanese, sia su quello fiorentino.

“Annibale Bentivoglio – continuò lei, ancora seduta sul letto, dando le spalle all'amante che, sfinito da tutte quelle parole, si era steso, ancora vestito, accanto a lei – che non ha, per altro, nemmeno avuto il coraggio di presentarsi di persona, ma che ha mandato al suo posto Carlo Degli Ingrati!”

La Sforza non ricordava di aver parlato così tanto da tempo immemore. Non le sembrava vero di avere qualcuno con cui sfogarsi. Da che era morto Giovanni Medici, e da che Fortunati era partito, non aveva avuto più nessuno disposto a sentirsi riversare addosso i suoi pensieri in modo tanto caotico e libero.

Voltò appena la testa verso Pirovano e si rese conto, con una spina di delusione, che forse il milanese non la stava ascoltando più da un pezzo. Poco male, era servito a farle svuotare la testa e rimettere in ordine i pensieri.

“E tua nipote Ippolita?” chiese, a sorpresa, l'uomo.

La Tigre corrugò la fronte, sorpresa nel vedere che, forse, il suo amante l'aveva seguita più del previsto: “Adesso è con suo marito Alessandro Bentivoglio, ormai le mie spie ne sembrano certe. È al sicuro.”

“Per quanto si possa essere al sicuro in una città sotto assedio.” precisò lui, tirandosi a sedere e avvicinandosi a Caterina, con intenzioni abbastanza chiare.

“Milano non è ancora sotto assedio.” precisò lei: “E spero che non lo sia a breve. Perché quando cadrà Milano...”

“Arriveranno addosso a noi, lo so.” tagliò corto Giovanni, dandole un bacio sul collo e cominciando a farle scivolare di lato la spalla dell'abito, per baciarle la pelle liscia.

La Leonessa avrebbe volentieri proseguito il suo discorso, ma sentiva il bisogno di Pirovano, e lo capiva, anzi, lo condivideva. Dopo tanto tempo lontani, riaverlo per sé le sembrava quasi un sogno.

Con naturalezza, come se anche quello facesse parte del loro dialogo, la Contessa e il milanese si svestirono l'un l'altra, con lentezza, senza fretta, una volta tanto e si riassaporarono a vicenda, lontani dalla frenesia che li aveva animati quel pomeriggio.

Alla fine, stanca, ma molto più tranquilla di quanto non fosse stata nell'arco dell'ultimo mese, Caterina gli si mise accanto, cercandogli una mano con la sua e, con un respiro ancora un po' spezzato, gli disse: “Sono felice che tu sia tornato.”

A quelle parole, l'uomo sentì risuonare nelle orecchie le frasi cattive e infide del Capitano Rossetti e del suo amico, udite a cena.

Con una scossa che gli attraversava il corpo, chiese, pacato, senza voler sollevare litigi o questioni particolari: “Hai avuto altri uomini, mentre non c'ero?”

Il modo in cui la Sforza si irrigidì accanto a lui non gli fece ben sperare. Di contro, la Tigre si trovò a ricordare di quando, per la prima volta da che Pirovano era partito per Firenze, aveva cercato compagnia e di come il soldato le avesse rivelato che proprio il milanese aveva minacciato buona parte dell'esercito proprio al fine di non farle trovare nessun rimpiazzo, per quanto temporaneo.

“Temo che le tue minacce non siano state abbastanza convincenti.” disse solo, la donna, aspettando una reazione dell'amante.

“Mi stai dicendo che...” prese a dire lui, scattando seduto sul letto e scostando la mano da quella della Leonessa: “Mi stai dicendo che mi hai tradito?!”

“Ti sto dicendo che non sono rimasta da sola, come immagino non lo sia rimasto nemmeno tu.” si schermì la Contessa, restando coricata.

Giovanni si passò una mano sulle labbra, la guardò, poi fece una smorfia e poi, con un verso di frustrazione, esclamò: “Che diamine, Caterina! Io non sono come Manfredi o come il tuo Giacomo...”

Nel sentir nominare il secondo marito, anche la Tigre scattò seduta e diede uno spintone all'amante che, colto alla sprovvista, per poco non cadde dal letto: “Come osi parlare di Giacomo? Che ne sai tu di com'era? Come osi insinuare che mi tradisse? Tu non sai nulla, di lui!”

Più per trattenersi dal restituire i colpi di mano che altro, Pirovano si mise in piedi e, da debita distanza, decise di contrattaccare con la lingua: “Dai, non essere ingenua... Giovane, più giovane di te, soprattutto, bello, perché tutto lo dicono, guardato da tutte le donne della città... E tu mi vuoi venire a dire che si accontentava di avere solo te?”

Alzarsi e allontanarsi non era bastato per tenersi fuori dalla portata della Sforza. Questa, infatti, già mentre il milanese era a metà frase, era saltata giù dal letto e l'aveva raggiunto, finendo, dopo l'ultima domanda retorica, col dargli un forte schiaffo in faccia.

Rimasto impassibile, Giovanni tenne gli occhi fissi in quelli di lei per un po' e poi, a voce bassa, le disse: “Credevo che con me fosse diversa. Credevo che tu mi amassi.”

“Se ti avessi amato – ribatté la donna, fronteggiandolo – come avrei potuto, quella volta, scacciarti dal mio letto per lasciare il posto a Manfredi?”

“Pensavo che...” Pirovano si morse il labbro e poi concluse, lapidario: “Pensavo che lui fosse un'eccezione.”

“Allora l'ingenuo sei tu.” soffiò la Contessa, retrocedendo di mezzo passo, decisa a mettere le cose in chiaro e a ferire colui che aveva davanti, per punirlo ancora per quanto aveva osato insinuare su Giacomo: “Sapevi che ero così anche prima che cominciassimo a incontrarci. Tu non sei mio marito, tu per me non sei niente. Sei solo un uomo che mi porto a letto quando non trovo di meglio.”

“Ma io pensavo...” riprovò l'uomo, sul cui viso ormai Caterina vedeva aleggiare un'aria confusa che aveva imparato a riconoscere a sue spese.

“Non pensare.” sussurrò allora la donna, cercando di riparare in extremis a una frattura che, forse, sarebbe stata così profonda nell'animo del suo amante, da risultare insanabile.

Giovanni, il cui respiro si era fatto più veloce, preda di fantasmi che la sua mente si era rifiutata di prendere in considerazione fino a quel momento, taceva. Guardava la sua donna e taceva.

Stava pensando a tutto quello che aveva lasciato per lei, alla sua carriera militare, al modo in cui aveva deluso Ludovico Sforza, l'uomo che aveva fatto di lui un soldato, strappandolo dal mondo paludoso in cui era nato, e ripensò anche a quello a cui aveva implicitamente rinunciato stando accanto alla Tigre. Avere una famiglia normale, volere dei figli, condurre una vita rispettabile con una moglie devota e fedele che pregasse per lui mentre era in battaglia.

La cosa che più lo confondeva, però, era il capire che, malgrado tutte quelle consapevolezze, la sua scelta ricadeva ancora su di lei.

Con la bocca un po' impastata e la voce incerta, Pirovano piegò appena il capo di lato, come andando incontro alla mano della Sforza, che si era arrischiata ad accarezzargli la guancia ispida di barba nera, e chiese: “Perché dovrei starti ancora accanto?”

Caterina avvertì l'abissale inquietudine di quella domanda. Sapeva che quel giovane uomo stava decidendo, di fatto, tra la vita e la morte. Restare con lei significava rimanere fino alla fine, in tutti i sensi, lasciarla, invece, sarebbe stato sinonimo di libertà.

Deglutendo e abbassando lo sguardo per un istante, per poi ripiantare gli occhi verdi in quelli del milanese, la Leonessa decise di essere cinica e di fare quello che riteneva meglio per sé. In fondo, pensava, era stata usata da molti uomini, fino a quel punto della sua vita. Da suo padre, da suo zio, da suo marito Girolamo... Perfino, si disse con uno stiletto avvelenato nel cuore, da Giacomo.

Adesso era il suo turbo di prendere quello che voleva, esercitando la propria forza su qualcuno.

Il suo terzo marito, nel sapere del suo ragionamento, di certo avrebbe cercato di dissuaderla, avrebbe fatto il possibile per farla ragionare e riportarla sulla retta via. Ma il Medici era morto e con lui le ultime briglie in grado di dominare una belva feroce come la Tigre.

Così, parlando con decisione, proprio per dissipare ogni dubbio di Pirovano e invogliarlo a ubbidirle, offrendogli una via sicura e ben dritta, la donna rispose: “Perché me l'hai giurato.”

Giovanni pareva stordito, da quella risposta. All'improvviso tutto sembrava facile. Aveva ragione lei: ormai lui aveva giurato. Il solco era stato tracciato, bastava seguirlo, andando avanti come nulla fosse qualsiasi cosa fosse successa.

Per abbattere anche l'ultima perplessità, Caterina si sporse verso di lui, baciandogli le labbra e poi la guancia. I loro corpi, nudi e caldi, si sfioravano appena.

“Stanotte resti con me?” chiese la Contessa, intrecciando le dita della mano con quelle del giovane.

Il milanese annuì, senza trovare la forza di parlare.

“E anche domani notte, e la notte dopo ancora..?” lo incoraggiò la Leonessa, dandogli di quando in quando qualche altro bacio, la mano libera che gli sfiorava il petto ampio.

Pirovano annuì di nuovo e questa volta riuscì a dire: “Fino alla fine.”

La mitezza con cui l'uomo aveva parlato, fece capire a Caterina di averlo in pugno. Quel brivido di potere, che era esattamente ciò che cercava nell'avvicinare gli uomini, da che era morto Giacomo, la soggiogò, rendendola a sua volta schiava.

“Torniamo a letto.” sussurrò e, tenendo ancora per mano il suo amante, lasciò che la burrasca che non aveva avuto il tempo di scatenarsi sfociando in violenza, si addomesticasse in un modo molto più piacevole.

 
 
   
 
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