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Autore: Spoocky    25/06/2019    3 recensioni
Ambientato durante l'epidemia di tifo ne "L' Isola della Desolazione".
L' equipaggio della HMS Leopard è stato decimato dal tifo petecchiale, che ha colpito i marinai in forma grave. Jack e Stephen devono decidere se sbarcare i convalescenti più gravi, sapendo che tenerli a bordo significherebbe condannarli a morte.
La decisione, però, non sarà semplice.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing moments in Patrick O'Brian'
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Disclaimer: i personaggi riconoscibili appartengono a Patrick O'Brian ed agli aventi diritto, non guadagno nulla dalla pubblicazione di questo racconto.

Warning:
 descrizione dei sintomi del tifo petecchiale e le sue conseguenze.

Jack trattenne il respiro nello scendere la scaletta di legno che portava alla zona di quarantena. Si chiese se lo stesse facendo per paura del contagio o per l’ansia di cosa avrebbe potuto trovare all’interno ma non seppe darsi risposta. Solo quando superò l’ultimo dei gradini e poggiò il piede sulle travi della stiva finalmente si concesse di respirare.
Desiderò non averlo mai fatto: una zaffata abominevole gli investì le narici ed ebbe l’urto del vomito, un fetido miscuglio di sudore, vomito, piscio, ed altre amenità si confondeva con il salmastro della sentina producendo l’olezzo intollerabile che permeava l’ambiente. Provò pietà per i malati che vi erano ricoverati, ma non ebbe tempo di crogiolarsi nella malinconia perché Herapath, facente funzioni di assistente chirurgo, gli venne incontro con solerzia, sfilandogli con ferma premura la cassetta dalle mani.
Aubrey ne tenne solo una bottiglia, riservata ad un paziente in particolare.

Fece un rapido giro di visite ai convalescenti, stringendo mani, dispensando incoraggiamenti e sorrisi, ma con il pensiero fisso verso un solo uomo. Pur conoscendolo da una vita, non lo avrebbe riconosciuto se Herapath non glielo avesse indicato.

Thomas Pullings, primo tenente della Leopard, giaceva scompostamente nella sua branda, la febbre alta che lo tormentava da settimane lo aveva portato al delirio e si era agitato tanto da scoprirsi: la coperta che gli avevano steso addosso si era accartocciata tra le sue gambe, avvolgendogli una coscia e coprendogli a malapena il pube.
Non era la prima volta, a giudicare dalle abrasioni sui polsi e le braccia del giovane ufficiale, lasciate dalle corde usate come extrema ratio per contenere gli infermi.
In quel modo, però, il suo corpo devastato dalla malattia si offriva inerme allo sguardo addolorato del suo comandante.

Per prima cosa notò le cicatrici: quella rigonfia e frastagliata sulla coscia destra, squarciata da un proiettile di mitraglia, quella scura e allungata sulla spalla sinistra, colpita da una spada nel corso della stessa azione. Il fisico di un soldato, di un giovane combattente che la disidratazione e la denutrizione - causate dal vomito, dalla febbre, e dalla conseguente inappetenza - avevano logorato al punto che la pelle, arrossata dall’eruzione cutanea, era terribilmente tesa sulle ossa.
Le creste iliache affioravano dai suoi fianchi, evidenziando l’avvallamento del ventre incavato sopra il quale incombevano le costole, tanto evidenti sotto la pelle che avrebbe potuto contarle, e vide immediatamente la depressione causata dalle due che si erano rotte anni prima, mai guarite completamente.
I muscoli, solo il mese prima tonici ed elastici, erano atrofizzati e contratti, attraversati da brividi profondi che non facevano ben sperare sullo stato dei suoi nervi.
Lividi sparsi trapelavano sull’epidermide sottile, segni di piccole emorragie sottocutanee causate dallo sfogo.
Da vicino, poteva addirittura vedere le striature dello sterno e i delicati nodi delle spalle, su cui lasciò scorrere le mani dopo avergli rimboccato la coperta sul petto per restituirgli almeno un po’ di dignità.

Stando chino su di lui senti il sibilo, una specie di ronzio, che produceva respirando e gli si strinse il cuore nel petto: il suo incrollabile secondo non aveva nemmeno la forza di tossire.
Per prevenire il contagio, e dargli sollievo dalla febbre, Stephen gli aveva scrupolosamente rasato la testa e i miseri resti della sua folta capigliatura solleticarono il palmo di Jack quando accarezzò il suo capo febbricitante in un moto di compassione.
Il contatto della mano, sensibilmente più fredda, del capitano sulla sua pelle rovente fece rabbrividire Tom da capo a piedi ma non aveva le energie per reagire in altro modo, non mosse nemmeno le palpebre.
Aubrey fece scivolare la mano sulla tempia di Pullings e lasciò che si posasse sulla sua guancia scavata mentre i polpastrelli sfioravano lo zigomo sporgente nel tentativo di offrirgli un minimo conforto.
In effetti, Tom emise un lieve gemito per il sollievo di quel tocco mentre un altro brivido lo scuoteva da capo a piedi.
In quel momento, pur non avendo conoscenze in medicina, Jack comprese la necessità di sbarcare i convalescenti e l’apprensione di Stephen in merito. In quelle condizioni, Tom era fragilissimo: un alito di vento avrebbe potuto portarselo via quella notte stessa e la mattina dopo avrebbero potuto doverlo cucire nella sua branda, con una palla di cannone ai piedi.

Conoscendo il tenente, sapeva che avrebbe lottato fino all’ultimo respiro, ma era allo stremo delle forze e, per quanto lo schifasse l’idea dell’abominevole Grant come secondo, iniziò a tracciare mentalmente la rotta più breve per Recife.
Tom era ancora giovane ma già una risorsa inestimabile per la Marina e non sarebbe riuscito a convivere serenamente con il peso della sua perdita. Non sapendo che avrebbe potuto impedirla con una deviazione quasi irrisoria sulla tabella di marcia.
La sua coscienza, sempre ottimista a scapito dell’evidenza, gli sussurrò che non ci sarebbe stato alcun motivo di preoccupazione, ricordandogli che Pullings era giovane e forte, che si sarebbe ripreso in pochi giorni, che Maturin gli aveva detto che il peggio era passato, e lui decise di darle credito.
Con il cuore un poco più leggero stappò la bottiglia e versò una lacrima di vino in una tazza posta su uno sgabello accanto alla branda del malato.

“Se proprio ci tieni, sporca appena il fondo del recipiente.” Gli aveva raccomandato Stephen “E poi riempilo d’acqua per diluirlo: ha già il fegato ingrossato, congestionato in modo orripilante. Non mi sembra il caso di peggiorare la situazione.”
“Perché me lo lasci fare allora?”
“Perché anche tu hai bisogno di sentirti utile in questa terribile faccenda, fratello.”


Seguendo le istruzioni dell’amico, per una volta, bagnò appena il fondo della tazza e la riempì con la brocca che vi si trovava accanto. Poi se la fece ruotare agilmente nel palmo, per mescerne il contenuto. Una volta soddisfatto del risultato, vi intinse due dita e le premette con delicatezza sulle labbra riarse di Pullings, per invogliarlo a bere.

Dovette ripetere il processo per altre due volte prima che Tom aprisse finalmente la bocca e gli permettesse di aiutarlo a dissetarsi. Chiunque altro si sarebbe aggrappato disperatamente al bicchiere e avrebbe iniziato a deglutire compulsivamente, ma il giovane non era abbastanza forte e Jack dovette assisterlo, sollevandogli la nuca dal cuscino intriso di sudore e inclinando il recipiente, prestando attenzione al fatto che solo una piccola quantità di liquido scivolasse tra le sue labbra ogni volta.
Jack attese pazientemente che il malato finisse di bere prima di riadagiarlo sul guanciale.
Senza staccare una mano dalla sua spalla ripose la tazza sullo sgabello e, nel risollevarsi, si sorprese di vedere Pullings con gli occhi aperti che guardava nella sua direzione.
Strinse appena la presa sulla sua spalla ossuta e, alla cieca, cercò la sua mano sotto la coperta. Trovatala, l’avvolse nella propria, strofinandogli le nocche con il pollice.

Tom tremò di nuovo ed emise un sospiro: avrebbe voluto ricambiare la stretta ma le sue dita rifiutavano di cooperare. Gli occhi gli si riempirono di lacrime brucianti per la frustrazione, e il capitano si affrettò ad asciugargliele con il proprio fazzoletto.
Provò una grande vergogna, in quel momento, per essersi mostrato al suo superiore in un tale stato di debolezza. Non lo vedeva bene, perché la malattia gli aveva indebolito la vista, ma quelle macchie dorate che ne sovrastavano una blu non potevano essere ricondotte a nessun altro.
Quando la mano gelata che gli stringeva la spalla si spostò sulla sua fronte non ebbe più dubbi: il dottore aveva compiuto diverse volte quello stesso gesto ma, per quanto gradevole sulla sua pelle bollente, quella mano era più grande e ruvida, inspessita da strati di calli e piccole cicatrici.
Non avrebbe voluto che lo vedesse così.

Aubrey percepì il disagio del giovane ufficiale e gli sfiorò la testa con delicatezza: “Non avete nulla di cui vergognarvi, Tom: siete malato, non è colpa vostra.”
Pullings aprì la bocca e fece per parlare ma non produsse altro che un rantolo soffocato e due esili colpi di tosse.
“Shh.” Cercò di rassicurarlo Aubrey, tornando ad accarezzargli la fronte e strofinandogli il petto con l’altra mano “Il dottore ha detto che non dovete fare sforzi. Cercate di stare tranquillo: è tutto a posto. La nave e gli uomini stanno bene.”
Una spudorata menzogna, ma non gli pesò più di tanto perché a fin di bene.
“Coraggio,” riprese “il dottore ha detto che dovete bere molto, per tutta una serie di motivi che non sono certo di aver capito, ma sapete com’è. Ve la sentite?”
Debole com’era, Tom poté solo aprire e chiudere lentamente le palpebre per dare il suo assenso: aveva una sete terribile.
“Lasciate che vi aiuti, allora. Coraggio.” Di nuovo, gli resse la nuca mentre gli accostava la tazza alle labbra, versando un sorso alla volta e attendendo che deglutisse tra uno e l’altro. I brividi che continuavano ad attraversare il suo corpo prostrato non gli resero il compito facile.
Quando Tom scosse appena il capo nella sua mano per indicargli che non era in grado di reggere oltre, lo distese di nuovo nel suo giaciglio e usò il fazzoletto per asciugare il liquido che gli era colato sul mento e le labbra.

L’ unico uomo a bordo, eccetto Stephen, di cui Jack si sarebbe fidato come di sé stesso era fragile come appena nato, e gli suscitò una grande pena. Quel giovane avrebbe dovuto essere sul cassero a comandare di aumentare la velatura o sul ponte di batteria ad ispezionare i cannoni, sempre ligio al dovere nonostante la fatica, sempre con il sorriso di chi sta facendo il lavoro che ama e sa di farlo bene. Non avrebbe dovuto essere steso in quella branda, ridotto pelle e ossa, bruciante di una febbre che minacciava di portarselo via.

Solo quella breve visita aveva stancato Pullings al punto che riuscì appena a muovere le labbra per sussurrare un flebile: “Grazie.”
Aubrey lo accolse con un sorriso forzato e riprese ad accarezzare la testa del giovane: “Non c’è di che, Tom.” Vedendo che faticava a tenere gli occhi aperti, aggiunse “E’ meglio che vi lasci riposare, ora. Resterò qui mentre vi addormentate.”
Ebbe un tuffo al cuore, tuttavia, quando vide le palpebre calare sugli occhi spenti del tenente e non riuscì ad impedirsi di stringergli forte le spalle, per farglieli riaprire: “Tom!”
Grazie a Dio, le sue iridi verdi rispuntarono sotto le ciglia, con uno sguardo leggermente interrogativo nonostante la debolezza.
“Non arrendetevi, mi raccomando.” Lo incoraggiò Jack, con lo stesso tono fermo e perentorio che usava per dare gli ordini “Continuate a lottare, Tom. Tenete duro ancora un po’, coraggio. Andrà tutto bene: so che potete farcela.”
Cosa effettivamente avesse capito Pullings da quel discorso, dato il suo attuale stato di prostrazione, sarebbe stato impossibile da stabilire ma almeno una parte del messaggio doveva essere arrivata comunque, perché abbozzò un sorriso e sbatté di nuovo le palpebre in segno di assenso.
La testa del giovane sprofondò nel cuscino, gravata dal sonno pesante della malattia, Aubrey si sentì più tranquillo nel lasciarlo riposare. Gli riassestò addosso la coperta, assicurandosi che fosse ben riparato e dignitosamente coperto prima di raddrizzarsi.

La schiena gli si era irrigidita a causa dello stare curvo per tanto tempo e dovette stirarsela, insieme alle spalle, facendo scricchiolare alcune giunture nel processo.
“Perdio, signor Pullings.” Brontolò rivolto all’ufficiale addormentato “Sto proprio diventando vecchio!”
Gli sfiorò di nuovo una spalla, come gesto di commiato, e si diresse verso il cassero a capo chino, con la testa e il cuore oppressi da mille pensieri.
Ormai la decisione era presa in via definitiva: rotta verso Recife per sbarcare i malati. Non c’era un minuto da perdere.
Tom Pullings non aveva un minuto da perdere.

Salendo l’ultimo gradino che lo separava dal ponte, alzò lo sguardo e si trovò davanti il cielo azzurro.
Un gabbiano attraversò il suo campo visivo, e ripensò improvvisamente ad un componimento di Donne, letto anni prima, che gli restituì un po' di speranza per sè e per il suo giovane sottoposto, confinato in quel letto di dolore.
 
Death, be not proud, though some have called thee
Mighty and dreadful, for thou art not so;
For those whom thou think'st thou dost overthrow
Die not, poor Death, nor yet canst thou kill me.


From rest and sleep, which but thy pictures be,
Much pleasure; then from thee much more must flow,
And soonest our best men with thee do go,
Rest of their bones, and soul's delivery.


Thou art slave to fate, chance, kings, and desperate men,
And dost with poison, war, and sickness dwell,
And poppy or charms can make us sleep as well
And better than thy stroke; why swell'st thou then?


One short sleep past, we wake eternally
And death shall be no more; Death, thou shalt die.



Note: 

Il componimento citato alla fine è "Death be not proud"  del poeta inglese John Donne.
La traduzione, mia e di conseguenza opinabile, è la seguente: 

"Morte non essere orgogliosa, anche se molti ti hanno chiamata
Maestosa e terribile, perchè tu non sei così;
Perchè coloro che pensi di poter sottomettere
Non muoiono, povera Morte, e nemmeno puoi uccidere me.

Dal riposo e dal sonno, che sono solo tue immagini, 
Molto piacere [deriva]; e quindi da te molto di più ne deve fluire
E prestissimo i nostri uomini migliori se ne vanno con te, 
Riposo per le loro ossa, e liberazione dell'anima.

Sei schiava del fato, del cambiamento, dei re, e degli uomini disperati,
E t' intrattieni col veleno, la guerra, e le malattie,
Ma il papavero (l'oppio) o gli incantesimi ci fanno dormire lo stesso
E meglio del tuo colpo; perchè dunque t' inorgoglisci?

Dopo un brevissimo sonno, ci svegliamo in eterno
e la morte non sarà più; Morte, tu dovrai morire. 



 
  
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