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Autore: Carme93    29/06/2019    3 recensioni
1 Marzo 1896. L'esercito italiano, guidato dal generale Oreste Baratieri, sconfisse i guerrieri abissini del negus Menelik.
La strada per Addis Abeba era aperta.
Circa cinque anni dopo la bandiera italiana sventolava sulla città, ma il neonato impero era ancora fragile.
Attenzione si tratta di un'ucronia.
[Questa storia si è classificata quarta al contest "Senza tempo - II edizione" indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP].
Genere: Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Il Novecento
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Prologo
 
 

 
Giugno 1896,
Asmara
 
 

Cipiglio fermo e occhi profondi, che scrutano alteramente, risaltano su un viso ormai incartapecorito, che affiora da un oscuro sfondo grazie a una luce proveniente da sinistra, tanto che una parte rimane in ombra. Tutto volto, potremmo dire; tutto in quell’espressione combattiva, meglio ancora.

Chissà se Francesco Crispi abbia mai avuto la possibilità di ammirare quel dipinto di Franz Von Lenbach, custodito al Kunsthistoriches di Vienna.

Chissà se Otto von Bismarck sia diventato esempio e modello di Crispi alla visione del suddetto dipinto o solo molti anni dopo, nel 1887, a Friedrichrush quando si incontrarono per la prima volta tessendo fatidici legami fra i loro paesi.

Giuseppe Balestrieri, giovane ufficiale dell’esercito italiano di stanza in Africa, non avrebbe saputo dirlo, dopotutto prima che la Storia lo travolgesse non era altro che un ragazzo del Sud – proprio come Crispi, ma questo sembravano dimenticarlo tutti -, un napulitan come dispregiativamente lo definivano i compagni e i superiori; con troppi ideali e sogni per la testa, un sognatore per suo padre che l’aveva spinto ad arruolarsi proprio perché imparasse a vivere in modo concreto.
Egli, nominato da poco Capitano, non era di certo uno sprovveduto: il padre, nobile decaduto, aveva preteso per il figlio la migliore delle educazioni e per contrastare la sua natura, da lui ritenuta eccessivamente romantica e sensibile, l’aveva inviato alla Scuola Militare di Modena e, in seguito, gli aveva concesso di recarsi a Vienna per qualche tempo. Avendo letto i migliori trattati tedeschi e quelli più antichi di ars bellica e di strategia, il giovane Capitano Balestrieri era pienamente consapevole degli errori compiuti in passato dai generali italiani e che, di fatto, continuavano a compiere: dividere l’esercito già numericamente inferiore a scapito della compattezza era una mossa fermamente riprovata, ma era proprio la strategia seguita a Custoza dal generale La Marmora, stoltamente imitato da Oreste Baratieri, fino a una manciata di mesi prima generale in carica dell’esercito italiano in Africa, e per un mero colpo di fortuna la decisiva battaglia di Adua non si era risolta in una totale disfatta; i comandanti italiani tendevano a esaltarsi troppo facilmente all’idea di compiere dimostrazioni energiche, che il più delle volte si rivelavano fallimentari; ma i loro difetti peggiori erano la dispersione del comando, le beghe e le gelosie che nascevano tra i capi.
Nonostante ciò erano riusciti a conquistare Adua e si preparavano a marciare su Addis Abeba, caduta la quale avrebbero potuto dire di aver conquistato l’Etiopia.


I tentativi di fondare delle colonie in Africa erano molto più antichi di quanto si credesse, poiché vi fu quello compiuto dal conte Camillo Benso di Cavour nel 1861 sulla costa della Nigeria e nell’isola portoghese del Principe, ma Inglesi e Francesi si erano nettamente opposti. Finalmente nel 1882 l’Italia aveva acquistato la Baia di Assab dalla Compagnia di Navigazione Rubattino, in seguito si era accordata con la Gran Bretagna per l’occupazione del porto di Massaua, possedimenti denominati in seguito Colonia Eritrea. A quel punto era iniziata la vera e propria avanzata italiana nel corno d’Africa, lenta e difficile, soprattutto più volte ostacolata dalla tenacia dei difensori indigeni - tenacia che il governo italiano si era ostinato a ignorare –, tanto da protrassi per più di quindici lunghi anni: la sconfitta di Dogali, pesante ferita inferta all’onore e all’esercito; l’accordo con l’Egitto per una parte della Somalia; il trattato di Uccialli del 1889, una delle cause che porteranno alla guerra successiva tra l’Italia e Menelik, imperatore d’Etiopia.
Le grandi potenze europee non erano rimaste a osservare in silenzio e non sempre avevano apprezzato le mire espansionistiche italiane, specialmente si vociferava che la Francia e la Russia avessero addirittura provveduto ad armare Menelik.
 
Francesco Crispi, però, forte del suo passato garibaldino, non bramava altro che emulare il suo mito Otto von Bismarck, cancelliere prussiano. Crispi non si era lasciato intimidire ed era andato avanti anche contro la volontà di molti e nonostante le difficoltà materiali nel mantenere un esercito adeguato nel continente africano. Non per nulla persistenti erano state le richieste del generale Baratieri di aiuti economici e di uomini. Crispi non aveva potuto rispondere munificamente quanto avrebbe voluto, benché non gli mancasse il supporto di re Umberto; certo che non avesse visto di buon occhio i successi altalenanti ottenuti dal generale prima della vittoria di Adua, perciò mentre Baratieri si lanciava in ultimo disperato attacco, di fatto non autorizzato, la mattina del primo marzo, il suo successore, Antonio Baldissera, era già in viaggio.
 
Questo quadro storico e politico non era oscuro a Giuseppe Balestrieri, che, nonostante il braccio ferito appeso al collo, quella calda mattina non aveva mancato di recarsi in quello stanzone polveroso in cui il Tribunale Militare aveva deciso di riunirsi: il generale Oreste Baratieri sarebbe stato posto sotto giudizio per non aver rispettato gli ordini avuti direttamente da Roma e per una serie di altre mancanze commesse durante gli ultimi avvenimenti.
 
Tutti i soldati si stavano stipando bramosi di assistere e comprendere che cosa sarebbe accaduto. Chi l’aveva amato e chi odiato in quei lunghi mesi di guerra, ma ognuno era in attesa che qualcosa accadesse, d’intuire quali sarebbero state le successive mosse del comando, mentre iteratamente si avvistavano navi battenti bandiera inglese nel mar Rosso, a pochissima distanza da Massaua. Nessuno era all’oscuro dello sfarzoso trionfo che era già stato celebrato a Roma, i contatti presi da Crispi con le maggiori potenze europee e di come la Triplice Alleanza fosse sempre più salda.
Il Capitano Balestrieri era particolarmente interessato all’esito del processo in quanto consapevole che la sua vita dipendesse dall’attuale generale in carica Antonio Baldissera: per Oreste Baretieri non altro che un testimone fin troppo scomodo di quanto avvenuto alle calende di marzo. La maggior parte degli ufficiali aveva perso la vita ad Adua e di certo non avrebbe potuto testimoniare. Nonostante la vittoria finale lasciasse presagire che Baratieri sarebbe stato assolto, vi erano stati alcuni episodi che non potevano essere ignorati dalle alte cariche militari, per quanto Baldissera, in un colloquio privato, avesse assicurato al giovane Capitano che il governo non desiderasse altro che chiudere la questione al più presto e concentrarsi esclusivamente sull’imminente presa di Addis Abeba – almeno era quello che lasciavano credere, benché la realtà fosse ben diversa – e sulla costruzione di un vero e proprio impero che avrebbe elevato l’Italia nel novero delle grandi potenze europee, non più una comparsa dello scenario internazionale.
Inoltre Baldissera gli aveva assicurato di non dover temere nulla da quel processo: Baratieri voleva chiudere la questione e ritirarsi come generale vittorioso. Questo era chiaro a tutti e Balestrieri stesso l’avrebbe compreso senza l’aiuto di Baldissera, ma si diceva che Baratieri fosse un uomo meschino, moralmente infido e fin troppo fortunato. E Adua l’aveva dimostrato. Perciò era meglio non fidarsi e assicurarsi di persona che la questione si chiudesse realmente.
 
L’ingresso di Oreste Baratieri nello stanzone ebbe l’effetto di zittire i soldati vocianti quasi più della giuria.

Il generale Bacci, avvocato generale dell’esercito, si alzò ed elencò le accuse rivolte a Baratieri: la scelta di attaccare senza autorizzazione da Roma, tagliando ogni contatto con la sede italiana di Massaua; abbandono delle truppe nel momento di maggior criticità; perdita ingente di uomini; evidenti e gravi errori strategici.

Si diceva che Baratieri avesse trascorso un giorno intero rinchiuso nella sede di Massaua per concertare una lettera da mandare a Roma per giustificare immediatamente alcune mancanze di cui inevitabilmente veniva ora accusato. Cosicché quando gli fu concessa la parola i soldati presenti sembrarono tendersi maggiormente e anche Balestrieri era decisamente curioso di sapere come si sarebbe difeso.

Baratieri si sistemò il monocolo sull’occhio e arricciò i baffi: era nervoso. Rispose punto per punto alle accuse rivoltegli e concisamente: l’occasione di attaccare si era profilata inaspettatamente e non aveva avuto la possibilità di chiedere direttive, inoltre non aveva preso la decisione da solo ma, in pieno spirito democratico, gli altri generali avevano dato il loro consenso – per di più il generale Giuseppe Edoardo Arimandi era stato quello più favorevole, arrivando persino ad accusare il proprio superiore di codardia! Lo stesso Arimandi che ad Amba Alagi aveva disobbedito agli ordini! -

Un forte mormorio si levò a quelle parole: non solo aveva tirato fuori un vecchio episodio – tanto che persino alcuni giudici si incupirono – ma aveva appena nominato uno di coloro che si era sacrificato ad Adua e di certo non era più in grado di difendersi.

A quel punto, ignorando totalmente le altrui reazioni, Baratieri riprese affermando di aver chiaramente dato ordine di posizionare i telegrafi ottici e i soldati incaricati aveva disobbedito.
Balestrieri si stancò presto di ascoltarlo, specialmente nel momento in cui iniziò a incolpare i soldati se l’esercito era quasi andato incontro a una sconfitta. Nulla di nuovo per i comandanti italiani insomma. Il giovane Capitano si diede dello stolto per essersi preoccupato talmente tanto da voler assistere a quella farsa giudiziaria, ma la verità era che Adua era stata la sua prima vera battaglia. Il suo battesimo di sangue. E se la strategia lo aveva sempre attratto e stuzzicato, non si poteva affermare altrettanto della guerra in sé e per sé. In più egli era perfettamente a conoscenza di quanto accaduto quel giorno: Baratieri si era creduto furbo dividendo l’esercito in tre parti, comandate rispettivamente dai generali Albertone, Arimandi e Darbomida, con una squadra di riserva guidata da Ellena. Lo scopo naturalmente era quello di prender di sorpresa il nemico, ma, aspetto su cui stavano glissando sia Baratieri sia il Tribunale, ai contingenti era stata consegnata una mappa approssimativa e sostanzialmente errata della zona. Questo avrebbe potuto essere fatale insieme all’impulsività e alla mancanza di compattezza dell’esercito. O meglio, lo sarebbe stato se non avessero avuto un colpo di fortuna. Le tre colonne avrebbero dovuto rincontrarsi e ricongiungersi sulla linea formata dai colli Rebbi Arienni, Monte Raio e Chidane Meret, peccato che quest’ultimo fosse ben più distante di quanto si fosse ritenuto. Albertone perciò si era ritrovato ben presto troppo distante dalle altre due colonne.
Il caso volle, però, che poco tempo prima Balestrieri avesse salvato un bambino indigeno durante uno scontro e che questi li avesse seguiti, così aveva avuto la possibilità non solo di avvertirli della trappola in cui stavano cadendo, ma anche di guidarli in modo che riuscissero a ricongiungersi con i compagni e ad attaccare alle spalle i nemici, evitando quelli in loro attesa.
Baldissera, appena preso il comando, pochi giorni dopo la battaglia, aveva saputo dettagliatamente che cosa fosse accaduto e di come Balestrieri e un’altra manciata di soldati fossero riusciti in seguito a ricompattare l’esercito costringendo gli Abissini a battere in ritirata. Baldissera aveva anche compreso il valore e la preparazione di Giuseppe Balestrieri, ponendolo sotto la propria ala protettiva. A quel punto il giovane, però, non sapeva che cosa aspettarsi.

Quel che certo, però, era che l’Italia, con molte perdite e sacrifici, era riuscita a conquistare l’Etiopia o almeno era sul punto di farlo.
Un nuovo impero presto sarebbe stato creato.


 
Il sogno di Crispi, il sogno di re Umberto.
   
 
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