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Autore: yonoi    29/06/2019    12 recensioni
In un tempo remoto, quando gli uomini credevano che il sole andasse a trascorrere la notte sul fondo del mare e la presenza di Dio si rivelasse nei colori e nelle forme del mondo, quando gli ambulanti giravano per le piazze vendendo amuleti e altri oggetti di meraviglia, allora ci fu un sogno: unire i due grandi Imperi che si affacciavano sulle sponde del Mediterraneo. Gli storici tramandano che le nozze tra Zoe Porfirogenita, principessa bizantina, e Ottone III di Sassonia, che all'epoca reggeva il Sacro Romano Impero, non furono mai celebrate a causa della prematura morte del giovane imperatore. In questa storia, invece, l’Oriente e l’Occidente si uniscono a formare un unico grande regno; un regno in cui viaggiano reliquie e ciarlatani, una principessa imperiale con il suo seguito, due monaci con un libro, briganti più o meno famosi e soprattutto tre uomini con un carro e il ciuco del titolo.
Questa storia partecipa al contest "Senza Tempo II indetto da Mystery Koopa sul Forum di EFP
Genere: Avventura, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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Storia di viaggiatori, di una santa reliquia, di tre lestofanti e un ciuco
 
 

Capitolo primo: dove entrano in scena un novizio, tre pellegrini e una promessa sposa
 
 
“E in loro erano profondi
la paura e il timor di Dio e la certezza
della sua presenza nelle forze della natura, nelle fonti,
negli alberi, nelle nuvole del cielo,
nelle trasparenze delle trasparenze”
(“Magnificat”, Pupi Avati)
 

 
Abbazia benedettina di Nonantola, anno 1028 dall’Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo
 

“Sii vigilante, mentre attendi alla tua opera”: queste parole, così ricorrenti nel tempo della mia infanzia e negli anni del mio apprendistato come miniatore, contenevano in sé molti significati che, come i gradini della vera umiltà insegnata dalla Regola, procedevano dalla terra per elevarsi ai vertici della somma visione. Così, occorreva anzitutto che fossi diligente mentre attendevo al servizio di rivolgere le pelli nelle vasche del calcinaio, senza farmi distrarre dagli odori dei resti che lenti si disfacevano, simbolo della transitorietà di questa vita quia pulver es, homo, et in pulverem reverteris.
“In parole povere: sii presente con la testa e non solo con il corpo, perché se dovesse coglierti uno schizzo dal calcinaio, ti copriresti di piaghe. La calce sa essere una buona magistra per i distratti,” mi ripeteva Odilone, maestro percamenarius in questa abbazia dedicata al santo papa Silvestro nelle terre dette di Nonantola.
Mentre rimestavo e cavavo fuori le pelli già monde, mentre le deponevo dal loro letto di liscivia sui telai, con un lungo bastone che molto mi superava a quel tempo in altezza, dovevo rammentare che anche quello era opus Dei, servizio al Verbo divino che si apprestava ad essere deposto su quei velli per rimanervi in eterno, perché la vox hominis è come il vento che passa e nessuno più la ricorda, mentre dalla Parola dell’Altissimo omnia facta sunt.
Fin dalla fanciullezza ho sempre vissuto qui, donato da mio padre Guiduccio il Vedovo in cambio dell’usufrutto dei Mulini della Vecchia e del diritto di pesca nel fiume Panarium, nonché del diritto di rilevare ogni anno tre sacchi di frumento e tre cataste di legna nei boschi attorno alla pieve detta di San Cesario.
Insieme a tre fratelli maggiori, giunsi nei territori dell’abbazia con il nome di Decimo, che fu presto mutato in quello di Anselmo sia perché in quel giorno si commemorava il santo fondatore, sia perché il mio nome non figurava in nessun martirologio consultato dai padri, sicché non potevo contare su un nessun protettore tra le schiere beate.
Arrivai con le rondini che tagliavano l’aria del primo disgelo. I loro voli che s’incrociavano sui campi avevano gli stessi colori neri e bianchi della terra congestionata, dei lastroni forati dai bucaneve fragili, simili a mani giunte quand’erano chiusi mentre quando sbocciavano erano detti, dalla gente del mio paese, le campane della Candelora.
Dopo aver superato valichi accidentati e pantani argillosi, torrenti in piena e sentieri nei boschi, il carretto condotto dai miei maggiori si rovesciò in un fosso e non vi fu verso di smuoverlo. Eravamo in prossimità dei recinti dell’abbazia. Il cammino dei miei fratelli sarebbe dovuto proseguire lungo i fossi e i canali della pianura, fino alla località Mulini della Vecchia: pochi muri sbreccati che ospitavano nidi di gufi e di scoiattoli, ma posti sulla giusta pendenza per fare girare una mola.
Mentre i miei imprecavano contro quell’accidente che li avrebbe costretti a proseguire a piedi, io vidi in quell’evento un chiaro segno del fatto che ero giunto alla mia destinazione: per quel che mi riguardava, il viaggio finiva lì. Alle Case Rotte, ero l’unico dei miei che sapesse leggere, perché malgrado tutti gli sforzi del canonico Uguccione, né il mio maggiore Primo, né nessun altro tra i figli di Guiduccio erano stati in grado di imparare qualcosa che andasse al di là della mera fatica delle braccia.
“Perché un bravo mugnaio dovrebbe ingobbirsi sui codici?” aveva concluso il canonico, indicandomi a mio padre come il candidato ideale. “Se intendi donare un figlio all’abbazia, ti conviene cedere Decimo, che è in grado di distinguere le lettere dell’alfabeto ed è sufficientemente rachitico.” Poiché il consiglio veniva da una voce autorevole - l’unica nel paese dopo l’abate e proprietario delle terre, che peraltro nessuno aveva mai visto - mio padre si convinse anche se io, in realtà, non ero più magro e stentato degli altri. Ma alle Case Rotte vi era l’idea che quella del monaco fosse essenzialmente una vita da studioso, l’ideale per chi nasceva con la schiena già predisposta a incurvarsi sui testi dello scriptorium.   
Di fatto, i miei primi lavori furono di fatica. Accolto da Odilone, maestro percamenarius, la mia prima occupazione fu quella di sobbarcarmi infiniti secchi d’acqua destinate ad alimentare le vasche del calcinaio. A questo, seguì l’incarico di rimestare le pelli, per lo più di capre e pecore e a volte di vitello, per poi cavarle fuori con una grossa pertica e disporle a essiccare su appositi cavalletti. Per levare dalla vasca un’intera pelle vaccina, sgocciolarla a dovere e in seguito raschiarla con l’apposito lunellum ci voleva ben altro che un letterato rachitico, sicché nel giro di breve tempo mi irrobustii.
Odilone segnava sulla pertica i progressi della mia altezza e garantiva che quando sarei stato in grado di realizzare il mio primo folium senza lacune e rammendi, mi avrebbe concesso di accedere allo scriptorium. Già sapeva del fascino che su di me esercitavano i tavoli approntati con i corni d’inchiostro e le polveri scintillanti dei colori: il vermiglio e il sangue di drago, che si diceva appunto nato dal sangue di un drago e di un elefante uccisi in battaglia; poi il giallo zafferano, il blu e le lamine d’oro che minuscole pinze posavano su colla di chiara d’uovo, a raffigurare la luce dell’eterna beatitudine.
Solo in rare occasioni avevo visitato quella sala dalle ampie finestre, rivolta al mezzogiorno per cogliere fino all’ultimo pulviscolo di luce, eppure sempre avvolta dal gelo che sudava dalle pareti. L’unico tepore proveniva, anche in estate, da un focolare collocato nel punto più remoto e più buio. La fiamma scaldava solo chi si trovava nelle immediate vicinanze, mentre l’umidità continuava a gocciolare dai muri fin nelle ossa. Forse proprio per questo, chi era costretto a lavorare per lunghe ore finiva per assumere quella tipica posizione rannicchiata sullo sgabello.
Assai ingenuamente, mentre sudavo sotto al sole nello stretto cortile del calcinarium, pensavo che sarei stato in grado di resistere a qualunque intemperia, pur di poter accedere un giorno a quei manoscritti che contenevano tutti i segreti della sapienza.
Alle Case Rotte, il canonico Uguccione custodiva in un armadio, insieme a non meglio precisate reliquie di santi  – ossicini di pollo, secondo i meno devoti tra i miei compagni di allora – un innario miniato e dedicato alla Vergine. Senza voler dubitare della sicura pietà di Uguccione, dirò che quel volume, rilegato con arte e conservato in una teca di profumato legno di pino, era tenuto in maggior conto di quelle spoglie adorne di nastri e fiori secchi – probabilmente mai rinnovati dal giorno in cui le reliquie giunsero alla pieve. L’innario era esposto, con grande solennità, in occasione delle festività della Madonna, quando dall’abbazia salivano i cantores per la messa solenne. Allora la nostra chiesa, povere mura che s’appoggiavano ai più solidi bastioni del sottobosco, si colmava di voci che non erano di questo mondo: col naso finalmente levato dalle zolle e immerso nelle nuvole degli incensi, anche noi abitanti del borgo ci sentivamo ammessi alla corte celeste, dove gli angeli cantano le lodi di Dio nei secoli.
Gli stessi cantores parevano figure discese da un altro regno: non erano diversi dalle figure dei santi affrescati sulle pareti della pieve, con la differenza che quelle erano ormai annerite dal sego e soffrivano l’umido di innumerevoli spifferi, tanto che in molti punti, a cause delle piogge, erano ricoperti di funghi detti i berretti del diavolo. I cantori, invece, conservavano intatto il nitore della nuova Gerusalemme, che in quei giorni scendeva alle Case Rotte con lo splendore delle candele in cera d’api, gli incensieri d’argento e il tenue aroma di erbe con cui i paramenti erano conservati dentro alle cassepanche per il resto dell’anno.
Totalmente affascinato, desideravo solo esser parte di quel corteo che parlava in latino faccia a faccia con Dio: se l’Altissimo era infinita grandezza e imperscrutabile sapienza, come insegnava Uguccione a noi ragazzi del borgo, volevo contemplare da vicino quella bellezza e apprendere la conoscenza, per lo meno quella contenuta nei libri. A quel tempo ero ancora un infante col moccolo che si divertiva a indovinare forme strane nel passaggio delle nuvole – una torre, un castello – e quando dalla nebbia filtravano lunghe lame di luce, immaginavo una scala che dalla nostre montagne salisse fin lassù, nei luoghi del mistero.
In verità, tendevo a confondere il paradiso con l’ozio: sicché non mi passava neppure per la mente che presso l’abbazia non si usasse soltanto salmodiare nel coro e immergersi nella lettura, ma toccasse sgobbare esattamente come al mulino di mio padre.  
Ne feci l’esperienza non solo quando fui affidato a Odilone per l’ufficio del calcinarium ma soprattutto quando, con mio grande entusiasmo puntualmente sconfessato dai fatti, passai sotto la guida del monaco Teodoro, il più giovane miniatore del monastero.
Teodoro proveniva dalla terra dei Romei, l’impero dei Greci, anche se a ben guardarlo si poteva pensare che fosse originario delle regioni del nord o meglio della stessa Civitas De, perché era di carnagione chiarissima e trasparente, e somigliava in tutto agli angeli musicanti che avevo visto spesso nelle edicole poste ai crocicchi delle mie valli. Quanto al temperamento, lo si sarebbe detto più simile ai leoni che sorvegliavano le porte della chiesa abbaziale: con l’unica differenza che quegli esseri poderosi erano semplici simulacri di pietra, mentre Teodoro era creatura di carne e ossa, dagli umori il più delle volte tempestosi.
Quando si innervosiva, il che accadeva spesso, prendeva a insultarmi nella sua lingua di origine: io chinavo la testa senza capire affatto dove stava l’errore, mentre altri nello scriptorium, che evidentemente comprendevano il greco, sghignazzavano dietro al riparo dei volumi. Qualcuno disapprovava per lo più limitandosi a scuotere il capo, perché Teodoro di Calcedonia era un lustro per l’abbazia, dove era giunto al seguito della basilissa Zoe in occasione delle nozze con l’imperatore Ottone. Avendo offerto ospitalità all’Imperator dopo l’attacco di febbri che l’aveva colto a Faleria e da cui si era risollevato dopo dieci giorni e dieci notti di deliri e visioni, il nostro abate Rodolfo aveva ricevuto molteplici benefici. Oltre alla presenza ispida di Teodoro, numerosi manoscritti e una fornitura del più raro pigmento che a un minatore sia dato di utilizzare: il blu oltremare che si ottiene dalla lavorazione del lapis lazulo, le cui si origini si perdono lungo le vie carovaniere d’Oriente.
Teodoro era l’unico legittimato a utilizzarlo per le sue opere, veri capolavori in cui le lamine d’oro, disposte con sapienza a creare orli e sfondi, si mutavano in luce e illustravano processioni di santi e scene quotidiane: il taglio della legna, la cottura del pane, l’aratura dei campi, la bonifica delle terre argillose del circondario. Dalle lettere delle rubriche scaturivano selve abitate da uccelli variopinti, rappresentazioni dei giardini dell’Eden, il mare che si apriva di fronte a Mosè in un turbine di pesci e mostri guizzanti. Immergendomi nella contemplazione di quei folia, perdevo la cognizione dello spazio, del tempo e persino della scarsa simpatia che provavo nei confronti di Teodoro. Mi pareva allora di comprendere appieno lo scopo di quell’arte, che era di mostrare come l’intero mondo non fosse che un riflesso del Divino splendore.
Quell’idea era confermata dallo stesso Teodoro: “La luce è emanazione della vera Sapienza e il colore rivela la presenza di Dio. Il blu, in particolare, richiama alla trascendenza, per questo lo utilizziamo per le vesti del Cristo e della Theotokos.”
“Di chi?” domandavo io, confuso.
“Della Madre di Dio, idiotes,” sbuffava Teodoro, che già aveva smarrito quel poco di pazienza che possedeva e che in verità era più esigua di quel granello di senapa che, secondo l’Evangelista, dà luogo a un maestoso albero in cui gli uccelli del cielo possono trovare riparo.
Parlando di ripari, dirò che nei primi tempi del mio burrascoso sodalizio con Teodoro, quando la tentazione che maggiormente mi coglieva era quella della mormorazione – non si addice infatti a un monaco coltivare l’idea di percuotere un confratello, per cui si suole al massimo mormorare alle sue spalle – trovai sostegno e comprensione nel vecchio Odilone. Quando avevo un po’ di tempo lo raggiungevo nel calcinarium. Mentre raschiavo le pelli con l’ausilio del lunellum, mi sforzavo di grattare dal fondo dell’anima anche i malumori, quelle pessime disposizioni che salivano alte e robuste come la zizzania, l’erba della discordia per eccellenza.  
Il mio primo compito da tirocinante nello scriptorium fu imparare a tracciare le linee che avrebbero guidato la mano del copista. A quel tempo, come ora, prima di incominciare l’opus della scrittura occorreva segnare le righe con la massima precisione e senso dell’armonia. Il senso dell’armonia di Teodoro doveva senza dubbio essere assai elevato, fatto sta che nel mio lavoro trovava sempre qualche difetto. Magari impercettibile e solo a lui evidente, fatto sta che il difetto c’era e per rimediarvi occorreva cospargere i folia di gesso e ricominciare daccapo, con l’ausilio del filo e della punta a piombo.
Confesso di aver sospettato in più occasioni che il giovane Teodoro agisse mosso non da lodevole zelo, bensì da pura e semplice antipatia nei miei confronti. Di questo, in più occasioni, ebbi a sfogarmi con Odilone e arrivati persino a rimpiangere la durezza del lavoro nel calcinarium. Odilone, dal canto suo, non si stancava di ripetermi quel passo della Regola dove si dice che, nel momento della prova, il monaco deve saper opporre alle contrarietà la pazienza, senza stancarsi e soprattutto in silenzio. Certo, le contrarietà che andavo attraversando erano di poco conto, proporzionate alla mia età e inesperienza: però ammetto che mai come in quel periodo osservare la Regola mi parve difficile quanto sfondare un muro a colpi di testa. Testardo lo ero assai, un mulo di paese mi definiva Teodoro, che in verità era ostinato quanto me: io nel ripetere all’infinito l’errore, lui nel riprenderlo e ordinarmi di ricominciare dal principio tutto il lavoro.
Il frutto di quella tensione non tardò a manifestarsi: in coro sbagliavo i tempi ed ero costretto a prosternarmi in segno di penitenza davanti ai confratelli. Più volte, in refettorio, rovesciai i vaselli dell’acqua, il tagliere del pane, oppure incorrevo in qualche altra negligenza, sicché mi toccava puntualmente stendermi sul pavimento, tra le bucce e gli scarti, fino alla fine del pasto. 
Arrivai a coltivare pensieri sgradevoli non solo nei confronti del mio giovane maestro, ma anche nei confronti dell’intera abbazia e persino di Benedetto, colpevole a mio parere di avere inventato una Regola impossibile a seguirsi, quanto meno per me.
Una mattina entrai nello scriptorium con il fermo proposito di chiedere a Teodoro di essere esentato dall’ufficio di rigatura. Di seguito, avrei domandato all’abate il permesso di ritornare da mio padre, vista la mia assoluta incapacità di adattarmi alla vita monastica e con buona pace dell’usufrutto sui Mulini della Vecchia e dei diritti di pesca nel fiume Panarium.
Avvolto dalla luce iniziale del giorno, mai come allora lo scriptorium mi apparve come uno scrigno prezioso, poiché già lo vedevo con gli occhi del rimpianto. Il monaco Teodoro era già al suo lavoro, con la fila di penne disposte ordinatamente, le ampolle dei pigmenti e sottili strali d’oro che decoravano, più che macchiare, le sue dita abili. In quel momento era intento a passare la spugna sui punti del folio destinati a ospitare le lamine dorate che avrebbero formato l’aureola e gli orli del manto di una Vergine col Bambino. Poco più in là, i copisti affilavano la punta dei pennini, disponevano gli inchiostri, ammorbidivano i folia con l’uso della pomice. Qualcuno si crogiolava nei primi raggi di sole e spostava lo sgabello per avere più tepore.
Mentre mi domandavo se davvero intendevo lasciare tutto questo, Teodoro mi rivolse una rapida levata di sopracciglio e m’invitò a sedere al suo fianco. 
La sua mano mi guidò ad afferrare la pinza, poi a sollevare una lamina di spessore impercettibile. “Da oggi inizieremo ad apprendere la doratura. Si tratta di un lavoro di estrema precisione, ma in fondo anche semplice. Può farlo anche un mulo di paese, basta avere l’accortezza di seguire esattamente i contorni. Dopo, verrà il colore.”
Stupefatto e confuso, alzai gli occhi dal tavolo, dove erano disposti tutti quegli strumenti che a malapena riuscivo a guardare per il timore di fare un danno, figurarsi toccarli, prenderli, adoperarli.
“Che c’è, ti sei incantato?” sbuffò a quel punto Teodoro. “Sarà meglio che ti svegli, perché da oggi in poi dovremo lavorare parecchio. Abbiamo ricevuto l’incarico di preparare un evangeliario in occasione delle nozze della figlia dell’Imperator. Teofano e il suo corteo partiranno da Ravenna la prossima primavera e una nostra delegazione la incontrerà a Pomposa per consegnarle il dono. Tolto il tempo del viaggio, abbiamo a disposizione sei mesi esatti a iniziare da ora.”
Alle Case Rotte, non si sapeva neppure chi fosse l’imperatore: giravano molte leggende di cavalieri, o forse di briganti, che ancora ai tempi della gioventù di mio padre avevano risalito le nostre montagne senz’altro scopo evidente che quello di depredare. Non trovando nulla da prendere, s’erano accontentati di dar fuoco alla pieve, distruggere le case e terrorizzare la gente. Qualcuno sosteneva che si trattasse dell’esercito di Ottone di Sassonia, che marciava verso Roma in aiuto del papa; secondo altri, si trattava di bande che avevano semplicemente approfittato dell’occasione per darsi alla razzia. Del resto, sarebbe stato ben poco onorevole per un re dotarsi di un seguito che inseguiva le galline fin dentro ai pollai, infilzava i maiali a colpi di picca e riduceva in cenere tutto ciò che non era possibile portare con sé.
All’abbazia Ottone era considerato come un benefattore, per via dei ricchi lasciti che aveva concesso al tempo della sua convalescenza dalle febbri. Tra questi, il più importante sedeva ora al mio fianco e guidava la mia mano nel comporre gli orli del manto della Theotokos, che avremmo poi dipinto con il prezioso blu oltremare. D’oro erano anche i pannicelli del Bambino, che posava la gota contro quella di lei in un gesto di tenerezza. Dimenticai ben presto Ottone e il suo esercito, i polli di mio padre e persino il proposito di abbandonare la vita monastica, per dedicarmi interamente nel mio lavoro.

 
******
 

Ravenna, Palazzo dell’Esarcato, un anno dopo

 
“Ancora!”
Non mi stancavo mai di ascoltare quella leggenda. Dal camino proveniva il crepitio delle ultime braci, che a tratti schiudevano i loro occhi rossi sotto a un velo di cenere, esalavano un soffio e quindi si disponevano a dormire. Cosa che, d’altro canto, avrei dovuto fare anch’io. La pioggia che ticchettava incessante contro alle mura conciliava il riposo. Berta di Classe, la mia balia, aveva recepito in pieno il suggerimento e dopo aver ciondolato il capo in qua e in là aveva cominciato a russare. Solo le ampie vesti la tenevano ancorata alla seggiola, impedendole di cadere a gambe all’aria.
“Svegliati, Berta! Devo sapere come va a finire la storia!” Di nuovo la chiamai, perché la sonnolenza l’aveva colta sul più bello. Anche se la vicenda di santa Marina che vestì panni maschili per vivere nel deserto l’avevo udita così spesso che potevo ben dire di conoscerla a memoria, ogni volta provavo le stesse emozioni: un misto di eccitazione, desiderio di avventura e fascino per l’Assoluto. Marina che seguì suo padre in monastero e come monaco visse anch’essa nel cenobio, fu accusata di aver disonorato una giovane, crebbe il figlio di lei sotto a un riparo di frasche e solo dopo la morte si scoprì che era femmina. Per vivere cose grandi, evidentemente, occorreva essere uomini. Così era a quel tempo e così è ancora oggi. O forse era sufficiente esser cavalieri nell’animo. In ogni caso, Marina era l’eroe senza macchia che sognavo di essere.
“È tardi, piccola augusta,” borbottò Berta di Classe, con la voce ruminante di chi parla nel sonno. “Sulle mura è già passata la terza ronda e domani molti impegni ci attendono. L’abito per le nozze, i profumi richiesti per te dalla basilissa, l’arazzo che recherai in dono al tuo sposo. Ormai il tempo del nostro viaggio è vicino.”
“Io voglio restare accanto a mio padre, come Marina,” risposi io chiaro e forte, al punto che Berta si ridestò del tutto, riordinando di colpo le vesti, la faccia e le trecce.
“Quelli erano altri tempi, figlia mia, i tempi delle leggende.” Berta ravvivò il fuoco, vi gettò foglie di alloro per purificare l’aria e un paio di ramoscelli, quel che era necessario per prolungare un poco la veglia. “Su ogni vita Dio pone la sua volontà come un sigillo. Nel tuo caso, la Sua volontà coincide con quella di tuo padre.”
Con quella di tua madre, avrebbe fatto meglio a dire, perché di fatto il mio matrimonio con Imre di Ungheria era stato suggerito all’Imperator da lei, Zoe nata dalla porpora dei palazzi dei Romei e giunta sino a qui dopo un lungo cammino di terra e di mare, dalle regioni in cui nasce il sole al mattino fino ai luoghi in cui, secondo i semplici come Berta, lo stesso sole scende a trascorrere la notte sul fondo del mare. Ora un analogo tragitto, questa volta attraverso fiumi e montagne, attendeva anche me: ignoravo del tutto dove si trovasse il reame di Ungheria, ma sapevo che un tempo quella regione era stata romana. Ora che l’Impero era finalmente tornato a essere uno, un’alleanza del genere era il primo passo per ricondurre quella regione alla cristianità, o meglio sotto il governo di Ottone, Imperator Romanorum per Divina Volontà.
Da quella sera di pioggia molti anni sono trascorsi, ma io la ricordo come se fosse ora. Forse perché anche il cielo di questa notte, in questa città di Alba Regia in Ungheria, è basso per il vento e greve per la tempesta. Su questo manoscritto redatto presso il monastero della Visitazione, dove posso finalmente accedere a quella sapienza che ho a lungo desiderato, io, Teofano di Ravenna, intendo lasciare traccia dei miei ricordi, dei molti fatti di cui fui testimone nel tempo in cui rivisse l’Imperium Romanorum, unificato in forza del matrimonio tra Ottone di Sassonia e Zoe basilissa dei Romei.
 Racconterò in particolare del viaggio che mi condusse attraverso i territori della Nuova Pentapoli, da Ravenna e fino ai più alti valichi dove si parlava la lingua cara a mio padre, per giungere infine al regno di Stefano il Pio, padre dello sposo scelto per me dall’infanzia, Imre degli Árpád.
Comincerò a narrare da quella sera trascorsa tra la sonnolenza di Berta, il camino che crepitava altrettanto stancamente, purificando l’aria dagli spiriti nefasti con un pugno di foglie d’alloro, e il ricordo di antiche leggende che mi ispiravano sogni avventurosi. Continuerò dicendo dei più strani preparativi che ebbero luogo nei giorni prima della partenza e che sortirono l’esito di assegnarmi un bagaglio tra il principesco e il bizzarro, che fu causa di molteplici vicissitudini. Se era l’avventura, quella che cercavo, debbo dire che fui pienamente accontentata.
In quei giorni un gruppo di girovaghi si presentò al Palazzo, esibendo curiosità provenienti dai confini del mondo e attirando subito l’attenzione di quanti, operosi o sfaccendati, si trovavano a transitare per la corte.
“Chi siete? Di qui non si passa. Per il mercato, proseguite sempre diritto.” Il capo del plotone a guardia delle mura, un pretoriano di nome Rustico, scese velocemente dalla sua postazione e sbarrò il passo al carretto coperto da una teleria sbrindellata, al quale era aggiogato un somaro bigio e recalcitrante. Il padrone lo tirava per le redini, schioccava la lingua per farsi intendere nel linguaggio delle bestie da soma, dava sfogo alla stizza senza far caso al tizio armato di tutto punto che gli stava di fronte.
“Ohiii Liutprando, ohiii!”
Costretto a muoversi suo malgrado  – e c’era da aspettarsi che di punto in bianco lasciasse il morso e tutti i denti in mano al carrettiere – Liutprando faceva un passo e immediatamente arretrava di due.
“Ohiiii! Che c’è, hai visto un fantasma?”
Piantato sotto l’arco d’ingresso della corte e altrettanto testardo, Rustico non mollava:
“Il tuo ciuco ha più buon senso di te. Ti ho detto che per il mercato devi andare avanti dritto. Per il porto, a destra per la discesa. Qui, comunque, non puoi entrare.”
Il tizio del carretto non gli concesse neppure un attimo di attenzione. Si rivolse ai compari che stavano acquattati dietro ai tendaggi:
“Voialtri imbecilli, venite ad aiutarmi!”
Dal carro spuntarono un paio di facce smunte. Vista la mala parata, il ciuco s’impuntò con tutte le sue forze.
La scena cominciò ad attirare l’attenzione di quanti affollavano il luogo a quell’ora: le guardie si sporgevano dai loro camminamenti e dalle bettole dentro alle mura, i garzoni del fabbro, dei panettieri e dei vasai facevano capolino dalle rispettive botteghe. Un gruppetto di monache che recava un pesante arazzo s’intrufolò spaurito tra Liutprando e la guardia, sparendo sotto al portico che conduceva agli appartamenti della basilissa Zoe. 
Seguendole con lo sguardo, non potei fare a meno di sbuffare annoiata: ecco un altro orpello pronto a entrare a far parte del mio bagaglio di viaggio. D’un tratto provai una grande simpatia per il ciuco, perché anch’io recalcitravo e non poco: non volevo lasciare mio padre che soffriva di attacchi di febbri che lo lasciavano spossato, non volevo recarmi in un paese ignoto con l’unica compagnia di Berta e di un manipolo di armigeri, tanto meno desideravo sposare uno sconosciuto che immaginavo vecchio, barbaro e con tutti i difetti del mondo. Dal sacco di un verduraio pescai due carote e mi diressi decisamente verso il gruppetto.
Da vicino, il ciuchino pareva ancor più macilento di quello che si poteva intuire da lontano. Divorò una carota, poi mosse qualche passo per addentare la seconda. Come se fossi anch’io carrettiere da una vita, lo guidai all’abbeveratoio al centro della corte.
“Ha solo fame e sete,” notai, rivolta al gruppetto che s’era zittito al mio arrivo.      
“Non dovresti essere qui, augusta Teofano,” si limitò a brontolare Rustico, contrariato. “Quanto a questa gente, non sappiamo neppure da dove vengono.”
“Messere, noi veniamo dai più rinomati luoghi della cristianità,” s’intromise con larghi inchini quello che aveva lottato fino all’ultimo con Liutprando. Da parte mia, sapevo bene che il mio posto non era a zonzo per la corte ma nel quartiere delle donne, a contemplare l’arazzo donato dalle monache, a stordirmi con le essenze commissionate ai migliori profumieri e a badare ad altre faccende del genere, sempre in vista di quel viaggio che ormai avevo cominciato a detestare. 
 “Rechiamo con noi merci di grande pregio,” continuò quello del ciuco. “È nostro desiderio offrirle a questa corte e, se possibile, all’attenzione della basilissa.”
“Voi tre dalla basilissa?” ghignò il miles Rustico. “Prima di varcare la soglia, dovreste lavarvi i piedi per dieci anni di seguito e forse non basterebbe. Puzzate peggio dell’asino e non so cosa abbiate da vendere, a parte i vostri pidocchi.”
“Sandrone, procedi,” replicò lo straniero. Un giovane sparuto si affrettò a cavare da un sacco una fiala splendente di dorature, dal contenuto liquoroso e fluttuante di sfumature ambrate.
“ A riprova della nostra buona fede,” riprese il capo girovago, esibendo la fiala sotto al naso di Rustico, “consentimi di offrirti questa lozione dalle cento qualità, filtrata nel cenobio dei Sette Savi di Rodi.” Rustico non sapeva né leggere né scrivere, figuriamoci se sapeva dell’esistenza dei Sette Savi di Rodi, nozione che peraltro sfuggiva anche a me. Delle supposte cento qualità di quel liquido, il padrone del ciuco ne enumerò solo tre, però fondamentali: “Previene la calvizie, suscita il desiderio e aumenta le capacità amatorie dell’uomo. Poche gocce di questa lozione e dovrai difenderti dagli assalti delle fanciulle.”
Rustico non pareva troppo convinto. Molto probabilmente, aveva assistito spesso a spettacoli di imbonitori e non ci teneva a farsi infinocchiare, soprattutto di fronte al capannello di donne, servi e commilitoni che nel frattempo s’era radunato attorno al carro.
Dopo la fiala, Sandrone aveva tratto dal sacco una serie di ciondoli che montavano frammenti di corteccia e pietre dure: “Ecco il legno del sorbo che protegge le case, come dice il proverbio: sorbo selvatico e filo rosso, fan correre le streghe a più non posso. Il corniolo e l’avventurina, che propiziano la salute e la buona fortuna. L’agata, efficacissima contro gli incubi notturni, i demoni che gravano sul ventre mentre si dorme e tolgono il respiro. Non funziona, ovviamente, se avete esagerato col mangiare e col bere.”
Con la coda dell’occhio, vidi le monache dell’arazzo sopraggiungere dai quartieri delle donne. Due di loro avrebbero voluto fermarsi ma le consorelle più anziane le tiravano per la manica, con un cipiglio che imponeva di affrettarsi. Sicuramente anche Berta, in quel momento, era pungolata dalla fretta e mi stava cercando per i cortili del gineceo, tra gli zampilli delle fontane e i palmizi, inseguita dagli sguardi furibondi della basilissa.
 “Con questi talismani camperete cent’anni e sarete liberi da ogni legamento o malattia delle bestie e degli uomini, incendio e veneficio, dai malefizi degli spiriti dell’aria, dell’acqua, della terra.”
“E del fuoco,” aggiunse l’ultimo del terzetto, un tipo con le gote rubizze e la pancia più o meno delle dimensioni del sacco. Dopo avere frugato a lungo nei recessi del carro, riemerse con un mazzo di cornetti color corallo: “Ecco a voi o’ curnicello, prezioso amuleto proveniente dal ducato di Napoli. Ottimo per scacciare il malocchio, avere fortuna al gioco e fare affari d’oro. Attenzione, però: non va comprato ma regalato. San Gennaro, san Gerolamo, san Giustino e san Crispino, usa il mio cornetto, dagli fuoco, dagli vento. San Crispino, san Giustino, fammi vincere il quattrino…”
Il terzo ambulante stava ancora recitando la sua filastrocca quando un gruppo di canonici di sant’Apollinare si fece avanti nel bel mezzo della calca. Alcune delle monache che si erano attardate in prossimità della porta, sparirono in men che non si dica e in una nuvoletta di polvere.
“Cosa si vende, qui? Talismani, intrugli e altri artifici di stregoneria?”
Riconobbi Cassiano, confessore imperiale e braccio destro del papa Silvestro. Anni addietro, una sollevazione di nobili aveva cacciato il papa e l’Imperator da Roma. I progetti di riconquista erano ancora sulla carta e nel frattempo Cassiano offriva a noi il beneficio delle sue estenuanti omelie, il cui argomento principale era il diavolo in tutte le sue forme, quasi che del buon Dio si fosse dimenticato. Il risultato di tutti quei discorsi, più che il timore, era la noia: la basilissa si assopiva fin dall’inizio, l’Imperator dopo un po’ cominciava ad aprire e chiudere il pugno per invitare a farla corta e io, solitamente, approfittavo del torpore generale per svignarmela altrove.
Quel mattino, tuttavia, la voce di Cassiano ebbe il potere di ridestare tutti i presenti dalla suggestione degli amuleti. Accanto all’abbeveratoio dove Liutprando godeva il meritato riposo, calò improvviso il silenzio. Solo il capo degli ambulanti non si fece cogliere in fallo: mentre Cassiano e il suo seguito fendevano la ressa, aveva già fatto sparire curnicielli e monili dalle fantastiche proprietà. Dai recessi nascosti sotto alle telerie del carro cavò fuori una serie di fiale argentate e un involucro di broccato.
“Reverendissimo, noi non vendiamo niente di tutto ciò. Siamo semplici pellegrini e dai nostri viaggi nei luoghi santi siamo soliti riportare reliquie da offrire alla venerazione dei buoni cristiani. Ecco la mirra di san Nicola che nelle terre dell’Apulia trasuda dalla sua tomba.” Mostrò la prima fiala, quindi passò a descrivere la seconda. “In quest’ampolla è contenuta qualche foglia degli uliveti del Getsemani, dove Nostro Signore si fermò in preghiera la notte del Venerdì Santo.”
“Che dici mai, furfante?” lo interruppe un pretino minuscolo, che sgomitava per farsi avanti e non finire fagocitato dalla folla. “La notte del Venerdì Santo, il Cristo era già nel sepolcro.”
“Ben detto, padre santo,” tirò dritto il capo girovago. “E a questo proposito, desidero porgerti in dono l’acqua della Basilica di Gerusalemme, raccolta dalla pietra dove il Cristo fu unto prima di essere deposto nella sua sepoltura.”
“E quell’involto cosa contiene?” domandò Cassiano, ostinato.
Le corna di Belzebù, avrei voluto rispondere, ma il capo degli ambulanti mi precedette: “Si tratta senza dubbio della più importante reliquia della cristianità, che può essere offerta solo alla basilissa. Lei sola ha il diritto di esporla e noi ci sottomettiamo alla sua autorità. È un omaggio di noi pellegrini in occasione delle nozze dell’augusta Teofano. Se la recherà con sé, il suo viaggio avverrà sotto alla più potente benedizione celeste.”
“Hai un bel coraggio, straniero. Sicché un dono simile verrebbe dalle mani di tre pezzenti più un ciuco.” Tra la folla, qualcuno rise. Per trarsi d’impaccio e affinché fosse ben chiaro a tutti che lui con quei tre non aveva nulla a che fare, Rustico cominciò a enumerare le pene previste per gli eretici, negromanti, divinatori e ciarlatani: un occhio la prima volta, la lingua la seconda, il rogo di tutte le membra per la terza.
“Sono io, l’augusta Teofano,” mi intromisi a quel punto. “Siate i benvenuti nel Palazzo dell’Esarcato. Se vorrete seguirmi, vi condurrò ai quartieri della basilissa Zoe.”  
Sentivo su di me gli sguardi del popolino, le occhiate fiammeggianti di Cassiano e del pretino che annaspava stretto tra i guardiani di oche, i garzoni dei fornai, le donne delle caserme e un paio di maniscalchi dalle braccia come travi. Persino Liutprando voltò il muso nella mia direzione, mentre i tre lestofanti, stupefatti e confusi, abbozzarono un inchino facendo volteggiare in aria i loro berretti.  
Ancora oggi non so se intervenni per fare un dispetto a Cassiano, per ottenere un giusto compenso per tutte quelle ore trascorse ad ascoltare le sue omelie sull’inferno o per il desiderio di portare un po’ di scompiglio nei quartieri delle donne. Ero anche curiosa di sapere cosa contenesse l’involto, sicché afferrai decisa Liutprando per la cavezza e guidai il carro dei pellegrini, seguito dai canonici in processione, attraverso i cortili, le fontane e i giardini odorosi di gelsomino.

 
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