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Autore: saitou catcher    29/06/2019    2 recensioni
“Papà?” gli domanda infine Erwin, senza distogliere la sua attenzione dal cielo. “Posso esprimere un desiderio anche se non c'è una stella cadente?”
“Ma certo che puoi” Heinrich sorride, il cuore che minaccia di esplodergli nel petto. “E che cosa vorresti, se posso chiedere?”
“Andare fuori dalle mura con te” non c'è esitazione nella risposta. [...]
(Aveva giurato che suo figlio non sarebbe vissuto secondo una menzogna- avrebbe dovuto saperlo, che le promesse sono le bugie più grandi di tutte)"
[Piccola OS incentrata sulla figura del padre di Erwin su quello che penso sia stato il suo rapporto con il figlio e soprattutto di come lo abbia reso l'uomo che poi è diventato.]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Erwin Smith
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il giorno in cui incontra suo figlio, il primo pensiero che gli attraversa la mente è che sia la cosa più bella che abbia mai visto.
È piccolo, delicato e fragile come un fiocco di neve, e allo stesso tempo così presente e vivo tra le sue braccia, quasi rifulgesse di un fuoco interiore, e stringerlo al petto, sentirlo caldo e fremente contro il proprio cuore è come serbare tra le dita la fiamma di una candela, una scintilla da proteggere contro l'oscurità incombente; così lo solleva e lo accarezza con esitazione, tremando ad ogni suo movimento, fino a quando l'amore che lo colma si trasforma in sofferenza, serrandogli la gola e scorrendo lungo le guance.
“Oh, Heinrich, guarda com'è carino” ricorda il sorriso di sua moglie, l'unica parte di lei che non sia svanita dalla sua memoria. “Non trovi che sia veramente troppo grazioso per un nome importante come Erwin?”
“No” si sente rispondere, abbassando la testa per contemplare il miracolo che gli giace tra le braccia. “Non credo. Chiamalo istinto, se vuoi, ma credo che serva un nome speciale per questo bambino. E penso proprio di averglielo trovato. Non sei d'accordo, Erwin?”
Nel sentirsi chiamare, come se davvero quello fosse il nome scelto per lui, il piccolo si agita contro il suo petto e poi due occhi ancora velati, ma già carichi di azzurro, si spalancano esitanti sul mondo, incrociando i suoi per la prima volta; e di fronte a quello sguardo, qualcosa si contorce dentro il suo stomaco, un istinto feroce e spietato, e quasi contro la sua volontà le sue labbra di padre si muovono, formulando una silenziosa promessa- l'unica che conti, e l'unica che non manterrà.
Mio figlio non vivrà all'interno di queste mura per consumarsi e invecchiare nella menzogna; non marcirà in una gabbia quando a pochi passi da noi esiste tutto quello che potrebbe desiderare. Mio figlio vivrà per vedere ciò che nessuno ha mai osservato, vivrà per qualcosa di più di una consolante illusione; mio figlio vivrà per vedere il mondo ed essere libero.
 
Erwin ha gli occhi di suo padre e il sorriso di sua madre- Erwin sorride come la donna che Heinrich ha amato e seppellito pochi mesi dopo aver realizzato il loro sogno, e così fa quello che può perché la gioia sia sempre presente sul volto di suo figlio, persino se a volte la somiglianza è così evidente da colpirlo al petto, persino quando la stanchezza è tale da minacciare di sopraffarlo. Erwin vale tutto il dolore che potrebbe mai provare, pensa, quando la sera si siede al tavolo per leggergli un libro, nient'altro che la luce di una candela ad avvolgerli nell'oscurità, e gli narra di paesi lontani, di paesaggi remoti, di meraviglie che nessuno ha ancora mai visto o toccato, gli occhi di suo figlio fissi su di lui che bevono ogni parola. Per tutta la durata della storia, Erwin non cessa un istante di osservarlo, e allora suo padre legge fino a consumarsi la voce, riversando in quello sguardo fiumi, montagne, laghi, distese di fuoco e oceani di stelle, il cuore che scoppia dal desiderio che un giorno il suo bambino possa toccare tutto questo, allo stesso modo in cui le sue dita sfiorano reverenti la carta.
“Papà? Cosa sono le stelle cadenti?”
Erwin gli rivolge questa domanda una notte poco dopo il suo quinto compleanno, in piedi vicino la finestra che dà sul cielo sconfinato, un tomo grande quanto lui stretto al petto e le iridi azzurre sgranate, brillanti della stessa curiosità che anima quelle del genitore. Non parla mai dopo aver fatto una richiesta, aspetta sempre pazientemente la risposta, e quindi non dice nulla quando, invece di spiegargli quello che vuole sapere come fa di solito, suo padre lo solleva per metterlo in piedi sul davanzale, di modo che per una volta si trovino alla stessa altezza.
“Lo vedi il cielo?” con una mano Heinrich indica la distesa scura che si srotola sopra le loro teste, punteggiata dai bagliori lontani degli astri. “Ricordi quello che ti ho raccontato una volta sulla luna, il sole, e tutto il resto?”
Retto saldamente dal suo braccio, il viso fisso nella direzione che gli sta dimostrando, suo figlio annuisce vigorosamente. “Certo!”
“Vedi, Erwin, certe notti, se teniamo d'occhio il cielo, è possibile scorgere delle stelle che lasciano la loro dimora e scendono sulla terra. Quando lo fanno, è come se qualcuno disegnasse lassù, vicino alle nuvole, una striscia di luce. Si dice che quando si vede una stella cadente, bisogna immediatamente esprimere un desiderio.”
“E io? Quando posso vederle?”
“Beh, non è una cosa che si può decidere. Deve essere una notte speciale perché si veda una stella cadente, e poi non si possono mica osservare dappertutto.”
“Bisogna uscire dalle mura per trovarle?”
“No, si possono vedere anche da qui... ma ci sono racconti secondo i quali fuori dalle mura ci sono montagne altissime, molto più alte di quelle che possiamo trovare dentro, e da lì, si dice, le stelle cadenti ti passano così vicino che sembra quasi di poterle afferrare.”
Dopo queste parole, suo figlio sprofonda in un assorto silenzio, la testa ancora levata in direzione del firmamento, due lune gemelle che tremolano nelle pupille, la bocca dischiusa in un'espressione di muto stupore, ancora stretto contro il suo petto, ancora piccolo abbastanza da entrare completamente nel suo abbraccio, e dentro di sé Heinrich prega che questo momento possa non finire mai, che il suo bambino possa restare sempre come lo vede adesso, felice e innocente e intoccato dal marciume del mondo.
“Papà?” gli domanda infine Erwin, senza distogliere la sua attenzione dal cielo. “Posso esprimere un desiderio anche se non c'è una stella cadente?”
“Ma certo che puoi” Heinrich sorride, il cuore che minaccia di esplodergli nel petto. “E che cosa vorresti, se posso chiedere?”
“Andare fuori dalle mura con te” non c'è esitazione nella risposta. Solo determinazione e fierezza e amore sconfinato, e per i primi secondi tutto quello che suo padre può fare è stringerlo a sé e chiudere gli occhi, lottando per trattenere le lacrime.
“Un giorno” sussurra, basso e deciso, le mani che tremano sulle spalle del bambino. “Un giorno lo faremo, Erwin. Un giorno lasceremo insieme queste mura e troveremo tutto quello che abbiamo visto nei libri. Questa è una promessa.”
 
(Aveva giurato che suo figlio non sarebbe vissuto secondo una menzogna- avrebbe dovuto saperlo, che le promesse sono le bugie più grandi di tutte)
 
“Papà, perché i Giganti mangiano gli esseri umani?”
“Papà, chi ha costruito le mura?”
“Papà, perché ci sono libri che tieni nascosti?”
“Papà, perché...”
Domande, domande, domande- suo figlio è una fucina di domande. Ed Heinrich risponde a tutte, riconoscendo la sua stessa curiosità, la sua stessa ansia di sapere, lo stesso impeto divorante nel fiume di richieste che suo figlio gli riversa addosso, mai davvero soddisfatto della risposta. La vita all'interno delle mura è davvero troppo ristretta per questo bambino- Heinrich comincia ad accorgersene molto chiaramente quando a scuola gli altri ragazzi scoccano occhiatacce ad Erwin e alcuni persino scuotono la testa con disapprovazione, come se avessero a che fare con una qualche sorta di alieno.
“Dovresti smetterla di riempire la testa di tuo figlio di stupidaggini” gli dice uno dei suoi colleghi. “Non fa altro che questionare quello che gli viene detto, e passa tutto il tempo a ripetere a pappagallo le frottole che gli racconti. I suoi compagni pensano che sia strano.”
“Erwin non è strano” ribatte con forza, stringendo i pugni per  l'irritazione. “Ma a differenza degli altri sta imparando a pensare con la propria testa, e a non accontentarsi solo delle versioni ufficiali. Non diventerà uno di quegli idioti che passano la vita a pendere dalle labbra del governo e non sanno immaginare il futuro oltre la prossima giornata.”
“Non diventerà proprio niente, se continui su questa strada” si sente dire con tono beffardo. “Dà retta a me, Heinrich, tuo figlio ha troppo la testa in mezzo alle nuvole per campare bene in questo mondo. Forse, se smetti di raccontargli favole, c'è ancora la possibilità di farne qualcosa, a parte un sognatore senza nerbo.”
Non è il primo e non è l'ultimo da cui sentirà questi avvertimenti, ma ad Heinrich non importa di star rischiando, non importa che gli altri non possano capire. Il mondo in cui vivono non è neanche la metà di quello che davvero gli spetterebbe, e suo figlio merita di vederlo nella sua interezza, merita di diventare qualcosa di più di un idiota asservito, soddisfatto di poter condurre la propria esistenza all'interno di una gabbia. Heinrich l'ha promesso, l'ha promesso a lui e a sé stesso, e non sarà la paura a distoglierlo da questa strada, non quando in ballo c'è il futuro di Erwin, e la posta in gioco è la verità. Sa di star conducendo un gioco pericoloso, sa che un giorno potrebbe mettere un piede in fallo e cadere- ma anche quando quel giorno dovesse arrivare, ne sarebbe valsa la pena, per dare a suo figlio la libertà.
 
“Maestro, come facciamo a sapere che non ci sono esseri umani fuori dalle mura?”
È un giorno di sole quello in cui Erwin si alza in piedi per fargli questa domanda, impettito e serio e quasi troppo adulto per la sua età, con quella mano alzata per chiedere attenzione e gli occhi già sfavillanti in attesa della risposta. Heinrich lo guarda, e qualcosa di freddo e affilato gli saetta nella bocca dello stomaco, un principio di paura misto a qualcos'altro- perché prima o poi questo giorno sarebbe dovuto arrivare, ma non è né il momento né il luogo per questi discorsi.
“Lo sappiamo e basta” si limita a dire in tono secco, e vede gli occhi di suo figlio dilatarsi per lo stupore, la sua bocca storcersi in una smorfia confusa all'essere accantonato così.
“In che senso, lo sappiamo e...”
“Torna a sedere, Erwin” lo interrompe, e il suo cuore si contorce un attimo nel vedere il ragazzino sussultare e quasi raggomitolarsi sulla sedia, un'espressione ferita sul volto. Per tutta la durata della lezione continua a sentirsi il suo sguardo sulla schiena, ma Erwin non pronuncia più parola, nemmeno quando ritornano a casa e si siedono uno di fronte all'altro per consumare la cena, le labbra strette per trattenere l'impulso di cedere alla curiosità e abbandonare quindi l'orgoglio.
È soltanto dopo la fine del pasto che Heinrich finalmente decide che è passato il tempo di aspettare e torna a sedere davanti a suo figlio con un libro tra le mani che questi non ha mai visto, uno che ha custodito gelosamente per anni nell'attesa che questo momento giungesse. Erwin non dice nulla, si limita a seguire i suoi movimenti con aria un po' spaesata, mentre con lentezza Heinrich gli spalanca il volume davanti e solleva il viso per guardarlo, il bagliore della candela che gli accarezza le guance.
“Adesso ti racconterò una storia, Erwin” gli annuncia, serio, come non è mai stato in vita sua, e suo figlio trattiene il fiato.
Quella notte, Heinrich gli rivela tutto quello che fino ad allora ha tenuto nascosto- la verità che per anni ha cercato senza riuscire ad averne le prove, la convinzione che non potesse essere tutto qui, che ci dovesse essere qualcuno, al di fuori di quelle mura, che quella che è sempre stata divulgata come la storia ufficiale non è altro che una patetica montatura. Quando ha finito di parlare, è ormai notte fonda e nella penombra ormai imperante Erwin lo fissa come se non lo avesse mai visto prima.
“Non capisco” dice infine, con voce esitante. “Perché hai aspettato che fossimo a casa, per dirmi tutto questo?”
A quelle parole, Heinrich sospira, alzandosi per fare il giro del tavolo e inginocchiarsi di fronte a suo figlio, ormai alto a sufficienza perché i suoi piedi tocchino il pavimento, ma ancora troppo piccolo per capire; ci sono cose che un bambino non deve sapere, nemmeno se è abbastanza intelligente per intuire la verità, nemmeno se è abbastanza forte da sopportarla- ci sono cose da cui i figli vanno protetti, sempre, non importa quale sia la loro età.
“Vedi, Erwin” si toglie gli occhiali prima di continuare e piantare gli occhi in quello del suo ragazzo, della stessa identica sfumatura di azzurro. “Ci sono persone, molte purtroppo, a cui la verità fa paura, a cui non piace sentir dire che può esserci qualcosa al di fuori delle nostre mura. A queste persone piace che tutto rimanga com'è sempre stato, e vogliono che anche i loro figli la pensino allo stesso modo- credono di crescerli meglio, nascondendoli dal mondo. Se avessi parlato in classe come ho parlato adesso a te, li avrei spaventati e basta... capisci quello che voglio dire?”
No, suo figlio stavolta non capisce, non del tutto perlomeno: ma lo stesso fa cenno di sì con la testa, serio e compito come un piccolo soldato, e il corpo di Heinrich quasi trema quando un'ondata di orgoglio lo travolge.
“Bravo” sorride e si alza in piedi, tendendo una mano per coprirgli la guancia. “Sono fiero di te, lo sai, vero, Erwin?”
La felicità che illumina il volto del bambino a queste parole è così intensa, così sentita che l'uomo se ne sente colpito dritto allo stomaco, quasi fosse un'entità fisica, e di nuovo deve lottare per impedirsi di piangere. C'è qualcosa, in suo figlio, una luce interiore, che sembra nata per incendiare il mondo, e Heinrich può solo pregare che la vita non la spenga, che i suoi sforzi bastino perché l'esistenza di Erwin brilli e rifulga come fanno i suoi occhi in questo momento-e questa volta non può trattenersi dal prenderlo tra le braccia e stringere fino a che tra i loro corpi non ci sia nemmeno più l'aria, fino a che i loro cuori non battono all'unisono.
“Io voglio che tu veda il mondo, Erwin” sussurra con voce spezzata “non voglio che tu viva nella paura. Qualsiasi cosa ti dovesse accadere, qualsiasi cosa dovessero dirti, non permettere che ti tengano confinato qui dentro... non permettere che la paura ti impedisca di arrivare alla verità.”
Tra le sue braccia, suo figlio annuisce, minuto e fragile eppure così vivo, ed Heinrich lo tiene stretto a sé per quella che sembra un'eternità, sognando il giorno in cui insieme varcheranno le mura e sarà sufficiente tendere un braccio per trattenere le stelle.
 
(Anni dopo, un giovane alla sua prima spedizione punterà lo sguardo verso il cielo, ancora lo stesso bambino e pure già troppo vecchio, una strada di cadaveri oramai imboccata che gli si srotola ai piedi, e con una stretta al cuore penserà Avremmo dovuto farlo insieme- ma questo Heinrich non può saperlo)
 
“Dove stai andando a quest'ora?”
L'ultima delle sue tante domande Erwin gliela rivolge pochi giorni dopo quella conversazione, seguendo incuriositi i preparativi del padre che si appresta a partire per un altro distretto, nonostante oltre le finestre il sole sia giunto alla linea dell'orizzonte e la notte sia prossima. Heinrich gli risponde senza nemmeno guardarlo, intento com'è a ficcare alcuni libri nella sua borsa da viaggio.
“Te l'ho già detto, Erwin. Sono stato convocato per una consulenza. Entro domattina dovrei essere di ritorno. Tu vedi di fare il bravo, e soprattutto di non aspettarmi alzato- anche se io non ci sarò, tu hai comunque lezione domani.”
Erwin non è del tutto convinto, è evidente, ma qualsiasi sia la sua perplessità la tiene per sé. Heinrich gli lancia un'occhiata di sottecchi e gli sembra quasi che suo figlio abbia un'aria colpevole, come se volesse confessargli qualcosa e non riuscisse a decidersi a farlo.
“Ehi, giovanotto, non farmi quella faccia” dopo essersi caricato la borsa in spalla si avvicina e gli poggia una mano sulla testa, scompigliandogli lievemente i capelli. “Sarò di ritorno prima che tu te ne accorga. C'è qualcosa che vorresti dirmi?”
Erwin apre la bocca e sembra sul punto di dire qualcosa... ma poi ci rinuncia, scuotendo il capo e formando un lieve sorriso.
“No. Solo... stai attento.”
“Sai che lo farò” un'ultima carezza, prima di imboccare la porta e avviarsi, il sole oltre le mura che allunga gli ultimi bagliori vermigli. Si gira a guardare suo figlio solo una volta, mentre si allontana, e quasi non lo scorge, una figurina stilizzata in piedi sulla soglia, la mano ancora alzata in segno di saluto. Heinrich solleva la sua e sorride, anche se sa che da quella distanza Erwin non può vederlo- non può immaginare che sia l'ultima volta.
 
“A chi altro hai raccontato delle tue teorie?”
Un pugno lo raggiunge sulla mascella, o forse un calcio- il suo corpo è ormai talmente dolorante da non essere più in grado di distinguere. Ricorda di essere stato raggiunto dai soldati, ricorda di essere stato preso e trascinato in un vicolo, ma tutto quello che segue è un marasma confuso di colpi e voci sprezzanti, domande che si accavallano su altre domande e una consapevolezza che lentamente si fa strada attraverso il sangue: non riuscirà a tornare a casa vivo.
Erwin...
“Allora?” un altro colpo, questa volta allo stomaco (non importa, se anche volesse, non riuscirebbe a percepire la sofferenza) “Non vuoi rispondere?”
Erwin. Erwin. Devo... proteggere Erwin.
Dopo quella che sembra un'eternità, le sue labbra spaccate si muovono, ma nemmeno lui riesce a sentire le sue parole.
“Che cosa?” il soldato si china su di lui, lo scuote per il bavero. “Che cosa hai detto, verme?”
“...no” riesce a rantolare. “No. Io non l'ho... detto a nessuno.”
“Davvero?” attraverso il velo di sangue che gli ostruisce la vista, osserva uno strano sorriso stendersi sul volto dell'altro uomo, carico di una soddisfazione che ha dell'osceno nella sua violenza. “Ne sei sicuro?”
Lo lascia andare e gli si accovaccia di fronte in modo che i loro volti si trovino alla stessa altezza, che il suo fiato rancido lo colpisca in pieno quando si china a sussurrargli all'orecchio.
“Perché, sai, è stato tuo figlio a vuotare il sacco” soffia, scandendo ogni parola. “Il piccolo idiota stava raccontando tutto contento le tue teorie ad un altro ragazzo... e quando gli ho fatto delle domande non ci ha pensato un secondo a spiattellarmi tutto.”
Fa male, più di qualsiasi percossa abbia ricevuto, più di quanto avrebbe potuto immaginare, e così non può sentire il pugno che subito dopo gli si abbatte sulla mascella, non può dargli importanza, perché tutto ciò a cui riesce a pensare è Erwin, il suo bambino, il suo geniale, ingenuo ragazzo, quello che avrebbe dovuto difendere, che avrebbe dovuto aiutare a capire, a cui avrebbe dovuto donare il mondo, con cui sarebbe dovuto restare.
“Direi che ormai è inutile andare avanti” risuona la voce del soldato. “Facciamolo fuori e che sia finita.”
Erwin, mi dispiace, avrei dovuto saperlo, avrei dovuto avvertirti, è andato tutto nel modo sbagliato, non dovrebbe finire così-
Qualcuno gli tira indietro la testa, gli appoggia una pistola alla tempia; Heinrich Smith chiude gli occhi, e per un istante è come se fosse ritornato a quel giorno, come se sua moglie fosse ancora viva e suo figlio niente più che un gomitolo di calore contro il suo petto, e se esiste un dio al di sopra delle mura, è a lui che rivolge la sua ultima preghiera
(Fa' che viva, non chiedo altro; che sia felice, che sia fiero, che veda tutto quello che non gli ho potuto mostrare; fa' che mi perdoni per non esserci stato, e soprattutto che perdoni sé stesso- lascia che viva senza rimpianti, e senza paura)
Alla fine della vita è il volto di suo figlio che porta con sé, mentre fugge nel silenzio e nell'ombra senza nome*, invocando il nome di Erwin; e quando il cuore pompa l'ultimo battito un pensiero nasce e muore nell'oscurità, brillante e effimero come la fiamma di una candela.

Non ti ho mai portato a vedere le stelle.

Buongiorno a tutti, signori e signori, e qualsiasi cosa con cui vi piaccia identificarvi :) E' una vita ormai che non pubblico nulla su EFP e devo dire che è una sensazione strana, ma quasi piacevole, come ritornare in una vecchia casa delle vacanze. Ma del resto, era una vita che non mi innamoravo di un fandom così prepotentemente come è successo con L'Attacco dei Giganti, quindi ha senso che il mio ritorno su questa piattaforma inizi qui.
La shot in sé non ha bisogno di molte spiegazioni- semplicemente, ho voluto dare la mia versione di quello che immagino fosse il rapporto tra Erwin e suo padre, personaggio praticamente assente nelle fanfiction, quando sostanzialmente è a causa sua, e della sua morte, che il nostro biondo-crinito comandante fa tutto quello che fa. Avevo in mente una cosa breve, ma alla mia veneranda età dovrei ormai essere venuta a patti con l'idea che la brevitas non rientra decisamente nel mio carisma, per cui eccomi qua.
Spero che la storia vi sia piaciuta, o quantomeno che vi abbia toccato abbastanza da spingervi a condividere il vostro pensiero, che sia in forma di recensione o di lancio di prodotti ortofrutticoli. Prima di lasciarci, un paio di precisione:
-Il nome del padre di Erwin è chiaramente di mia invenzione;
-* semi-citazione di una frase tratta da La Sfera del Buio di Stephen King;
-Niente di tutto questo mi appartiene, e non ci ricavo nulla, nemmeno delle bucce di banana; massimo massimo potrei derivarne qualche soddisfazione personale.
Un saluto a tutti, 
Saitou


 
 
  
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