Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: little_psycho    01/07/2019    1 recensioni
(Praticamente tutto un grande riferimento all’OVA Lost in the cruel world)
[Eren/Jean(onesided)/Mikasa] [Possible Future!Fic] [Mikasa!Centric]
Mikasa vi si rifletteva e si perdeva – vedeva se stessa e l’uomo dello specchio, quella losca figura senza faccia (con la sua faccia) che l’afferrava per il braccio e le ricordava che in qualunque fantasia si rifugiasse non lo avrebbe mai potuto salvare.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jean Kirshtein, Mikasa Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L’uomo dello specchio



C’erano delle lenzuola fresche e un corpicino caldo contro il suo fianco. C’era della luce che filtrava dalla finestra e un vago odore di gelsomino. C’era un uomo che le porgeva un melograno – «Hai detto che ti piacciono, ne ho comprati al mercato.» – e la farfalla blu che volteggiava pigra per la stanza. Si aspettava che il bimbo la vedesse e la indicasse, che spalancasse gli occhioni azzurri e allungasse il braccio nonostante sapesse già che non ci sarebbe arrivato, perché era esattamente quello che avrebbe fatto lui.
Ma la attraversò con lo sguardo e non la notò, non emise un suono, si strinse più forte a lei e continuò a giocare con l’orlo del suo vestito.
Lo sapeva che significava. “Solo per un momento” – pensò insicura – “Un’ultima volta”.
                                              
«Puoi scegliere il posto che vuoi. In quel mondo, tutto sarà esattamente come vuoi.»
Chiuse gli occhi e percepì un leggero battito d’ali, mentre il mondo crudele diventava sempre più sfocato – «Mikasa stai bene? Mika-» – e quello bellissimo prendeva le rotondità mai esistite del ventre di sua madre e delle guance ancora infantili di Eren. Scorrevano i minuti nel mondo bellissimo, che non erano altro che giorni in quello crudele, perché il tempo continuava a divorarle ogni piccola possibilità di gioia.
 Divorava il nero dai suoi capelli e il ricordo della rarissima risata di Eren, e lei continuava ad aggrapparsi al mondo giusto, dove aveva ancora una famiglia e lo sguardo innocente, dove il Wall Maria era stato sigillato e la sciarpa rossa stava per un “A dopo” facilmente sopportabile e non un “Per sempre” impossibile da mantenere.
 Non c’era niente di cui preoccuparsi. Non serviva nutrirsi, allenarsi, dormire. Serviva la presenza costante dei suoi ricordi fasulli, il calore del sorriso di suo padre e il sangue corrotto sui musi dei lupi affamati.
Nonostante sapesse la differenza tra i due mondi – quello giusto e quello dov’era bloccata, ma prima o poi sarebbe riuscita a scappare, credeva nelle sue abilità – a volte collidevano. Erano momenti terrificanti, dove il fuoco della piazza non riscaldava ma bruciava, le campane risuonavano perentorie – «Ancora altri due rintocchi, mi devo sbrigare.» – e le chiudevano il braccio in una morsa.
E allora scalciava con le sue gambe da bambina e colpiva con i suoi minuscoli pugni, però sentiva urla e maledizioni sussurrate tra i denti, le gambe si irrobustivano e allungavano e i pugni si ingrossavano, scivolava via da quella realtà come può farlo la vita da un corpo, si ritrovava in un letto sfatto e una casa che non riconosceva, con un uomo a cui sanguinava il naso e la guardava disperato.
«Non ci sono campane qui, Mikasa.»
Mentiva, ovviamente, lei le aveva sentite e non poteva perdere tempo, doveva arrivare alla foresta prima del terzo rintocco e restituire la sciarpa rossa. Poi sarebbero saliti su una mongolfiera – costruita da Armin, com’era intelligente, se l’avesse lasciata passare magari gliel’avrebbe potuto far conoscere – e avrebbero superato le mura. Avrebbero visto campi di sabbia, cascate di fuoco e una distesa infinita di acqua salata.
«I commercianti proveranno a rubare il sale. Ma non sarà così facile, l’oceano è così grande che non potranno venderlo tutto.» l’aveva detto Eren guardando assorto un fiume con la sua solita espressione seriosa e le sopracciglia aggrottate, e nell’altro mondo le era sembrato un qualcosa di importantissimo, lo ripete stancamente anche in quello perché non vuole dimenticare niente, nemmeno le farneticazioni di due bambini. Soprattutto quelle.
Jean – si chiamava Jean, aveva fatto parte della Legione Esplorativa, come lei, come Eren e Armin. No, no, la Legione Esplorativa era stata sciolta quando erano piccoli, dove si trovava? – le porgeva un melograno spaccato pieno di semini vermigli come il sangue sui musi dei lupi e come quello dei Giganti, che evaporava senza levarti di dosso il sudiciume della morte, e si tirava i capelli biondi all’indietro, paziente.
Si macchiò le labbra masticandone un paio, sentendoli scendere amari per la gola. Prese grossi respiri ed evitò il suo sguardo fino a che poté, cercando di non riconoscere il paesaggio che le restituiva la finestra. Quel mondo era solo una presa in giro, un grandissimo gioco a dadi con l’universo, voleva solo rimettersi a letto e ritornare dai suoi genitori e dalla voce tranquilla di Eren.
Jean si grattò imbarazzo la testa, e proferì:«Vorresti venire a vedere l’oceano?»
No, pensò immediatamente, non voglio vederlo con te.
Ricordava distrattamente di aver già avuto una conversazione così in precedenza. Si sentì irritata, non poteva ricordare situazioni inutili, avrebbero occupato il posto che serviva per Eren.
«Certo.»
Atteggiò le labbra in un minuscolo sorriso, falso e irriconoscibile, mentre sentiva un versetto di gioia e un bambino barcollava verso di lei con gli occhi luccicanti.
 
Le aveva fatto vedere il porto, con le imbarcazioni che dondolavano dolcemente sul pelo dell’acqua e il bambino che correva spensierato in giro, forse troppo vicino al bordo della piattaforma, ma non lo rimproverò. Bastò la voce di Jean per riportarlo sugli attenti come un soldatino.
Avevano salutato educatamente delle persone che non aveva mai visto, e più tempo passava lontano dal letto, più i ricordi sfumavano, sostituiti da immagini raccapriccianti, morte e cavalli impazziti, che le passavano davanti come una fiera degli orrori.
Strinse le labbra in una linea sottilissima, non volendo urlare in mezzo alla strada trafficata, afferrando la manica della giacca di Jean. «Andiamo via.» sillabò senza fiato, spalancando gli occhi, perché nel nero delle palpebre non trovava altro che pire da bruciare e case distrutte. Quel mondo crudele non faceva per lei.
Ritornarono all’abitazione – non l’avrebbe chiamata “casa”, casa era dove si trovava Eren; ma dov’era Eren? – e lei si sedette sulla sedia della cucina, con le chiacchiere di Jean in sottofondo.
Poco dopo le sfiorò le punte dei capelli con reverenza, assorto.
«Mi piacciono i tuoi capelli, mi sono sempre piaciuti.»    
Sorrise un po’ ironico, come se fosse una vecchia battuta tra amici, qualcosa che lei avrebbe dovuto afferrare. Ricambiò il sorriso, stirando gli angoli della bocca in una posa innaturale e ricordando. Odiava tutti e tutto di quel mondo, eppure – «Preoccupati dei tuoi capelli, piuttosto che pensare a me. Potrebbero darti fastidio durante l’addestramento col Modulo di Spostamento Tridimensionale.» «Va bene, li taglierò.»
La voce di Eren era più profonda di quanto si concedesse di ricordare, dell’adolescente che non si trovava nel mondo bellissimo. Si alzò, composta e impettita, dirigendosi verso i vari cassetti in legno. Andò a caso finché non trovò quel che cercava, posizionando le forbici all’altezza del mento – quando erano diventati così lunghi? – e tagliando, incurante della forma sfilacciata che i suoi capelli avrebbero potuto prendere. A Eren non sarebbe importato, non era così superficiale.
Uscì lasciando le ciocche scure sul pavimento e le forbici sul ripiano, impassibile all’espressione addolorata dell’altro.
 Avrebbe dovuto smettere di trascinarla nel mondo crudele.
 
Il bambino cresceva, forse troppo in fretta, forse Mikasa aveva perso la cognizione del tempo, solo un po’. Del clan degli Ackerman era rimasto poco e niente, un sottile strato d’alabastro sulle sue guance di appena sette anni e degli occhi leggermente allungati, ma che conservavano un colore acquamarina appartenuto a qualcun altro, in altri posti e altri tempi.
Era diventato difficile dividere i due mondi, e durante una mattina invernale si trovò appesa al filo separatore delle due realtà, con la voce di sua madre che sussurrava da dentro e Jean che le parlava da fuori.
Eren sorrideva – felice e puro, con meno lividi del solito – e la chiamava mamma, con una carnagione troppo pallida. Una donna cordiale che accarezzava la testa e le confidava che ormai era come una figlia, mentre il tetto si crepava e la schiacciava e lei la implorava piangendo di scappare.
Era un turbine impossibile di notti passate in bianco, piangendo e dimenandosi, con un fazzoletto bagnato sulla fronte e Jean che le teneva la mano dicendole di lasciar andare via tutto. Non avrebbe mai potuto, era l’unica cosa che le restava.
«Armin» disse in un momento oscillante tra i due mondi, «legge tantissimi libri e sa un sacco di cose. Lui saprebbe…» Trovare Eren, far smettere questa confusione. Ricordava la sua espressione estasiata, i soffici capelli biondi e la sicurezza delle sue convinzioni. Ma lo aveva visto solo una volta, giusto? Piegato contro un albero, piangente, perché – «Mi dispiace, Mikasa, è tutta colpa mia. Il pallone non è riuscito a prendere bene quota, quindi Eren mi ha buttato fuori. Ma non è riuscito a uscirne, e si è schiantato contro il muro. Eren si è sacrificato per me.»
Annaspò, cercando di nuotare controcorrente verso altri ricordi, serrando le palpebre e ritornando al primo in assoluto, un uomo distinto con suo figlio di nove anni ancora più timido di lei, che borbottava un saluto e arrossiva. Riaprì gli occhi, rasserenata, illudendosi di poterlo trovare al suo fianco, con le sopracciglia aggrottate e il fare scontroso.
Invece ricambiò lo sguardo di due iridi lucide di stanchezza e di una bocca segnata da profonde rughe di sconforto.
«Armin è morto, Mikasa.»
Intravide la farfalla blu e il melograno che rotolava per terra, con il sapore salato delle lacrime che le invadeva la bocca. Piangeva un fantasma che aveva bloccato tra i due mondi, qualcuno che aveva amato ma che non ricordava.
 
C’era, poi, un lato oscuro del mondo bellissimo che lei cercava disperatamente di evitare, quello delle campane e del fuoco e della morsa sul braccio, quello dalla voce dolce – come solo la coscienza di un’eremita sarebbe potuta essere, velluto tiepido contro la pelle, petali di fiori tra le pagine di un libro – che riusciva a dirle mostruosità assurde.
«Peggio per te. Non farai mai in tempo. Non importa quanto veloce tu possa correre, il tuo amico ti lascerà indietro.»
«No!» urlava digrignando i denti e sbattendo le gambe, «Solo un po’ più veloce, solo…»
Scappava da vetri che riflettevano la sua immagine e da figure grottesche con gli occhi rivolti, percorreva un bosco ombroso e ritornava sempre lì, al punto di partenza, dallo stesso uomo elegante e dallo stesso bambino remissivo, nella stessa casetta di campagna, rivivendo le stesse situazioni fino a farsi mancare il respiro.
Eren era lì, Eren era piccolo e con gli occhi quasi più grandi del viso, Eren la salutava e gli specchi non erano altro che bugie, Jean si trovava dal lato sbagliato della realtà – «Mikasa apri gli occhi, respira, ti prego.» – , gli occhiali del dottor Jaeger brillavano come una rassicurazione.
 Allora il bambino arrivava, stordito dai lamenti e dal rumore, sotto lo sguardo angosciato di Jean si arrampicava sul letto proprio come prima – un prima (esattamente come un dopo) sconclusionato e inafferrabile, una settimana come un anno –, rannicchiandosi al suo fianco, respirando lieve contro la camicia di cotone e guardandola speranzoso con degli occhi fatti di specchi abbandonati.  
Mikasa vi si rifletteva e si perdeva – vedeva se stessa e l’uomo dello specchio, quella losca figura senza faccia (con la sua faccia) che l’afferrava per il braccio e le ricordava che in qualunque fantasia si rifugiasse non lo avrebbe mai potuto salvare.
Soffocava altri gemiti e andava ancora più in fondo, verso il bosco, la casa, verso quel «Dai Eren, non fare il timido ed entra.», il sorriso genuino di sua madre.
Ma inaspettatamente il fuoco le bruciava la carne, il terzo rintocco le faceva vibrare le ossa e il braccio era intrappolato.
Come lei.
 
«Tuttavia, non potrai impedire la morte di Eren.»
Il quel vortice continuo di campane, fuoco, lupi insanguinati e i passi leggeri delle corse di due piccoli piedi sull’erba alta, l’uomo dello specchio era sempre più pressante, fino a diventare l’unica figura definita in uno sfondo infernale di voci e sensazioni.
Pugnalava il petto di uno sconosciuto riconoscendo il grigio scuro e terrorizzato del proprio sguardo e l’urgenza di correre lontano, con una sciarpa rossa attorno a collo che penzolava solitaria.
Era solo un gioco, un coltello retrattile con del sangue finto, tutto per fare scena, per trasformare una dolce bambina in un’assassina e una mente prigioniera in una suicida.
Le chiedeva con quella voce vellutata, tiepida, delicata come i fiori nei libri, dove sarebbe andata, e lei rispondeva che il suo amico la stava aspettando, doveva sbrigarsi.
Lui la capiva e la lasciava andare, per poi riprenderla e dirle che c’era uno scotto da pagare. Non poteva passare per un bugiardo, no?
Allora scappava di nuovo, e il ciclo riprendeva: Eren – Eren ovunque con la sua presenza meravigliosa, poi scompariva e c’era solo tanto vuoto.
Una mattinata fredda e pulita era uscita dal letto e si era diretta verso la cucina, gli occhi che si spostavano da una piazzola di Shiganshina poco illuminata al mobile di legno, estraendo un coltello e osservandosi nello specchio all’ingresso.
«Fai in fretta, non dovresti farlo aspettare.»
In un’idea molto approssimata Mikasa sapeva di averlo fatto aspettare troppo, che il terzo rintocco era diventato l’ottantesimo e che fuori tirava troppo vento per far volare bene una mongolfiera.
«Sei persa. Sei arrivata qui seguendo il tuo desiderio.»
Guardò lo specchio e non si riconobbe sotto gli strati di malessere, respirando e puntando il coltello contro il vetro. Capitava che l’uomo pronunciasse frasi cattive e senza senso col solito tono compassionevole e accalorato, la spaventava e lo voleva distruggere, il manico saldo nella mano e lo sguardo di fuoco. Era stata una guerriera, dopotutto.
«Eren porta la morte con sé.»
Mentiva, proprio come Jean. Doveva correre solo un po’ più veloce, doveva uccidere l’uomo dello specchio per la milionesima volta e arrivare da Armin, che piangendo le avrebbe detto che…
No.
Sentì un richiamo soffocato, un giovane uomo la guardava stravolto incorniciato da un cielo plumbeo davanti alla porta aperta. Doveva avere circa quindici anni, magari diciassette, vestito per bene e con i capelli ordinati. Se fosse stato solo un po’ più simile a Eren magari l’avrebbe ascoltato, gli avrebbe prestato attenzione durante l’eterna attesa – sua, di Eren, magari anche di Armin, non aveva importanza.
 Era solo uno sconosciuto con degli occhi dolorosi che chiamava “papà”la persona giusta e “mamma” quella sbagliata.
«Non deve più aspettare.» gli confidò sorridendo, spaccando lo specchio.
«Vengo anch’io, Eren. Portami con te, per favore. Voglio venire anch’io!»
Certe sensazioni non cambiavano, tra i due mondi. Avrebbe seguito Eren dappertutto, lo avrebbe protetto con tutte le sue forze, doveva solo trovarlo. Era sicura che fosse da qualche parte, in mezzo a entrambi, in quella dimensione assoluta che stava cercando da tutta la vita. 
C’era del sangue caldo e una lama che le usciva dallo stomaco. C’era una sottile pioggia, fuori, e un vago odore di gelsomino. Anche dolore e bruciore, lacrime che rendevano la presa scivolosa.
«Se pensi sia una menzogna, va a controllare tu stessa. Però, prima devi uccidermi.»
Aveva ucciso l’uomo dello specchio prima del terzo rintocco.
Sarebbe stato come svegliarsi da un lungo sogno.
 
 
 
 
 
«Eh, Eren?»
«Andiamo a casa. Sei ancora mezza addormentata?»
«No… che cosa avrò sognato? Non ricordo.»
«Mikasa? Perché stai piangendo?»
 


 
 
 
 
 

Notes
Well, well, well… è una sensazione bellissima quando riesci a finire una storia che giaceva perduta nei meandri del computer!
Mikasa è il mio personaggio preferito di AoT, quindi all’inizio la brutta fine non era contemplata, ma l’ho trasformata in un “ritrovamento” di Eren. Il discorso alla fine è preso pari passo dal primo episodio, quando Eren sogna il Gigante Colossale e tutto quello che avrebbe comportato. Lei muore e incontra Eren, la conversazione è puramente simbolica.
Ho rivisto Lost in the cruel world per trascrivere poi la battute così com’erano state dette, e ci sono alcuni riferimenti che potrebbero essere confusi a chi non ricorda bene l’episodio.
La
farfalla blu è la farfalla che intravede nel passaggio da un “mondo” a un altro, come anche il melograno.
I lupi affamati sono i lupi che nel suo mondo alternativo hanno sbranato gli assalitori dei suoi genitori, gli stessi che in seguito uccide Eren.
Eren le aveva detto che al
terzo rintocco delle campane lui e Armin sarebbe partiti con la fantomatica mongolfiera e che non l’avrebbero aspettata oltre.
L’uomo dello specchio doveva essere una figura centrale, ma alla fine è diventata un po’ di sfondo, ma la sua funzione non cambia. Non dicono mai chi è, e ho sempre pensato che in realtà fosse Mikasa, perché lei stessa era l’unica barriera che le impediva di ritornare nel mondo reale. È la parte lucida della sua coscienza. In questo caso, invece, le fa capire che non troverà mai Eren se non morendo.
Spero che questa storia vi sia piaciuta! Non esitate a farmelo sapere nei commenti! (O a buttarmi pomodori in faccia perché non si capisce niente, me li meriterei…)
Alla prossima
little_psycho  
   
 
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