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Autore: Ellie_x3    04/07/2019    4 recensioni
“Non ti fidavi di me?”

“Non è nella mia natura fidarmi, né nella tua restare. Cos’altro potevo fare?”

Non erano che trascorsi due secoli. 

Duecento anni in un battito di ciglia, il susseguirsi delle stagioni e dei governi e degli eroi.
Duecento anni non avevano mutato il bagliore delle spade e il verde delle foreste di bambù che si stagliavano lungo le montagne dell’entroterra, né avevano mutato il pallore ultraterreno dei ciliegi in fiore. Ma duecento anni, due secoli, avevano tinto i fiori del pruno di un intenso color sangue.
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Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Storico, Sovrannaturale
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Illusione

On a single string
your spirit and mine are strung:
one so softly spun,
parted we can still, I know,
mend the break and join again

Non erano che trascorsi due secoli.
Duecento anni in un battito di ciglia, il susseguirsi delle stagioni e dei governi e degli eroi.
Duecento anni non avevano mutato il bagliore delle spade, il rosso del tramonto, il verde delle foreste di bambù che si stagliavano lungo le montagne dell’entroterra, un oceano ombroso vicino agli dei e ai fantasmi, né avevano mutato il pallore ultraterreno dei ciliegi in fiore. Ma duecento anni, due secoli, avevano tinto i fiori del pruno non lontano della precedente capitale di Heijō di un intenso color sangue, una sfumatura che faceva impallidire i crisantemi infernali.
Vederli suscitava un timore ancestrale il cuore degli esseri umani, infondendo nel loro animo un misto di meraviglia e paura che li scuoteva da capo a piedi. Tremanti, quei petali tracciavano nell’aria una danza silenziosa capace di suscitare malinconia nella fragilità, e gli esseri umani ai piedi del monte li osservavano con il naso all’insù, il respiro mozzato nel tentativo di ricordare quella vista per sempre: lo stomaco stretto all’idea di perderne anche solo un istante, l’anima sazia della bellezza del mondo.
Petali color sangue.
Duecento anni prima quegli stessi fiori piovevano su una mattina di sole, quando gli dei avevano storto il naso e avevano maledetto un matrimonio che pareva sovvertire le leggi naturali.
Due forze demoniache, la cui unione è fugace come la fioritura dei ciliegi.
Ma Mayume non aveva ascoltato, quel mattino, nonostante avesse rimpianto quella decisione per anni; duecento, ormai. 

 

Si diceva che avventurarsi nella foresta di bambù significasse la morte per i viaggiatori solitari: era terreno di caccia un animale rabbioso, una creatura ultraterrena che avrebbe fermato i passanti, chiedendo loro se venissero dalla capitale.
'Portate notizie dalla capitale?' chiedeva il demone, le spade alla cintura e la lancia ancora macchiate di sangue.
'Sì,' rispondeva il viaggiatore, e una lama gli trapassava il corpo.
'No,' rispondeva il viaggiatore, e una lama gli trapassava il corpo.

 

“Come mi hai trovato?”
Lo stomaco di Mayume si era stretto in un nodo, ma aveva obbligato il proprio corpo a rimanere immobile, con le ali ripiegare sulla schiena che facevano da cuscinetto fra sè e il tronco nodoso della quercia sacra.
Fujiwara no Mayume, ministro della destra, il figlio adottivo d’un uomo che aveva sfidato le leggi della realtà e della natura per arricchire le fila della propria famiglia d’un essere sovrannaturale. Il tengu, il segreto nascosto agli umani, il prediletto di suo padre; che sciocco era stato a credere d’essere l’unico mostro tra le mura imperiali.
Idiota, Mayume. Sapevi che questo giorno sarebbe arrivato. 
Poteva sentire il fruscio dei talismani smossi da vento, ma la brezza portava anche il delicato sentore dei fiori, della primavera, e dell’incenso.
“Non sei difficile da trovare,” aveva replicato la voce, dall’altra parte dell’albero.
Con la coda dell’occhio Mayume intravide uno stralcio di kimono color neve, ciocche di capelli neri che sfioravano un profilo affilato, un naso elegante, le ciglia che facevano capolino oltre le ciocche che cadevano sulle spalle dell’uomo.
Il poeta, la volpe, l'incarnazione dagli occhi color dei crisantemi che sbocciavano all’inferno, vestiva di bianco.
“Hm.” Sbuffò, umettandosi le labbra improvvisamente secche, “mi stai dicendo che hai solo aspettato il momento giusto?”
“Sembrava non arrivare mai.”
Mayume sussultò.
Dovevano essere una curiosa visione, l'uomo dai lunghi capelli color della notte con la maschera di una volpe calata sulla fronte e il tengu dalle ali maestose, vestito d’oro e con una coppia di spade al fianco; c’era stato un tempo in cui Mayume non se n’era preoccupato, beandosi dell’attenzione che suscitavano quando tutto ciò che vedeva era la luce del profilo della volpe, dei suoi occhi scarlatti e il ventaglio delle nove code che si apriva solo nella sua ombra. Avrebbe potuto tracciare nell’aria i contorni del viso di Nanase; era sempre lo stesso, un vecchio fantasma.
“Ma alla fine sei sempre il solito impaziente, kitsune.”
“Non volevo farti scappare.”
“Quando sarei dovuto scappare? E comunque, non mi interessa,” Non mi interessa, non mi interessa più, mi ha ossessionato per troppo tempo, “Ridammi ciò che mi hai rubato e facciamola finita.”
“Non ho motivo di separarmi dall’ultima cosa che mi rimane di te, non trovi?”
Lasciami in pace.
“Perché sei qui, Nanase?”
“Perché dovrei essere da qualsiasi altra parte? Sono passati duecento anni, Mayume. È ora di lasciar perdere; va tutto bene, va tutto bene, non fa niente ormai.”
Il tono della volpe era vellutato, spoglio di qualsiasi onorifico nonostante parlasse l’antico dialetto del palazzo. La sua presenza apriva ferite che Mayume credeva cauterizzate, evocava ricordi di Heian-Kyō quando l’acqua scorreva immutabile nei giardini e la luna mozzava il respiro degli esseri sovrannaturali così come quello degli umani.
Il ministro della destra e il precettore dell’erede presuntivo; niente di più.
“Non fa niente,” ripetè, fra sè e sè.
“Duecento anni sono tanti, troppi, per un litigio.”
Il fugace ricordo di uno specchio d’acqua, di una poesia tratteggiata su un foglio consegnato annodato ad un ramo in fiore.
Era quella la bellezza che spezzava il cuore.
“Mi sei mancato, Mayume, che altro motivo dovrei avere?”

 

Il giorno del loro matrimonio, la kitsune disse al tengu,
“Anata1, aspettatemi. Ho un regalo per voi.”
Ma non aveva alcun regalo— solo il furto del suo ha-uchiwa, il ventaglio, così che non potesse più controllare i venti; così che non potesse più fuggire.

 

Umettandosi le labbra, Mayume non rispose.
Non era solo la bellezza di Heian-Kyō a rendere amaro il ricordo del sentimento che provava per Nanase. Quella che gli bruciava in corpo era una fiamma sin troppo facile da rifocillare; duecento anni, innumerevoli primavere solitarie, e il cuore di Mayume si fermava al solo suono della seta della veste della kitsune che si assestava contro l’albero, la schiena poggiata mollemente contro la corteccia, le braccia conserte, il volto rivolto alle fronde sopra di loro.
Duecento anni schiavo della propria ossessione. Non aveva mai rivisto il ventaglio, non aveva osato piegare gli elementi al proprio volere divino né fronteggiare un altro Fujiwara.
Il ricordo dei cerchi tracciati dai polpastrelli di Nanase sulla sua pelle era sufficiente per acuire la vergogna, un senso di orrore che lo attanagliava quando ricordava quelle stesse mani che rubavano e ferivano.
“Ho sentito che ti sei fatto un nome qui attorno, Udajin.2"
Poteva quasi assaporare il sogghigno della volpe, le sue labbra pallide piegate all’insù.
“Gli umani sono sciocchi.”
“Ah, dunque le cose stanno così? Ricordavo un Mayume che sosteneva l’esatto opposto, incantato dalla loro genialità, dalla poesia, dalla fugacità della loro esistenza.”
“Idiozie e stupidaggini,” rispose, scrollando la testa. Al suo fianco, le spade e la maschera rossa tintinnarono, “ho perso il mio onore ed è bastato, ho imparato la lezione.”
“Non mi hai ancora perdonato.”
“Come potrei?” replicò, con un filo di voce.
“Neanche fra altri mille anni, Mayume, neanche se tutto il resto perdesse senso e la neve smettesse di cadere e le onde smettessero di obbedire alle fasi lunari?”
Si morse le labbra, maledicendo la maestria delle kitsune con le parole. Nanase avrebbe potuto accoltellarlo, e ancora avrebbe avuto modo di girare la situazione in modo da costringerlo a ringraziarlo per avergli piantato una lama in corpo.
“Mai.”
“Credevo mi amassi.”
Nanase era sempre stato veloce ad infilargli schegge nel petto: con le promesse disattese, con i tradimenti e le carezze, con la sua bellezza che era come quella di un ciliegio, fragile e delicata, terribile nella sua brevità.
Il tengu deglutì a vuoto.
“Non ricordo di aver mai detto una cosa del genere.” mentí.

 

Sconvolto dal tradimento, il tengu spiegò le proprie ali di falco e fuggí, stagliando un’ombra sul palazzo imperiale.
Privato del suo tesoro e della dignità, legato per sempre ad un amante che l’aveva tradito, si rifugiò in una foresta di bambù dove la volpe non avrebbe osato cercarlo.

 

Nella sua mente, Nanase era legato indissolubilmente al fruscio dei ventagli, al suono ipnotico dei tamburi e del koto nei giorni in cui il vibrare delle sue corde era un suono che apparteneva unicamente alla corte, quando ancora le stagioni erano cadenzate dalle danze.
Nanase era eleganza, con le ciglia che tracciavano ombre finissime sui suoi zigomi alti, le labbra piegate in quell’espressione serena, le lunghe dita affusolate che facevano danzare i ventagli lanciandoli nel cielo e afferrandoli con grazia.
Nanase era bello, e mai ovvietà era stata più sconcertante.
Se n’era innamorato così, Mayume, con quella stretta al petto che credeva l’avrebbe ucciso e portato al cospetto degli dei per spiegar loro perchè, come poteva essere finito in un’esistenza così lontana da quella dei suoi antenati sulle montagne.
Nanase era affilato, uno spillone che riluceva in una casa dove gli animi erano, al massimo, pettinini di giada: delicati, ma privi di attrattiva.
Non c’erano divertimenti che placassero lo spirito curioso della volpe, nero come l’inchiostro che tracciava i tanka più raffinati, e il tengu aveva ricordato per la prima volta il significato di sovrannaturale; era come aver rammentato improvvisamente le parole di una melodia persa nel tempo.
Allo stesso tempo, una curiosità morbosa di era impadronita di Nanase, e un dolore inspiegabile era diventato suo compagno quando si sedeva sulla veranda ad ammirare la luna, passatempo preferito degli esseri con cui condivideva l’esistenza.
Mayume era tutto ciò che non avrebbe mai pensato che uno stupido tengu potesse essere. Non era noioso, eppure era il ministro della destra. Non era stupido, eppure era una creatura sciocca e malleabile per natura. Lo vedeva — le guance rosee, gli occhi chiari, le ampie ali nere nascoste agli umani, la maschera rossa che teneva alla cintura — e comprendeva il significato dell’esistenza di Fujiwara no Teika e il trascinante sentimento che aveva generato la sua poesia.
Se Mayume non passava per gli appartamenti di Nanase, il sole non sorgeva. Se non lo invitava a bere sakè e giocare al gioco delle conchiglie, la notte non calava.
Se le loro mani non si sfioravano, e se i loro sguardi non si incrociavano, era un giorno perso.
L’idea di lasciarsi sfuggire quella visione tra le mani lo tormentava. 
Anche quando era con lui la sua anima tremava, intimorita per la prima volta come una volpe qualsiasi di fronte ad una muta di cani, sfiorando un apice di umanità che la kitsune aveva schernito negli altri, tacciandoli di stupidità.
Per quanto lo tenesse vicino, per quanto il tengu giurasse il contrario, una parte di Nanase temeva che Mayume avrebbe potuto scomparirgli fra le braccia come fumo, lasciando il vuoto.

 

“Non ti fidavi di me?”
“Non è nella mia natura fidarmi, né nella tua restare. Cos’altro potevo fare?”

 

Quel periodo felice della vita di Mayume, aperto con le danze estive e chiuso con una pioggia di glicini, era stato un sogno; fugace, irreale, una pennellata su carta bagnata. Prima che se ne potesse accorgere, i bordi erano già sfumati e l’inchiostro era scivolato fuori dal foglio.
La presenza di Nanase, però, cambiava tutto; riportava a galla quello stesso inchiostro che il tempo aveva lavato via, ed i ricordi non erano invecchiati di un giorno.
“Mi hai aspettato per tutto questo tempo? Sono commosso.”
Mayume aveva stretto le labbra, sentendo già il sangue salirgli al viso e preferendo non parlare per paura di rendersi ridicolo, e andandosi a sedere sulla veranda che dava sul giardino interno della tenuta di Nanase.
In un giorno diverso avrebbe alzato lo sguardo per dedicare un attimo al tetto di glicini sopra di loro, il profumo intenso, il viola delicato della pioggia di petali: un miraggio per testare l’umano, la cornice perfetta per una volpe nel pieno del suo potere, ma Mayume sentiva di aver già perso sufficientemente tempo.
Da generazioni la sua famiglia possedeva una tenuta in stile cinese dove i vari blocchi della casa e le pagode erano elegantemente collegati da ponti e balaustre in legno laccato, sospesi su specchi d’acqua immobili e punteggiati di rosa pallido quando il vento faceva piovere petali e dal bianco dei fiori di loto, ma la grazia di quella particolare veranda nel padiglione imperiale non mancava mai di lasciarlo senza fiato.
Nanase gli lanciò uno sguardo animato da un sorriso fugace, gli occhi scarlatti che scintillavano d’interesse.
“Non pensavo saresti più arrivato,” ammise, le labbra piegate impercettibilmente all’insù, “dopotutto, ero stato avvertito che il ministro della destra è un uomo impegnato.”
“Sono corso qui appena ho potuto.”
Perchè ti stai scusando, idiota?
“Non rimane molto,” mormorò la volpe, lanciando uno sguardo sopra di sè, “Daijō-daijin3 ha insistito che facessi da giudice ad una gara di composizione di tanka.”
Istintivamente, Mayume si morse le labbra; poteva rimpiangere di aver svolto il proprio dovere, poteva essere disgustato dal tempo sprecato per il bene della corte, quando si sentiva derubato?
“Non possiamo farci nulla,” disse.
Va bene così, ci sarà un’altra occasione, si ripromise, ma non mancò di notare il modo in cui Nanase aveva corrugato la fronte.
“No, non possiamo farci nulla. Udajin è davvero un uomo molto impegnato.”
“Appena le cariche saranno ridistribuite, avrò più tempo da dedicarti,” promise Mayume, facendosi scorrere una mano fra i capelli. Erano parole impetuose e pronunciate dal cuore, più dirette di quanto intendesse e che potevano facilmente mettere in imbarazzo lui e gonfiare l’ego della volpe. Nanase avrebbe avuto tutto il diritto di riderne, ma si tese ad afferrare una delle mani dell’altro, le sue dita affusolate che si intrufolavano per stringere gentilmente quelle del tengu.
“Lo spero. Ma non intendevo fartelo pesare, mi spiace di essere stato troppo diretto.”
“Mi piacerebbe davvero avere più tempo,” insistette. Non era una menzogna, nè educazione, e la verità parve rendere lo sguardo della kitsune più attento, le iridi più chiare.
“Cerchiamo di non sprecare il poco che abbiamo, per ora.”

 

La volpe rimpianse la decisione, ma era troppo tardi. Schiavo della propria irrazionalità, era stato la causa della stessa fuga che aveva temuto. 
Dicono che la vita non sia altro che un gioco di Go.
Una danza dei ventagli finisce, la folla si disperde.
Anche il ciliegio muore in inverno.

 

Aware” Mormorò Mayume, fra sè e sè. Era un termine antiquato, ma il suono familiare piegò all’insù le labbra di Nanase.
“Parli in modo così antiquato, Udajin; gli umani si sono evoluti, intanto, ed ora dicono ‘ah’.”
“Non mi importa.”
“Un tempo ti importava. Un tempo eri trascinato dalla bellezza di ogni cosa, anata.” Un vecchio epiteto non avrebbe dovuto farlo sussultare così. Un vecchio modo di dire, una dimostrazione d’affetto che era come una carezza, ma aveva la forza distruttiva di un monsone, agognato e disperato.
Mayume si morse le labbra ed era certo che Nanase potesse sentirlo, ma andava bene così; non aveva mai potuto nascondergli nulla.
“Un tempo non avevo nulla, e non sapevo niente.” rispose, con un filo di voce.
Poi era arrivato Nanase. Era arrivata l'estate e le competizioni di poesia, ed erano arrivati quei rotoli — cento figure in un susseguirsi di dipinti maestosi in oro e verde che Nanase spiegava sui tatami della sala in cui Mayume lo riceveva ogni giorno.
Ricordava il sorriso estasiato della volpe, i canini appena scoperti, la luce gentile nei suoi occhi quando teneva i rotoli fra le braccia.
‘Una nuova frontiera della bellezza, Mayume. Guarda.’
Il tengu aveva sollevato un sopracciglio.
‘Hm? Un altro di quei libri pornografici, kitsune?’
‘L’opera di Murasaki-dono illustrata.’
Mayume sapeva scorgere qualsiasi emozione nelle espressioni miniaturizzate, e Nanase discerneva fra gli stili di calligrafia dell’autore. Aware, sfuggiva alle labbra di entrambi, ad ogni dettaglio raffinato inciso sulla pergamena.
Non era completo, ma era meraviglioso. Dopo un lungo silenzio, Nanase aveva alzato gli occhi, un’espressione seria che gli animava lo sguardo e le labbra strette in una linea sottile.
‘Fujiwara no Mayume,’ l’aveva chiamato, e certo non gli era sfuggito il sobbalzo dell’altro, ‘sposami. Sposami, e ti regalerò quest’opera, sarà tua dal primo all’ultimo dei suoi rotoli. Ti regalerò tutta la mia vita, se la vorrai.’
Alla fine, come tutto ciò che poteva provenire da labbra ingannatrici, era stata una promessa fugace.
Ma la sua sola esistenza, quei decenni umani di incontri che erano volati in un battito di ciglia, erano sufficienti a stillare nell’animo di Mayume una malinconia delicata, il ricordo di qualcosa di bello che si era tramutato in nostalgia e successivamente in una lama priva di corpo, ma sufficientemente affilata da tagliare ogni giorno.
Il tradimento bruciava ancora, ma conviveva con il retaggio di Nanase, una scheggia di cui non riusciva mai a liberarsi completamente.
Con un fruscio, Nanase si sollevò. Mayume colse con la coda dell’occhio il suo spolverarsi dall’haori da viaggio una polvere che non c’era e da frammenti di corteccia che di sicuro non l’avevano nemmeno sfiorato, e gli sfuggí un sorriso.
“Dunque?”
“Dunque, anata, me ne vado. Altri cento anni e ti mancherò abbastanza che sarai tu a cercarmi.”
Altri cento anni? Certo, come no.
Eppure, sarebbe bastato che chi diceva di amarlo si fidasse di lui: se gli avesse reso il ventaglio tutto si sarebbe sistemato, e non sarebbe nemmeno scappato perchè era troppo idiota e duecento anni dopo quelle due parole, mi manchi, erano intrappolate nella sua gola e gli facevano pizzicare gli occhi e pesavano sul petto.
Illuso; dopotutto, non ci si poteva aspettare fiducia da un essere del genere.
“Hmpf. Sicuramente.”
“Guarderai i ciliegi, Mayume, quest’anno?”
“No,” sussurrò, abbassando il capo. “Non mi interessano questo genere di cose.”
Nanase non aveva osato fronteggiarlo e forse era meglio così. Forse era meglio non vedersi, non toccarsi, perché altrimenti avrebbe dimenticato il torto e la dignità e tutto il dolore subito; perché era una creatura debole impigliata in una rete che non voleva saperne di cedere e il cuore gli saliva in gola al solo suono della sua voce.
“Duecento anni, stupido. Il tuo regalo di nozze è quasi completamente distrutto.”
“Non vale nulla, e non mi interessa,” sbottò, incrociando le braccia al petto. Voleva vederlo; voleva sfidarlo e leggere rimorso in ogni linea del suo volto, in ogni sfumatura di quegli occhi, eppure non era certo di cosa avrebbe fatto poi.
“Hm, è così? C’è un nuovo monogatari in voga; Heike, un racconto di guerra, ma dopotutto i tempi sono mutati ed è questo che interessa, ora. Ti piacerebbe.”
“Non mi piace la piega che stanno prendendo gli eventi,” lo corresse lui, aggrottando la fronte. “Ma non è un mio problema. Dunque, non te stavi andando?”
Nanase ridacchiò, e Mayume immaginò che stesse scrollando il capo. Perché doveva sempre suonare come una campanella nel vento, quella risata, intoccata dal flusso del tempo?
“Me ne vado, Udajin, me ne vado. Hai così tanta fretta di liberarti di me?”
“Sei fortunato che ti permetta di camminare su questa montagna, kitsune, ma non testare la mia pazienza.”
Gli parve quasi di sentire il sogghigno di Nanase.
“Oh, sí, dimenticavo; la vendetta. Una buona signora mi ha messo in guardia della sete di sangue di un essere carico d’odio, un tengu tradito— di’, non mi hai davvero perdonato? Dopotutto, mi punisci per essere ciò che sono.”
La sua voce era bassa, roca, le fusa di un gatto.
Avevano allevato un gatto, brevemente, a corte. Nanase si addormentava con lui, un braccio mollemente allacciato al fianco di Mayume e l’altro cristallizzati in una carezza, le dita affondate nel pelo nero dell’animale.
“Ti punisco per quello che hai fatto, Nanase.”
“Una risposta cinica?” Poteva sentire lo scherno nella sua voce, ora, immaginava il sopracciglio inarcato. “É cambiato davvero qualcosa, dunque, caro il mio ex-ministro; sono colpito.”
“Vattene, idiota, prima che ti uccida.”
“Molto bene, basta così. Tornerò in occasione della festa degli innamorati divisi, quando sarà estate: magari quel giorno proverai pietà di me.”
Digrignando i denti, Mayume scosse la testa. Fissare i propri piedi, le radici nodose della quercia che si estendevano spuntando dall’erba, iniziava a diventare difficile.
“Ti servirà ben più di una stupida scusa.”
“Vedremo, anata. Fino a quel giorno, sentirò la tua mancanza.”

If the Pine of Aneha at Kurihara
Were but a person
Long awaited,
I would say, "Come with me as a souvenir
To the capital."


 


Note Essenziali (Più lunghe della shot ma we die like men)

Vezzeggiativo tra persone sposate, because I am that sappy
2 Ministro della 
destra
3 Cancelliere

Quella del tradimento tengu/kitsune è un vecchio trope e mi piace sempre un casino. In teoria era una long ma consideriamola un omake haha
Le poesie sono in inglese perchè mi sembrava più fruibile (il mio Ise Monogatari fa un po' skiff ed è in inglese con romaji a fronte, ma non ho trovato una buona versione in italiano), mentre mettere i kanji era come mettere tanti bei fiorellini che tanto chi li capisce (non io).

Ise Monogatari, sezione 35

Ise Monogatari, Sezione 14.3
 

“Illusione” (Maboroshi) è il titolo di uno degli ultimi capitoli del Genji Monogatari, romanzo di epoca Heian e massimo esponente di quello che verrà poi definito ‘Mono no Aware’, e in particolare il capitolo in cui Genji riflette sulla caducità della vita dopo la morte di Murasaki. Leggete il Genji bambini che è bellissimo.
Il Genji Monogatari Emaki, rotoli illustrati m e r a v i g l i o s i, come viene citato hanno avuto vita breve (non è chiaro se sia mai stato finito) e sono attualmente quasi totalmente persi, se li avete visti vi invidio tanto.  
Ora, sarebbe stato sensato mantenere solo i riferimenti al Genji, ma siccome Fujiwara no Teika e Ariwara no Narihira sono i miei bimbi prefe, non potevo non citare l’Ise Monogatari. Il riferimento a Fujiwara no Teika è un leggero spoiler sulla sua (supposta) relazione con una sacerdotessa del santuario di Ise, che come quella dei nostri due scemi è una relazione non esattamente che si può sbandierare ai quattro venti (ma a Fujiwara no Teika cazzogliene, lui fa quello che vuole).
Il giorno della festa degli innamorati divisi è, ovviamente, il tanabata.

E niente, io mi sono smascherata come una nerd schifosissima e se non siete ancora morti di noia vi meritate un abbraccio <3

 

 

   
 
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