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Autore: mystery_koopa    09/07/2019    11 recensioni
Le montagne erano le immense cattedrali nel deserto della mia anima, con i loro portali di roccia scolpita dai colpi dei cannoni, i mosaici di nubi che ne cingevano le vette come celestiali drappi funebri, i cori dei torrenti che solo durante le ore di buio riuscivo a immaginare limpidi e non insanguinati, gli altari di neve sui quali ero costantemente inginocchiato in preghiera verso quelle entità che restavano la mia unica certezza. Parevano fissarmi, le montagne, con i loro occhi infiniti e la loro apparenza impassibile, tanto che persino il tempo non sembrava in grado di poterle mutare. Io, invece, non ero nulla; non lo ero mai stato, in confronto a loro.
✠ Terza classificata al contest "Elisir, pozioni e distillati" indetto da wurags sul Forum di EFP.
✠ Seconda classificata al contest "Hold my Angst" indetto da GaiaBessie sul Forum di EFP.
Genere: Angst, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali
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FENDITURE
 
 
Non erano i colpi di cannone a risvegliarmi dall’apatia che mi assaliva in quei mesi, quando vedevo i miei compagni cadere al suolo senza vita, ridotti a corpi inutili sferzati dal vento e stretti dalla morsa del ghiaccio. Era la montagna, lo scenario di quel dramma, del mio dramma, a pacificare la mia mente logora e sporca.

Ogni volta che la notte calava, con essa scendeva un silenzio innaturale, assordante: era il rumore della morte, forse ancor più distruttivo dei proiettili che mi sfioravano la pelle durante il giorno, ma soltanto in quell’assenza di suono riuscivo a ritrovare la persona che ero stato e che non ero più. Nelle ore governate dall’oscurità, sfiorando quella stessa neve che sotto la pallida luce diurna mi congelava le mani, sentivo la vita scorrere nuovamente attraverso la mia pelle, e nonostante il freddo il mio cuore si riscaldava ancora una volta. Pur senza poterli vedere, sapevo che i miei occhi iniziavano a brillare, stelle splendenti nel buio che mi portavo dentro.

Non dormivo mai, come durante una veglia religiosa che procedeva ininterrotta dall’inizio di quell’inverno: le montagne erano le immense cattedrali nel deserto della mia anima, con i loro portali di roccia scolpita dai colpi dei cannoni, i mosaici di nubi che ne cingevano le vette come celestiali drappi funebri, i cori dei torrenti che solo durante le ore di buio riuscivo a immaginare limpidi e non insanguinati, gli altari di neve sui quali ero costantemente inginocchiato in preghiera verso quelle entità che restavano la mia unica certezza. Parevano fissarmi, le montagne, con i loro occhi infiniti e la loro apparenza impassibile, tanto che persino il tempo non sembrava in grado di poterle mutare. Io, invece, non ero nulla; non lo ero mai stato, in confronto a loro.

Nei primissimi istanti successivi all’alba, mentre attraverso le sfumature del rosa e del rosso l’oscurità della notte si rischiarava gradualmente, mi era finalmente concessa la visione dell’imponenza della roccia che si stagliava su di me come i banchi di una giuria che opprimono l’imputato prossimo alla condanna. Ma io non ero oppresso, ero libero: libero di perdermi nell’infinità di quella che pensavo sarebbe stata la mia eterna tomba, libero di rifugiarmi con il pensiero da un mondo in cui a nessuno sarebbe mai importato qualcosa della mia esistenza.

Prima degli ordini suicidi dei generali, prima degli spari, prima delle urla di dolore dei soldati, avevo il mio momento di libertà.

Ero partito per conquistare le montagne, ma loro avevano conquistato me: nel mio paese natale non ce n’erano, e prima della guerra non le avevo mai viste, ma le avevo sentite descrivere come luoghi impervi, desolati. Eppure, nella loro solida immagine avevo trovato quel punto di riferimento che mi era sempre mancato nella vita. Non mi avevano dato la luce, quelle terre che erano d’inverno una tomba di ghiaccio e d’estate un sepolcro di polvere, ma io vi appartenevo con tutto me stesso. E non avevo paura di morire in quel luogo, no, non ne avevo mai avuta fin dal primo istante, sebbene tutte le facce conosciute mi avessero abbandonato: inizialmente era il coraggio a sostenermi, ma successivamente furono i monti a farlo, quando la speranza era più flebile che mai.

 
*
 
Ora che la guerra è finita e sono sopravvissuto, mi ritrovo solo davanti a quest’immensa vallata che durante l’inverno era neve, ferro e sangue, e che ora è un’infinita distesa verde che si estende a perdita d’occhio. Sono trascorse le stagioni e le vicende umane, ma i monti sono ancora lì, con la loro indelebile maestosità, con la loro presenza rassicurante: io so che non posso vivere senza un punto di riferimento, senza le guglie di queste cattedrali che oggi paiono decorate a festa. Se sono appartenuto a questo luogo e ci appartengo tutt’ora, ci apparterrò per sempre.

Nessuno vide quell’uomo solitario gettarsi in una fenditura della roccia. Nessuno, tranne la montagna.





Note: 
- Il racconto è stato originariamente scritto per il concorso "La Montagna" indetto dalla sezione CAI della mia città, nel quale non ha ricevuto valutazione in seguito al numero troppo ridotto di partecipanti all'interno della mia categoria.
Per questo, ho trovato giusto condividerlo qui su EFP. 
Grazie a tutti per la lettura!
  
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