Davvero sto pubblicando questa storia? Davvero? Sono così emozionata. Spero tantissimo che possiate amarla.
Il palato è un infido bastardo, un emerito traditore. Il
palato, la lingua, i denti, la gola: dannati mostri, dannati
pugnalatori alle
spalle. Si ribellavano e lo torturavano intimamente, così
come i mormorii strascicati degli ubriachi fradici nelle bettole e nelle taverne, così come i
mugolii delle donne senza nome. Ogni cosa lo infastidiva, in quel mondo
costruito dalle mani sporche di sangue degli assassini falsi e cortesi, e le
verità crude degli uomini tormentati non facevano eccezione.
In fondo avrebbe
dovuto saperlo - e lo
sapeva, lo sapeva e non si era fermato, lui, folle,
folle! - che una volta assaggiato il vino più
pregiato dei Sette Regni la sua
bocca avrebbe detestato qualsiasi altra bevanda. Il suo istinto primordiale e il suo spirito di sopravvivenza avevano cercato di avvertirlo, di farglielo
comprendere, di fargli scorgere il destino inesorabile in cui ci
sarebbe stato
un prima e ci sarebbe stato naturalmente
un dopo.
Perché qualsiasi altro sapore
non sarebbe
mai stato il sapore di lei.
E nulla più sarebbe stato uguale, nulla
avrebbe più avuto un senso. Lo aveva realmente compreso soltanto dopo averla
baciata: era diventato impossibile anche soltanto guardare un’altra
donna.
L’aveva baciata una sola volta ed era stato come assaporare
la bocca di un
fottuto dono divino caduto giù dal cielo, baciare una
promessa di grazia e di
dannazione eterna. Una bocca inesperta, dolce,
innocente.
Sua, tutta sua.
La
ragazza, quello stecchetto con due gambe magroline e senza neanche una
forma di
donna, la bambolina dai rossi capelli, l’ammaestrato
uccellino di Approdo del
Re che pigola e cinguetta all’ombra della testa mozzata di
suo padre: lei,
stupida e viziata figlia della lunga Estate, si era lasciata baciare da
lui e
non lo aveva fermato, non lo aveva spintonato via. Folle lui e
folle lei. O
forse solo lui, o forse solo lei.
Chi era impazzito per primo, chi lo aveva
fatto? Chi era stato? Non ricordava il fottuto modo in cui si erano
svolte
quelle dannate vicende che lo avevano piegato in due, disintegrato.
Ammazzato
non una volta ma cento, mille, mille
e ancora mille.
Chi era impazzito per
primo? Chi? L’uccellino si era presentato da lui. Era comparso all’improvviso
in un corridoio del cortile dell’ala ovest - come un’apparizione
evanescente,
come il proprio peggior incubo - e aveva ripreso a
cinguettare le stesse
nauseanti e tormentanti frasi che astutamente rifilava a tutti i suoi
lord, a
tutti i suoi ser. Aveva cinguettato i suoi ringraziamenti, le belle parole che
usava strappare ai versi delle sue adorate ballate romantiche, che
soleva
rubare alle favole narrate con placido fervore dalle interminabili file
delle
sue septe vecchie e decrepite.
Aveva cinguettato e aveva cinguettato e aveva
cinguettato.
Non aveva ascoltato nessuna delle sue noiose frasi e neppure le
aveva prestato la minima attenzione, niente di niente.
Le divinità allora dovevano
aver deciso di punirlo e di deriderlo. Si erano prese la loro rivincita
su
tutte le sue bestemmie e su tutte le vite che lui aveva strappato con
gioia. La
luce del Sole aveva iniziato ad infiammare le lunghe trecce della
ragazzina,
trecce annodate in un groviglio cespuglioso, modellate in cerchi di
raggi
sanguigni che rendevano ridicola la sua acconciatura.
Un’acconciatura stupida
che lei si ostinava -
con il broncio, con le occhiatacce - a far intrecciare
alle sue mute serve dagli sguardi sempre bassi. Lui si era perso.
Il rosso era
diventato fuoco, si era trasformato in rame, si era sciolto in
vino. Una corona
di spine e di foglie autunnali. La bocca sottile di Sansa si era stesa
in un
breve e falso sorriso -
eppure cosa esisteva di realmente falso in lei? - e i
suoi occhi azzurri sfuggenti gli avevano ricordato la
realtà.
Ti vuole soltanto
usare. Tutti usano tutti.
Improvvisamente si era reso conto dell’entità dei
suoi sciocchi pensieri, si era destato dal torpore in cui il suo dolce
profumo
lo aveva indotto e aveva compreso di starsi comportando alla stregua di
un
bambino poco sveglio, di un adolescente inesperto - guardava i suoi capelli,
guardava le sue efelidi, e non si concentrava su quelle piccole tette sode e
sul suo ventre piatto e stretto - e allora aveva pensato
di dover rimediare, di
dover dimostrare a se stesso di essere un uomo.
Non l’uomo stolto che osservava
di nascosto le lacrime impigliate tra le ciglia di una bimba che
dormiva ancora
con le bambole, strette nel suo piccolo abbraccio, ma l’uomo
vero che scopava
le donne nei bordelli e che si liberava di tutti i suoi desideri
più
pruriginosi.
Non l’uomo che tremava di fronte allo sguardo di una bambina,
ma
l’uomo che le donne le fotteva veloce e impaziente, senza
neppure guardarle in
faccia, appagando i suoi bisogni e le sue morbose
necessità.
Questi pensieri
avevano annebbiato la sua mente fracida di immagini volgari, avevano
reso il
suo corpo ubriaco e smanioso.
Allora si era proteso verso di lei, quasi
barcollando, e aveva divorato la sua faccia. Bocca contro bocca, aveva
mangiato
le sue
Aveva un sapore buono la ragazzina,
qualcosa di dolce, di estremamente puro. Neve e miele insieme, che assurda
follia dei sensi.
Lei aveva serrato le labbra e le palpebre, ma non aveva fatto
niente altro. Non si era scostata dal suo tocco, dalle sue mani ruvide
che
avevano iniziato a scombinarle i capelli e a stringerle la gola
sottile.
Avevano mantenuto entrambi gli occhi chiusi e lui aveva pensato che lei
era
bella anche al buio delle lumiere spente e consumate, anche al nero
delle
ciglia abbassate, sotto il Sole o sotto la Luna.
L’aveva baciata con un bisogno
disturbante e la bocca di Sansa si era mossa sulla sua senza
schiudersi, senza
concedergli nulla di più. In quel momento un vento freddo si
era insinuato
lungo tutta la sua schiena, fino ad accarezzargli anche le vesciche
della
guancia deturpata.
Troppo tardi aveva compreso che non era stato un vento
freddo a placare i suoi bruciori.
Sansa, mia Sansa, il mio
uccelletto delle
Isole dell’Estate, il mio uccelletto spaventato.
Lei aveva accarezzato il suo
volto sfregiato e lo aveva baciato come una bambina che neppure riesce
a
immaginare che esista qualcos’altro dopo un bacio a fior di
labbra. Forse in
quel momento doveva aver detto il suo nome: Sansa, bambina mia, Sansa.
Che
ingenua e stupida, stupida!,
piccola donna.
Avrebbe potuto rivoltarla come un
logoro calzino, sollevare la sua gonna e possederla in un qualsiasi
angolo buio
del castello, stenderla sul pavimento e forzarla ad aprire le gambe per
lui.
Per lui, soltanto per lui. Prima
le ginocchia, poi le cosce, fino a divorarla
con mani e lingua, fino a fottersela tutta.
Quella creaturina che nemmeno conosceva i pensieri che animavano la mente degli uomini intorno a
lei, la
mente di tutti gli uomini animali esattamente come lui. Avrebbe potuto
farle di
tutto, qualsiasi cosa inimmaginabile e impronunciabile, e continuare a
divorarla per delle ore intere, -
anni e secoli, millenni e altri millenni -,
fino a soddisfare ogni sua necessità repressa e anche di
più.
Gustarla,
mangiarla, marchiarla in ogni punto possibile. Avrebbe potuto farle di tutto.
Ma Sansa aveva posato una mano sul suo cuore e altra neve era caduta
nel suo
petto, placando ogni suo dolore, ogni sua smania.
Stupida bambina mia,
stupida.
Sei buona. Sei pateticamente pura. Non riuscirai mai a sopravvivere in
questo
mondo, diventerai cibo donato ai cani e ai vermi. Altra carne morta
lasciata a
penzolare sulle picche di questo castello marcio e corrotto fin dalle
viscide
fondamenta. Un’altra testa staccata dal proprio corpo e
trasformata in un
trofeo da mostrare ai nemici.
Le immagini di queste sue elucubrazioni lo
avevano talmente tanto spaventato
- era timore? il bruciore alle pupille e alle
costole era timore di vederla morta o desiderio di uccidere o ancora
febbre di
possederla? - da spingerlo ad allontanarla dalle sue
braccia, dal suo ventre
proteso verso di lei.
Aveva soltanto intravisto labbra bagnate dalla saliva e
guance rosse, poi aveva iniziato a urlarle di andarsene.
‘Vattene via.
Vattene
via subito altrimenti te ne pentirai. Io te ne farò pentire,
te lo giuro. Ti
farò pentire di qualsiasi cosa tu abbia mai fatto o pensato
se non te ne andrai
adesso, subito, vattene. Vattene!’
Doveva averla insultata, oppure aveva
maledetto se stesso. Il resto non lo ricordava più ormai, era fuggito via dalla
sua testa e dai suoi occhi ad ogni nuova sorsata di vino. Scomparso ad ogni
fondo rosso di un vuoto boccale che aveva ingurgitato nel tentativo di
dimenticare i cerchi delle sue maledette trecce. Una nuova coppa di vino ad
ogni giro di ciocca rossa e poi una risata isterica ogni istante in cui
scorgeva gli occhi azzurri di quella dannata ragazzina in quelli
castani delle
prostitute che si sedevano accanto a lui.
“Sei strano, Mastino. Che ti succede
questa notte?”
Un pugno contro il tavolo ad ogni goccio di sapore annacquato,
ad ogni bicchiere di tutte quelle schifose bevande pagate con poche
monete di
bronzo.
Un sapore mediocre che gli faceva rimpiangere sapori migliori - il
sapore di lei.
“Innamorato? Tu?”
E un tonfo al cuore al passare di ogni
secondo, allo scoccare delle ore, al lento formarsi di una nebulosa
parete di
caos dentro di lui.
Miele, neve, dolce sale
di lacrime mai versate. Cosa gli
stava succedendo? Cosa stava accadendo nella sua testa, nel suo sterno,
tra le
sue gambe?
“Conosco una cura adatta a te. Adatta a qualsiasi
uomo.”
Lo toccò,
continuò a toccarlo, ma il suo corpo lo tradì
fino a costringerlo ad
allontanare con un grugnito quelle mani che già gli avevano
slacciato i
pantaloni, calato giù le brache. Non vedeva nulla, sentiva
tutto in maniera
ovattata. Dita che indugiavano sulle sue gambe, capelli neri pieni di
brillanti, un odore forte di aria consumata. Delle labbra che gli chiedevano di
lasciarle riprovare, di lasciare che lo toccassero.
“Non pensare a niente, farò
tutto io.”
La scostò, con più forza e
brutalità.
“Dov’è lei?”
Dov’è
Sansa?
Lui
l’aveva cacciata e lei se ne era andata,
Dov’è
Sansa? È lontana la ragazzina. Forse
è
irraggiungibile.
“Dov’è lei? Dimmelo. Dimmi
dov’è!”
Tentò di rivestirsi e un
conato di vomito lo costrinse a inginocchiarsi a terra, a gettare il
capo
contro il pavimento.
Sansa, bambina mia,
Sansa. Sansa, dove sei? Non sei
scappata, non hai pianto, non hai neanche abbassato la testa. Nulla,
nulla di
nulla. Mi hai soltanto guardato un secondo e poi te ne sei
andata. Te ne sei andata,
Sansa, te ne sei andata e adesso io ti rivoglio, io ti ho sempre
voluto, io non
respiro, torna da me.
Torna, stupida
ragazzina, torna subito qui. Un momento,
ho bisogno di toccarti, di baciarti, di averti, un altro momento
ancora. La mia
bambina, la mia mia mia bambina. Mia, mia, mia, sei sempre
stata mia. Smettila
di non guardarmi, io ho bisogno di stringerti e di
proteggerti.
Ti proteggerò
da chiunque, anche da me stesso se hai così tanta paura.
Anche io ne ho tanta.
“L’uccellino. Devo trovare, devo
trovare...”
Il mondo diventò oscuro e tinto di
rosso. C’erano risate intorno al suo corpo e qualcuno che
sghignazzava il suo
nome, alcuni che uggiolavano spaventosi lamenti e tantissimi altri che
continuavano a godere delle loro puttane e che non si interessavano di
niente
altro.
“Devo trovare...”
Lui l’aveva cercata. Non aveva saputo resisterle, non
aveva dormito neppure un minuto. Un’intera notte passata a
guardare il soffitto
e a pensare a lei, fino a soddisfare da solo il suo piacere, fino a
godere sibilando
ancora il suo nome. Di prima mattina si era recato nella sua stanza,
ubriaco di
strani sentimenti, e aveva trovato la porta aperta. Non sarebbe mai, - mai,
perché lo aveva fatto, perché? -
dovuto entrare in quella camera.
“Che cosa ho
fatto?”
Lei era in piedi e singhiozzava. Si era sentito morire e aveva compiuto
qualche passo incerto. I suoi occhi si erano mossi frenetici e avevano
intravisto le lenzuola sporche di sangue, l’abito macchiato
sulle cosce, le
mani che impugnavano un coltello. Non appena Sansa l’aveva
visto - che occhi
lucidi, che lacrime enormi su quel viso tanto piccolo -
aveva lasciato cadere
l’arma e aveva portato le dita rosse sulla labbra, come a
chiedergli di tacere.
L’odore di ferro non lo aveva mai disgustato, mai lo aveva
scosso, non fino a
quel momento. Le gambe della bambina avevano continuato a gocciolare e
a
formare macchie su macchie scivolose sul pavimento. Mai aveva odiato il
sangue
con una tale disperazione, mai aveva tentennato dinanzi ai suoi doveri,
mai
aveva pensato di sputare acido sulla sua più antica
lealtà.
Lei lo aveva
supplicato di aiutarla.
“Avrei dovuto... avrei dovuto...”
E lui l’aveva
tradita.
Vomitò fin quasi a svenire, fin quasi a soffocare nel suo
stesso
vomito. Le lacrime si mischiarono alle cicatrici del suo viso e le sue
braccia
all’improvviso cedettero. Avvertì delle mani sul
suo collo e delle labbra
vicino al suo orecchio. Sbatté di nuovo la testa contro il
pavimento e delle
voci roche pronunciarono altre volte il suo nome. Tentò di
sollevarsi carponi,
ma vomitò ancora, e poi ancora e un’altra volta
ancora. Lui non riusciva più a
smettere. Cercò di afferrare una veste, ma il mondo riprese
vorticosamente a
girare e lui si perse in immagini senza un senso. Prima di chiudere gli occhi
vide soltanto degli uccelletti rossi con il collo rotto e le ali
strappate.
Angolo
autrice.
Ciao! Questa è una mini-long di soli
due capitoli. Tranquilli il secondo capitolo è
già pronto. Quando preferite che io lo pubblichi? Doveva
essere una OneShot originariamente, poi oggi ho scoperto di aver
scritto più di seimila parole in questi tre mesi di lunga
gestazione e quindi... ho diviso. Grazie Harriet, per avermelo fatto
notare :)
Ma alla fine arriveranno i veri ringraziamenti. Intanto spero che possa
esservi piaciuto questo primo capitolo. Abbiate pietà,
è la mia prima SanSan! Giuro di amarli più di me
stessa e spero di aver reso loro onore. Grazie mille, per qualsiasi
dubbio o chiarimento sono qui :) Spero (anche) di conoscere la vostra
opinione in merito.
A presto!