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Autore: Cress Morlet    09/07/2019    29 recensioni
[Sandor/Sansa]
Le divinità allora dovevano aver deciso di punirlo e di deriderlo. Si erano prese la loro rivincita su tutte le sue bestemmie e su tutte le vite che lui aveva strappato con gioia. La luce del Sole aveva iniziato ad infiammare le lunghe trecce della ragazzina, trecce annodate in un groviglio cespuglioso, modellate in cerchi di raggi sanguigni che rendevano ridicola la sua acconciatura. Un’acconciatura stupida che lei si ostinava - con il broncio, con le occhiatacce - a far intrecciare alle sue mute serve dagli sguardi sempre bassi. Lui si era perso. Il rosso era diventato fuoco, si era trasformato in rame, si era sciolto in vino.
Una corona di spine e di foglie autunnali.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quare iam te cur amplius excrucies?

 Davvero sto pubblicando questa storia? Davvero? Sono così emozionata. Spero tantissimo che possiate amarla.







Il palato è un infido bastardo, un emerito traditore. Il palato, la lingua, i denti, la gola: dannati mostri, dannati pugnalatori alle spalle. Si ribellavano e lo torturavano intimamente, così come i mormorii strascicati degli ubriachi fradici nelle bettole e nelle taverne, così come i mugolii delle donne senza nome. Ogni cosa lo infastidiva, in quel mondo costruito dalle mani sporche di sangue degli assassini falsi e cortesi, e le verità crude degli uomini tormentati non facevano eccezione. In fondo avrebbe dovuto saperlo - e lo sapeva, lo sapeva e non si era fermato, lui, folle, folle! - che una volta assaggiato il vino più pregiato dei Sette Regni la sua bocca avrebbe detestato qualsiasi altra bevanda. Il suo istinto primordiale e il suo spirito di sopravvivenza avevano cercato di avvertirlo, di farglielo comprendere, di fargli scorgere il destino inesorabile in cui ci sarebbe stato un prima e ci sarebbe stato naturalmente un dopo. 
Perché qualsiasi altro sapore non
sarebbe mai stato il sapore di lei.
E nulla più sarebbe stato uguale, nulla avrebbe più avuto un senso. Lo aveva realmente compreso soltanto dopo averla baciata: era diventato impossibile anche soltanto guardare un’altra donna. 
L’aveva baciata una sola volta ed era stato come assaporare la bocca di un fottuto dono divino caduto giù dal cielo, baciare una promessa di grazia e di dannazione eterna. Una bocca inesperta, dolce, innocente. 
Sua, tutta sua.
La ragazza, quello stecchetto con due gambe magroline e senza neanche una forma di donna, la bambolina dai rossi capelli, l’ammaestrato uccellino di Approdo del Re che pigola e cinguetta all’ombra della testa mozzata di suo padre: lei, stupida e viziata figlia della lunga Estate, si era lasciata baciare da lui e non lo aveva fermato, non lo aveva spintonato via. Folle lui e folle lei. O forse solo lui, o forse solo lei
Chi era impazzito per primo, chi lo aveva fatto? Chi era stato? Non ricordava il fottuto modo in cui si erano svolte quelle dannate vicende che lo avevano piegato in due, disintegrato. Ammazzato non una volta ma cento, mille, mille e ancora mille
Chi era impazzito per primo? Chi? L’uccellino si era presentato da lui. Era comparso all’improvviso in un corridoio del cortile dell’ala ovest - come un’apparizione evanescente, come il proprio peggior incubo - e aveva ripreso a cinguettare le stesse nauseanti e tormentanti frasi che astutamente rifilava a tutti i suoi lord, a tutti i suoi ser. Aveva cinguettato i suoi ringraziamenti, le belle parole che usava strappare ai versi delle sue adorate ballate romantiche, che soleva rubare alle favole narrate con placido fervore dalle interminabili file delle sue septe vecchie e decrepite. 
Aveva cinguettato e aveva cinguettato e aveva cinguettato. 
Non aveva ascoltato nessuna delle sue noiose frasi e neppure le aveva prestato la minima attenzione, niente di niente. 
Le divinità allora dovevano aver deciso di punirlo e di deriderlo. Si erano prese la loro rivincita su tutte le sue bestemmie e su tutte le vite che lui aveva strappato con gioia. La luce del Sole aveva iniziato ad infiammare le lunghe trecce della ragazzina, trecce annodate in un groviglio cespuglioso, modellate in cerchi di raggi sanguigni che rendevano ridicola la sua acconciatura. Un’acconciatura stupida che lei si ostinava - con il broncio, con le occhiatacce - a far intrecciare alle sue mute serve dagli sguardi sempre bassi. Lui si era perso. Il rosso era diventato fuoco, si era trasformato in rame, si era sciolto in vino. Una corona di spine e di foglie autunnali. La bocca sottile di Sansa si era stesa in un breve e falso sorriso - eppure cosa esisteva di realmente falso in lei? - e i suoi occhi azzurri sfuggenti gli avevano ricordato la realtà. 
Ti vuole soltanto usare. Tutti usano tutti. 
Improvvisamente si era reso conto dell’entità dei suoi sciocchi pensieri, si era destato dal torpore in cui il suo dolce profumo lo aveva indotto e aveva compreso di starsi comportando alla stregua di un bambino poco sveglio, di un adolescente inesperto - guardava i suoi capelli, guardava le sue efelidi, e non si concentrava su quelle piccole tette sode e sul suo ventre piatto e stretto - e allora aveva pensato di dover rimediare, di dover dimostrare a se stesso di essere un uomo. 
Non l’uomo stolto che osservava di nascosto le lacrime impigliate tra le ciglia di una bimba che dormiva ancora con le bambole, strette nel suo piccolo abbraccio, ma l’uomo vero che scopava le donne nei bordelli e che si liberava di tutti i suoi desideri più pruriginosi. 
Non l’uomo che tremava di fronte allo sguardo di una bambina, ma l’uomo che le donne le fotteva veloce e impaziente, senza neppure guardarle in faccia, appagando i suoi bisogni e le sue morbose necessità. 
Questi pensieri avevano annebbiato la sua mente fracida di immagini volgari, avevano reso il suo corpo ubriaco e smanioso. 
Allora si era proteso verso di lei, quasi barcollando, e aveva divorato la sua faccia. Bocca contro bocca, aveva mangiato le sue bugie e il suo respiro. 
Aveva un sapore buono la ragazzina, qualcosa di dolce, di estremamente puro. Neve e miele insieme, che assurda follia dei sensi. 
Lei aveva serrato le labbra e le palpebre, ma non aveva fatto niente altro. Non si era scostata dal suo tocco, dalle sue mani ruvide che avevano iniziato a scombinarle i capelli e a stringerle la gola sottile. Avevano mantenuto entrambi gli occhi chiusi e lui aveva pensato che lei era bella anche al buio delle lumiere spente e consumate, anche al nero delle ciglia abbassate, sotto il Sole o sotto la Luna. 
L’aveva baciata con un bisogno disturbante e la bocca di Sansa si era mossa sulla sua senza schiudersi, senza concedergli nulla di più. In quel momento un vento freddo si era insinuato lungo tutta la sua schiena, fino ad accarezzargli anche le vesciche della guancia deturpata. 
Troppo tardi aveva compreso che non era stato un vento freddo a placare i suoi bruciori. 
Sansa, mia Sansa, il mio uccelletto delle Isole dell’Estate, il mio uccelletto spaventato. 
Lei aveva accarezzato il suo volto sfregiato e lo aveva baciato come una bambina che neppure riesce a immaginare che esista qualcos’altro dopo un bacio a fior di labbra. Forse in quel momento doveva aver detto il suo nome: Sansa, bambina mia, Sansa. 
Che ingenua e stupida, stupida!, piccola donna. 
Avrebbe potuto rivoltarla come un logoro calzino, sollevare la sua gonna e possederla in un qualsiasi angolo buio del castello, stenderla sul pavimento e forzarla ad aprire le gambe per lui. Per lui, soltanto per lui. Prima le ginocchia, poi le cosce, fino a divorarla con mani e lingua, fino a fottersela tutta. 
Quella creaturina che nemmeno conosceva i pensieri che animavano la mente degli uomini intorno a lei, la mente di tutti gli uomini animali esattamente come lui. Avrebbe potuto farle di tutto, qualsiasi cosa inimmaginabile e impronunciabile, e continuare a divorarla per delle ore intere, - anni e secoli, millenni e altri millenni -, fino a soddisfare ogni sua necessità repressa e anche di più. 
Gustarla, mangiarla, marchiarla in ogni punto possibile. Avrebbe potuto farle di tutto. 
Ma Sansa aveva posato una mano sul suo cuore e altra neve era caduta nel suo petto, placando ogni suo dolore, ogni sua smania. 
Stupida bambina mia, stupida. Sei buona. Sei pateticamente pura. Non riuscirai mai a sopravvivere in questo mondo, diventerai cibo donato ai cani e ai vermi. Altra carne morta lasciata a penzolare sulle picche di questo castello marcio e corrotto fin dalle viscide fondamenta. Un’altra testa staccata dal proprio corpo e trasformata in un trofeo da mostrare ai nemici. 
Le immagini di queste sue elucubrazioni lo avevano talmente tanto spaventato - era timore? il bruciore alle pupille e alle costole era timore di vederla morta o desiderio di uccidere o ancora febbre di possederla? - da spingerlo ad allontanarla dalle sue braccia, dal suo ventre proteso verso di lei. 
Aveva soltanto intravisto labbra bagnate dalla saliva e guance rosse, poi aveva iniziato a urlarle di andarsene. 
‘Vattene via. Vattene via subito altrimenti te ne pentirai. Io te ne farò pentire, te lo giuro. Ti farò pentire di qualsiasi cosa tu abbia mai fatto o pensato se non te ne andrai adesso, subito, vattene. Vattene!’ 
Doveva averla insultata, oppure aveva maledetto se stesso. Il resto non lo ricordava più ormai, era fuggito via dalla sua testa e dai suoi occhi ad ogni nuova sorsata di vino. Scomparso ad ogni fondo rosso di un vuoto boccale che aveva ingurgitato nel tentativo di dimenticare i cerchi delle sue maledette trecce. Una nuova coppa di vino ad ogni giro di ciocca rossa e poi una risata isterica ogni istante in cui scorgeva gli occhi azzurri di quella dannata ragazzina in quelli castani delle prostitute che si sedevano accanto a lui. 
“Sei strano, Mastino. Che ti succede questa notte?” 
Un pugno contro il tavolo ad ogni goccio di sapore annacquato, ad ogni bicchiere di tutte quelle schifose bevande pagate con poche monete di bronzo. 
Un sapore mediocre che gli faceva rimpiangere sapori migliori - il sapore di lei
“Innamorato? Tu?” 
E un tonfo al cuore al passare di ogni secondo, allo scoccare delle ore, al lento formarsi di una nebulosa parete di caos dentro di lui. 
Miele, neve, dolce sale di lacrime mai versate. Cosa gli stava succedendo? Cosa stava accadendo nella sua testa, nel suo sterno, tra le sue gambe? 
“Conosco una cura adatta a te. Adatta a qualsiasi uomo.” 
Lo toccò, continuò a toccarlo, ma il suo corpo lo tradì fino a costringerlo ad allontanare con un grugnito quelle mani che già gli avevano slacciato i pantaloni, calato giù le brache. Non vedeva nulla, sentiva tutto in maniera ovattata. Dita che indugiavano sulle sue gambe, capelli neri pieni di brillanti, un odore forte di aria consumata. Delle labbra che gli chiedevano di lasciarle riprovare, di lasciare che lo toccassero. 
“Non pensare a niente, farò tutto io.” 
La scostò, con più forza e brutalità. 
“Dov’è lei?” 
Dov’è Sansa? 
Lui l’aveva cacciata e lei se ne era andata, era volata via. 
Dov’è Sansa? È lontana la ragazzina. Forse è irraggiungibile. 
“Dov’è lei? Dimmelo. Dimmi dov’è!” 
Tentò di rivestirsi e un conato di vomito lo costrinse a inginocchiarsi a terra, a gettare il capo contro il pavimento. 
Sansa, bambina mia, Sansa. Sansa, dove sei? Non sei scappata, non hai pianto, non hai neanche abbassato la testa. Nulla, nulla di nulla. Mi hai soltanto guardato un secondo e poi te ne sei andata. Te ne sei andata, Sansa, te ne sei andata e adesso io ti rivoglio, io ti ho sempre voluto, io non respiro, torna da me. 
Torna, stupida ragazzina, torna subito qui. Un momento, ho bisogno di toccarti, di baciarti, di averti, un altro momento ancora. La mia bambina, la mia mia mia bambina. Mia, mia, mia, sei sempre stata mia. Smettila di non guardarmi, io ho bisogno di stringerti e di proteggerti. 
Ti proteggerò da chiunque, anche da me stesso se hai così tanta paura. Anche io ne ho tanta. 
“L’uccellino. Devo trovare, devo trovare...” 
Il mondo diventò oscuro e tinto di rosso. C’erano risate intorno al suo corpo e qualcuno che sghignazzava il suo nome, alcuni che uggiolavano spaventosi lamenti e tantissimi altri che continuavano a godere delle loro puttane e che non si interessavano di niente altro. 
“Devo trovare...” 
Lui l’aveva cercata. Non aveva saputo resisterle, non aveva dormito neppure un minuto. Un’intera notte passata a guardare il soffitto e a pensare a lei, fino a soddisfare da solo il suo piacere, fino a godere sibilando ancora il suo nome. Di prima mattina si era recato nella sua stanza, ubriaco di strani sentimenti, e aveva trovato la porta aperta. Non sarebbe mai, - mai, perché lo aveva fatto, perché? - dovuto entrare in quella camera. 
“Che cosa ho fatto?” 
Lei era in piedi e singhiozzava. Si era sentito morire e aveva compiuto qualche passo incerto. I suoi occhi si erano mossi frenetici e avevano intravisto le lenzuola sporche di sangue, l’abito macchiato sulle cosce, le mani che impugnavano un coltello. Non appena Sansa l’aveva visto - che occhi lucidi, che lacrime enormi su quel viso tanto piccolo - aveva lasciato cadere l’arma e aveva portato le dita rosse sulla labbra, come a chiedergli di tacere. 
L’odore di ferro non lo aveva mai disgustato, mai lo aveva scosso, non fino a quel momento. Le gambe della bambina avevano continuato a gocciolare e a formare macchie su macchie scivolose sul pavimento. Mai aveva odiato il sangue con una tale disperazione, mai aveva tentennato dinanzi ai suoi doveri, mai aveva pensato di sputare acido sulla sua più antica lealtà. 
Lei lo aveva supplicato di aiutarla. 
“Avrei dovuto... avrei dovuto...” 
E lui l’aveva tradita. 
Vomitò fin quasi a svenire, fin quasi a soffocare nel suo stesso vomito. Le lacrime si mischiarono alle cicatrici del suo viso e le sue braccia all’improvviso cedettero. Avvertì delle mani sul suo collo e delle labbra vicino al suo orecchio. Sbatté di nuovo la testa contro il pavimento e delle voci roche pronunciarono altre volte il suo nome. Tentò di sollevarsi carponi, ma vomitò ancora, e poi ancora e un’altra volta ancora. Lui non riusciva più a smettere. Cercò di afferrare una veste, ma il mondo riprese vorticosamente a girare e lui si perse in immagini senza un senso. Prima di chiudere gli occhi vide soltanto degli uccelletti rossi con il collo rotto e le ali strappate.







Angolo autrice.

Ciao! Questa è una mini-long di soli due capitoli. Tranquilli il secondo capitolo è già pronto. Quando preferite che io lo pubblichi? Doveva essere una OneShot originariamente, poi oggi ho scoperto di aver scritto più di seimila parole in questi tre mesi di lunga gestazione e quindi... ho diviso. Grazie Harriet, per avermelo fatto notare :)
Ma alla fine arriveranno i veri ringraziamenti. Intanto spero che possa esservi piaciuto questo primo capitolo. Abbiate pietà, è la mia prima SanSan! Giuro di amarli più di me stessa e spero di aver reso loro onore. Grazie mille, per qualsiasi dubbio o chiarimento sono qui :) Spero (anche) di conoscere la vostra opinione in merito.
A presto!

   
 
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