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Autore: Red Owl    12/07/2019    1 recensioni
C'è un viandante solitario che si trascina per le strade battute dal vento di una cittadina desolata, inondata dai raggi scarlatti del tramonto. Chi è? Perché viaggia da solo? E perché c'è tanto dolore nei suoi passi?
One-shot scritta per il concorso "Perle d'Inchiostro".
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Alexandria'
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Su Alexandria è calata una sera ruvida, quasi violenta nei suoi contrasti cromatici. Castore e Polluce, i soli gemelli che illuminano quella frazione di universo, sono bassi sull'orizzonte. I loro raggi morenti inondano il mondo di una luce scarlatta, simile al sangue e al fuoco, che delinea con nettezza i confini delle cose: li modella, li affila, li rende taglienti come la lama di un coltello.

Basta una raffica di vento più forte delle altre, però, perché l'atmosfera si faccia d'un tratto torbida e opaca. Sono ormai tre giorni che il Baleo spira ininterrottamente da ovest, raccogliendo grandi quantità di sabbia dorata nel Deserto dell'Eleos e scaraventandola poi sulle immense piane orientali. Alexandria è una delle prime roccaforti umane che il vento incontra sul suo cammino e la sabbia vi si abbatte con rabbia, graffiando impietosa gli imponenti edifici di pietra e vetro che gli uomini hanno eretto nel corso di pochi decenni.

A chi, immerso in quell'atmosfera amara, percorre le vie della città, i palazzi affusolati che costeggiano le strade sembrano nere torri di ossidiana, distorte e irregolari. A seconda dell'intensità del vento, i raggi del tramonto si riflettono in un baluginio fiammeggiante sulle finestre di un edificio, oppure vengono assorbiti dalle particelle minerali sospese nell'aria, lasciando che l'opera dell'uomo si perda in un turbinio confuso.

La città è quieta, immersa in un'immobilità innaturale. Le porte dei palazzi sono chiuse, le finestre serrate: non v'è pressoché nulla che indichi che quel luogo è abitato da esseri senzienti e non è invece soltanto la dimora della sabbia e del Baleo feroce. Solo di tanto in tanto si scorge il repentino scostarsi di una tendina e si intravede, ombra sfocata nel riflesso purpureo del cielo, l'impressione di un volto esangue, gli occhi sbarrati, la bocca socchiusa in un'esclamazione muta. Sono pochi, gli abitanti di Alexandria che trovano la voglia di trascinarsi fino alla finestra: quelli che lo fanno, però, sono tutti spinti dalla stessa ragione.

C'è qualcuno che cammina per la strada. Ne avvertono la presenza dai loro salotti, dai letti in cui sono coricati. Non è una sensazione che sanno definire con chiarezza, ma piuttosto un presentimento oscuro che impregna l'aria, qualcosa che solletica i loro sensi, spingendoli a scuotersi brevemente dal torpore delle loro stanze piene di penombra e a raggiungere una finestra che dà sulla via principale.

Chi mai può essere così folle da uscire allo scoperto con un tempo del genere? Non basta il male che è calato su di loro? È davvero necessario aggiungerne dell'altro, sfidando la tempesta di sabbia e andando in cerca di sciagure in quell'ambiente selvaggio e ostile?

I loro occhi spenti seguono apatici il viandante solitario, lo guardano trascinarsi lento, ma inarrestabile, lungo la strada deserta. Cammina al centro esatto della carreggiata, senza preoccuparsi di proteggersi dal vento e dagli sguardi di chi lo osserva dagli appartamenti bui. Si potrebbe pensare che si senta il padrone di quel luogo desolato, se non fosse per quell'incedere zoppicante, per l'aria di mesto abbandono con cui lascia cadere la testa e ciondolare le spalle. No, pensano gli abitanti di Alexandria che ancora riescono a reggersi in piedi: non è un conquistatore venuto da fuori, ma un disperato al par loro che forse la malattia ha privato del senno.

Egli, colui che cammina, non si cura di quei pensieri. Oh, non li ignora, ne è anzi profondamente consapevole, dal momento che essi hanno attraversato la sua mente più e più volte, turbinando vorticosi come il vento che spazza la strada, schiaffeggia le facciate degli edifici e stritola i lampioni, facendoli tremare e vibrare come se fossero fragili steli d'erba. Dopo lungo riflettere, ha compreso l'ineluttabilità del fato che l'attende; ergo cammina, prigioniero della trappola che egli stesso ha approntato, e attende la fine.

Mentre si trascina per le strade polverose e deserte, avverte che Alexandria è una città nata già morta: come un cadavere non ancora intaccato dal decadimento della materia, essa conserva intatte le sue arterie stradali, l'ossatura data dalla struttura geometrica e ordinata dei gruppi di edifici, i centri nevralgici delle centrali elettriche da cui gli uomini traggono l'energia che permette loro di sopravvivere tanto lontani da casa, ma la scintilla dell'anima non c'è più. O, meglio: non c'è mai stata.

Se fosse in grado di provare ironia o sarcasmo, penserebbe forse che vi sia un che di ironico nel fatto che la sua esistenza millenaria si concluderà proprio in quel luogo insignificante, simbolo della stirpe di invasori giunti da un altrove che non ha mai conosciuto. Da quando gli umani sono arrivati nel suo piccolo mondo, lui, il pellegrino, è mutato. Ha perso certe sue caratteristiche antiche e ne ha assunte di nuove: non può dirsi simile alle creature che lo spiano dal rifugio illusorio delle loro tane artificiali, ma non è nemmeno più qualcosa di completamente estraneo alla loro natura.

Quando passa accanto a un'enorme superficie riflettente, una vetrina specchiata che ancora custodisce dei mobili che gli umani avrebbero potuto comprare per arredare le loro case, il viandante si ferma per un istante. È quella, la forma che ora gli appartiene? Vede una figura curva, scheletrica, abiti scuri che coprono una nudità che lui non ha mai visto. Com'è il suo volto? Non riesce a scorgerlo. C'è un vecchio cappello polveroso, sopra al suo capo, e una sciarpa del colore della ruggine nasconde il suo viso, come per proteggere il naso e la bocca dalla sabbia portata dal vento. Perché ha assunto quella forma? Non la forma umana, ma chi ha scelto per lui quegli abiti - concetto che gli è estraneo? Perché quello scudo davanti agli organi che introducono l'ossigeno nel corpo? Lui ha avuto origine tra la sabbia e tra il vento, tra le antiche oasi paludose che brillano come gemme nel deserto occidentale, tra specie di piante che non esistono più da milioni di anni, tra piccole creature senza nome, pelose o coperte di scaglie, che guizzavano o strisciavano all'ombra di foglie spesse e ricche di venature. Il vento è suo amico e alleato. Non ha bisogno di alcuna sciarpa che lo protegga da esso, eppure è così che finirà: in quella forma che non riconosce e che non avrebbe mai dovuto assumere.

Anche se non è mai stato padrone di nulla, anche se per la maggior parte della sua esistenza non ha avuto nemmeno una vera consapevolezza di sé, ha sempre avvertito nella sua essenza più profonda di essere esattamente dov'era giusto che fosse. Ed è per questo che il suo operato è sempre stato il più giusto possibile, fino al momento in cui il suo cammino non si è incrociato con quello della razza umana. È stato lì, che qualcosa si è spezzato.

Spinto da passi che non ha scelto di muovere, trascinato da quel vento che gli ha fatto conoscere l'intero continente, il viaggiatore solitario abbandona la via principale, lasciandosi alle spalle gli sguardi offuscati delle persone che lo spiano da dietro le tende dei loro appartamenti. Quando sparisce dalla loro vista, gli abitanti di Alexandria sentono che la tensione che li ha spinti fino alle loro finestre svanisce, lasciandoli di nuovo preda della consueta spossatezza. E allora risucchiano respiri rantolanti che hanno il gusto ferruginoso del sangue, gemono per i dolori alle giunture, si aggrappano ai tavoli, fiaccati dalla febbre, e infine fanno ritorno ai loro giacigli con l'impressione di aver quasi toccato con mano il cuore pulsante del male che li ha colpiti. Sentono inspiegabilmente di essersi trovati di fronte la chiave del l'enigma, senza essere però riusciti ad afferrarla.

Colui che cammina si trova adesso in un vicolo nascosto tra due edifici mastodontici. È una stradicciola posta perpendicolarmente rispetto alla via principale ed è protetta dal soffio costante del vento: il Baleo urla all'imbocco, ma non riesce a entrarvi. Il silenzio è pressoché assoluto, lì, e il viaggiatore si ferma un istante, quasi frastornato.

È grazie a quel silenzio che sente un frusciare diverso, assai più lieve di quello del vento, un suono simile al tramestio di una bestiola che scava tra la sabbia e i rami alla ricerca di cibo. Questa, di bestiola, sembra frugare tra i rifiuti della città, perché il viandante ode un grattare metallico, come di unghie che raspano contro la fiancata di uno di quei bidoni in cui gli umani gettano ciò che non usano più.

Non è il vento a farlo muovere, ora, ma un istinto antico, una specie di curiosità che gli è raramente capitato di provare. Con passo incerto, con un piede che avanza zoppicando e con l'altro che striscia sul terreno, il pellegrino si avvicina alla fonte del rumore e vede che è davvero un animaletto, quello che lo sta producendo.

È piccolo, un mucchietto di ossa rattrappite tenute insieme da una pelle sottile e glabra che forse un tempo era stata del colore dell'ambra, ma che ora è stata resa grigia dalla sporcizia e dalla malattia. È un cucciolo d'uomo, deve avere cinque o sei anni al massimo. Colui che cammina vede che non gli resta molto da vivere: non solo perché i segni del morbo che ha devastato la città sono evidenti sul suo volto - il sangue rappreso sotto al naso e sui lobi delle orecchie, il respiro sibilante, il sudore che gli imperla la fronte - ma anche perché il suo corpo fragile è visibilmente fiaccato dai morsi della fame e della sete. Quel bambino è orfano, i suoi genitori devono essere morti già da diversi giorni. È solo al mondo: è per questo che si trova lì, in mezzo a una strada simile a una fogna. Non c'è nessuno che l'abbia obbligato a rimanere in casa.

Il viaggiatore lo guarda, lo osserva, lo giudica: è stato lui a ridurlo così e adesso soppesa la propria opera, cercandovi un difetto, un dettaglio che lo aiuti a capire perché la fine di quel bambino coinciderà con la sua.

Il piccolo uomo si accorge di della sua presenza e smette di scavare all'interno del bidone ormai vuoto. Alza su di lui i suoi occhi enormi, troppo grandi per quel volto scarno, così neri che sembra che abbiano inghiottito la notte. Lo guarda, e lo riconosce. Egli, colui che cammina, un virus che ha vissuto su quel piccolo pianeta per mille e mille secoli, un essere senza forma che ne ha assunta una solo nella mente della stirpe aliena giunta in quella terra da poche decine di anni, punta i suoi occhi acquosi e iniettati di sangue in quelli di tenebra della creaturina aliena.

Per quanto fragile e delicato, quel cucciolo non è più debole dei piccoli roditori dalla pelliccia dorata che ha abitato fino a pochi decenni prima. Sin dalla sua origine, l'esistenza del pellegrino è stata appesa a un filo. La sua natura fluida e multiforme - o forse del tutto priva di forma - non gli ha mai permesso di sopravvivere in autonomia: ha sempre avuto bisogno di un ospite da abitare, qualcuno o qualcosa a cui sottrarre non solo l'energia, ma anche l'essenza stessa della vita. Si è sempre dovuto accontentare di creature effimere, la cui esistenza durava quanto un soffio di vento, perché, per qualche motivo, gli esseri più grandi e forti gli resistevano e non gli permettevano di adattarsi al loro organismo. Poi erano arrivati gli esseri umani.

Negli occhi cupi del bambino si accende una luce improvvisa e il viaggiatore si chiede quanto capisca veramente quella bestiolina aliena, fin dove arrivi la sua consapevolezza. È uno scintillio quasi crudele, quello che vede in quelle iridi scure, bruciante come un grido di trionfo. Oh, il bambino morirà, così come sono morti o moriranno presto tutti i suoi simili che vivono in quella città. Così come sono morti i piccoli roditori dorati, uccisi non dal viandante, ma dagli uomini, che li hanno sterminati quando si sono resi conto che quegli ospiti indesiderati avevano portato ad Alexandria lui, colui che cammina. Il virus li ha conquistati con facilità, perché quegli invasori giunti dallo spazio non avevano difese contro di lui. C'era stato un istante, durante i primi mesi del contagio, in cui aveva creduto che quella razza aliena fosse una benedizione, l'occasione per emanciparsi da una vita di polvere e sabbia e innalzarsi verso un'esistenza più sicura e confortevole.

Poi gli uomini avevano iniziato a morire. Anche i roditori morivano, ma per uno che soccombeva, altri dieci ne nascevano e lui, il pellegrino, aveva sempre nuove creature a cui aggrapparsi. Gli umani l'avevano colto di sorpresa. Non sostituivano i morti con nuovi nati e i loro cuccioli - quei pochi che c'erano - crescevano troppo, troppo lentamente. E si mischiavano l'uno all'altro, mangiavano e lavoravano insieme, si radunavano in piccoli locali affollati. Nel giro di due mesi, il viandante aveva conosciuto ognuno di loro. Nel giro di altri due mesi, i piccoli roditori dorati erano stati sterminati dal primo all'ultimo. Altri due mesi, e metà della popolazione di Alexandria era morta. Prima del volgere dell'anno, l'ultimo umano della città chiuderà per sempre gli occhi e scomparirà da quella terra; e lo stesso farà lui, il pellegrino. Perché non c'è più nessuno che possa portarlo fuori, lontano da lì: gli uomini hanno scavato e ucciso, costruito e sterilizzato. Si sono asserragliati nelle loro tane di vetro e pietra e non ne sono più usciti. Hanno eliminato dai confini della città ogni forma vivente, così che il virus che li ha uccisi non possa propagarsi oltre. Se quella città triste sarà la loro tomba, lì giacerà per sempre anche colui che cammina.

E il bambino rannicchiato tra la polvere e i rifiuti lo sa. Sotto lo sguardo attento del viaggiatore solitario, le labbra del cucciolo d'uomo, secche e spaccate e sporche di sangue, si piegano in un ghigno di dolore e vittoria. I suoi occhi neri, troppo grandi e troppo profondi, si accendono della luce di una risata senza gioia: il bambino ride e con lui ride tutta la sua stirpe di invasori, celebrando il sacrificio di pochi in favore della salvezza di molti. 

Colui che cammina incespica, piegato dal peso del preveggenza, perché vede che la terra che ha sempre chiamato sua presto apparterrà a quella razza infida e ingannevole. Quando lui non ci sarà più, quando Alexandria sarà del tutto disabitata, altri uomini verranno dal cielo per sostituire i morti. Altri sono già arrivati, avvolti in bianchi scudi artificiali, protetti da maschere mostruose e impenetrabili: il vento gli ha detto che non si avvicineranno alla città fino a quando non sarà tutto finito. Assisteranno impassibili alla morte dei loro simili e poi ne reclameranno il territorio, riprendendo la loro opera di conquista lì dove l'avevano interrotta i loro predecessori.

Poi il bambino si fa serio e torna a dedicarsi al bidone vuoto, riprendendo a raschiarne il fondo alla ricerca di frammenti di cibo. Sembra perdere ogni interesse nei confronti del viaggiatore, e allora anche lui, il pellegrino, indietreggia. Del resto, il piccolo alieno ha ragione: non ha senso affannarsi per comprendere e cercare di cambiare qualcosa che non può comunque essere essere cambiato.

Con un ultimo sguardo vacuo a quel cucciolo pieno di polvere, il viaggiatore riprende il suo vagare, muovendosi su gambe che sembrano non avere più forza verso una meta che ancora non conosce, ma che di certo sarà l'ultima che raggiungerà nella sua lunga esistenza.

Fuori, nelle strade di Alexandria e nelle immensità dei cieli delle piane orientali, il vento continua a soffiare.



   
 
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