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Autore: RedCrimson    13/07/2019    0 recensioni
A Giò non interessava la magia. Certo, non le sarebbe dispiaciuto conoscere qualche incantesimo, avere una bella bacchetta fatta di un qualche legno pregiato da agitare con grazia in aria, biascicando qualcosa, e puf! Ricci perfetti e look impeccabile. Ecco, se proprio doveva andarsi a incasinare la vita con la magia che almeno le insegnassero trucchetti utili, pratici e pure di stile. O che almeno potesse avere un animaletto carino e intelligente come mascotte, un bel micino tenerino! Ma anche un criceto sarebbe andato bene o, chessò, una tartaruga! Perché proprio un cellulare uscito dagli anni '90 le doveva capitare? Farsi vedere con quel coso in mano era imbarazzante...
Storiella non troppo lunga e leggera, genere più sul comico e fantastico che fantasy.
Genere: Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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cap 1
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CAPITOLO I:

I Cellulari sono Arnesi del Demonio


Addio.
È la fine.
Di già.
E dire che ho appena cominciato...
«Ma che fai!»
Un promettente futuro stroncato così, che tristezza. Per uno stupido errore che neppure ho commesso io.
«Muoviti!!»
Oppure no, non deve per forza finire così! Potrei lottare! O scappare! Sì, decisamente meglio... correre via senza guardarmi indietro. Sfrecciare lungo il corridoio, tutto dritto, poi giù per le scale e continuare a correre a perdifiato... fino a sputare un polmone. E accasciarmi a terra. E morire agonizzante a seguito di un infarto.
Tutto sommato, stare fermi qui non sembra una così brutta idea. Certo, c’è il rischio che mi strappi le budella, ma vuoi mettere la fatica risparmiata? Sarebbe una morte decisamente più dignitosa. Più sangue, meno sudore.
«Dai, vieni!!»
Purtroppo, questa alternativa non mi è possibile. Mi tocca correre e seguirlo, visto che non sembra aver alcuna intenzione di mollarmi il braccio. Se non rallenta finirò per inciampare e atterrare di faccia (con la fortuna che ho e la mia innata coordinazione è alquanto probabile). Ma se rallenta la bestia ci prenderà e non ci resterà altro che sperare di perdere conoscenza il prima possibile.
«Ma vuoi correre?!?! Non ti posso trascinare anche giù per le scale!»
Io sto correndo,idiota! Glielo vorrei urlare, ma dubito sia in grado di emettere qualcosa di diverso da dei rantoli in questo momento.
In qualche modo riesco a scendere i gradini senza ruzzolare ed ecco la salvezza: una robusta porta di legno. Aperta, ovviamente. Se fosse stata chiusa tanto vale gettarsi a terra e tentare la tecnica dell’opossum (che non avrebbe comunque funzionato, anche se ci credesse morti si concederebbe di certo il piacere di devastare i nostri corpi).
Ci fondiamo dentro la stanza serrando subito la porta. Lui gira la chiave dentro la toppa mentre io mi lascio cadere mettendomi a sedere. L’infarto sembra scongiurato ma ho il respiro di una vecchia che ha passato gli ultimi cinquant’anni a fumare un pacchetto di sigarette al giorno. Quanto mi fa schifo correre. Non ho più il fisico per queste cose, non ce l’ho mai avuto.
Su su, dai, inspira, espira. Ecco così, prendi l’aria dal naso e falla uscire dalla bocca. Inspira, espira, inspira...
«Ehi,Giò, non mi sembra un buon momento per addormentarsi!»
«Sto cercando di respirare e calmarmi!»
Il tentativo è ovviamente fallito. Complice il fatto che riesco a sentire distintamente dei passi rimbombare lungo le scale. Ormai ci ha quasi raggiunti, e non sono sicura che basterà un pezzo di legno, per quanto solido, a farla desistere dal dilaniarci.
«Senti, mi dispiace...» blatera lui appoggiato contro la porta «Ecco, vedi, io non immaginavo… Cioè, ero curioso, non pensavo che…»
«Zitto.»
I suoi occhioni celesti si fanno ancora più mortificati. Se non ci pensa il mostro là fuori, giuro che ci penso io a cavarglieli.
«Ok, in parte è sicuramente colpa mia, però anche tu hai fatto un bel casino!»
«Ho detto zitto!»
Forse glieli strappo adesso, un’ultima soddisfazione prima di morire.
Lo vedo scattare come una molla lasciandosi sfuggire un urletto, ma dubito sia stato il mio sguardo minaccioso a spaventarlo. Più verosimilmente devono essere stati i colpi che stanno scuotendo la porta.
Ecco, come immaginavo, non basta di certo una porta chiusa a placare la sua sete di sangue. Sa che siamo qui dentro, riesce a fiutare la nostra paura, e non si fermerà finché non avrà banchettato con le nostre carni.
Mi rimetto in piedi e mi guardo attorno: zero vie di fuga. Oddio, anche se ce ne fossero, dubito che riuscirei a scappare da una finestra, le mie abilità atletiche sono più simili a quelle dell’orso Yoghi che a quelle di Lara Croft.
Sento di nuovo la sua mano sul mio braccio, questa volta non lo fa per strattonarmi, è un gesto di conforto.
«Che facciamo?»
Non ne ho idea. Magari se iniziassimo a invocare pietà, casomai autoflagellandoci, si accontenterebbe di qualche osso rotto...
I cardini scricchiolano, il legno vibra ma fortunatamente la porta non cede. Per il momento.
Ma come cavolo ho fatto a ficcarmi in questa situazione?
«Ehm,ragazzi, ottima mossa quella di chiudersi dentro a una stanza senza finestre e con una sola porta. Complimenti!»
Ecco come ho fatto, dando ascolto a questo maledetto aggeggio!
«Ti prego, dimmi che hai un suggerimento!»
«Dici che c’è un frigo ben fornito qui dentro?»
«Ne dubito» interviene l’altro retrocedendo di un altro passo dalla porta.
«Allora vi conviene scegliere quale braccio volete sacrificare, forse un po’ di carne fresca potrebbe calmarla.»
Molto utile. Stupido sarcastico strumento infernale.
«Ma non è mica una tigre affamata!»
Forse sarebbe stato meglio.
Ma come diavolo è successo...
Avevo una vita così tranquilla. Ordinaria.
Forse un po’ monotona ma di certo non c’era il rischio di venire rincorsi all’improvviso da esseri idrofobi.
Tutta colpa di quell’affare. Avevo capito fin da subito che mi avrebbe portato solo dei problemi, già dalla prima volta che l’ho visto. Giovedì, solo tre giorni fa. Quando quel coso è suonato nel momento meno opportuno…




Giovedì 11 febbraio 2016, ore 10:11
Cimitero Comunale di Solignano, Parma


«Fratelli e sorelle, siamo oggi qui riuniti per…»
Tono lento e solenne per parole altrettanto solenni, che però vennero interrotte da un suono che di solenne aveva ben poco: una fastidiosa suoneria di un cellulare.
Melodia monofonica, con note un po’ troppo acute, alquanto irritante. Senza poi considerare il contesto.
L’anziano prete interruppe l’orazione e scrutò il piccolo gruppo di persone sedute di fronte a lui con uno sguardo carico di disapprovazione poi, schiarendosi la gola con un colpo di tosse, riprese a parlare con più enfasi.
«Siamo qui riuniti per dare l’ultimo saluto alla cara Marcella Corvetti che ci ha lasciati lunedì all’età di ottantasette anni…»
Il cellulare ignoto, però, continuava imperterrito a diffondere il suo irrispettoso motivetto e un lieve chiacchiericcio si sparse lungo tutta la fila di sedie.
«Fratelli cari,» richiamò i fedeli il prete con tono vagamente seccato «in rispetto della memoria della qui defunta signora Corvetti, chiederei a tutti di spegnere i propri telefonini e di rimanere in silenzio.»
Che razza di persona non mette in silenzioso il cellulare durante un funerale? Povera signora Corvetti, costretta a riceve l’ultimo saluto con in sottofondo la musichina “Nokia Tune”.
Era una vecchietta così arzilla e solare. Fuori come un balcone, senza dubbio, ma estremamente gentile. Mi sarebbe mancato fare la spesa per lei ed aiutarla a cucinare. Mi sarebbero mancati anche i cinquanta euro che mi dava ogni fine settimana per farle le faccende di casa. Ah, chissà se avrei mai avuto un’altra vicina buona come lei! Era come la nonna che non avevo mai conosciuto… Accidenti, ma perché non si decidevano a spegnere quel cellulare?? La fu Nonna Marcella meritava un po’ più di rispetto!
«Giò, non mi dire che è il tuo cellulare che suona!» bisbigliò mamma, guardandomi con occhi fiammeggianti «Spegnilo subito
Era impazzita? Non avrei mai messo una suoneria così retrò!
«No, non è mio!»
«La musica viene dalla tua borsa!»
Era vero, quel suono fastidioso sembrava proprio avere origine all’interno della mia borsa nera.
Come fosse possibile non ne avevo idea.  
Fui tentata di lanciare la borsa il più lontano possibile da me, ma questo avrebbe solo peggiorato la situazione, così mi alzai dalla sedia e mi allontanai il più velocemente possibile sotto lo sguardo indignato di tutti i presenti. Che vergogna. Avevo voglia di farmi spazio nella bara della signora Marcella e farmi sotterrare anch’io.  
Dopo aver camminato per circa una ventina di metri verso la zona più isolata del cimitero, la musichetta si fermò. Aprii la borsa ed estrassi con cautela l’oggetto incriminato: un cellulare obsoleto dalla strana marca. Dall’aspetto sembrava far parte della vecchia serie dei Nokia e anche la suoneria sembrava confermare tale ipotesi, eppure, sopra il piccolo schermo, vi era inciso in stampatello non il nome della multinazionale finlandese bensì “MAKIA”.
Non era la prima volta che vedevo quel pezzo di antiquariato. Lo avevo trovato la settimana scorsa mentre pulivo l’appartamento della signora Corvetti. Visto che era scarico le avevo chiesto se lo dovessi mettere in carica ma lei mi aveva risposto di lasciare stare, intanto non lo aveva mai usato e non sapeva che farsene.
“Solo voi giovani sapete usare quella specie di arnese del demonio!” mi aveva detto dalla sua poltrona, intenta a leggere una rivista che teneva a un palmo dal naso. E anche così dubitavo riuscisse a distinguere qualche lettera. “Prendilo pure tu, figliola. Sarà più utile a te che a questa vecchia decrepita!”
Ecco svelato il mistero del perché avessi quello strano cellulare: lo avevo preso e messo in carica (anche se non ricordavo di averlo infilato in borsa), era stato uno dei tanti regali che la generosa vecchietta mi aveva fatto. Probabilmente non uno dei migliori, avrei apprezzato molto di più una delle sue crostate fatte in casa che quel reperto... Oppure dei biscotti, i suoi biscotti con zenzero e cannella erano fantastici, per non parlare di quelli con mandorle e cioccolato! La vita non sarebbe stata più la stessa senza quei biscotti... Certo, la mia linea ne avrebbe giovato, ma ritrovarmi al pomeriggio a sorseggiare una tazza di tè senza quei deliziosi manicaretti... mi avrebbe lasciato un sapore amaro e ipocalorico in bocca. Il sapore della tristezza.
Naturalmente mi sarebbe mancata anche la compagnia della vecchietta. Ogni volta che le preparavo del tè, prima di prendere la tazza tra le mani, mi dava un piccolo pizzicotto sulla guancia e mi faceva dei complimenti.
Anche la sera in cui è morta l’aveva fatto.   
“Adoro le tue guancione con le lentiggini! Ti voglio tanto bene, bambina mia!” mi aveva detto poco prima che uscissi dal suo appartamento. Ecco, quelle erano state proprio le sue ultime parole. Era molto carina come frase, chissà se me l’aveva detta perché sapeva che sarebbe morta nel giro di qualche ora, forse se lo sentiva.
L’aveva trovata mamma la mattina dopo. Era salita per portarle la posta e, visto che la porta dell’appartamento non era chiusa a chiave, era entrata. Mi aveva raccontato che la signora Corvetti era seduta in soggiorno, sulla sua poltrona, con un piccolo specchietto in grembo e la testa rovesciata sullo schienale. Le era sembrato tutto normale finché non l’aveva vista per bene in faccia, cosa che per poco non fece morire di paura la povera mamma. I corti capelli, solitamente lisci e candidi, erano stati arricciati e tinti metà blu e metà arancioni mentre il viso era ricoperto di un compatto strato di cerone bianco, con il naso tinto di rosso così come la bocca, su cui era stato tracciato un sorriso che arrivava quasi fino alle orecchie. Il dottore disse che doveva essere morta soffocata dalle sue stesse risate.
Eh, nonna Marcella era buona e gentile ma probabilmente non ci stava più tanto con la testa.
All’improvviso il telefono riprese a squillare, facendomi quasi perdere la presa per lo spavento.
Sullo schermo non appariva alcun numero, vi era soltanto il simbolo di una cornetta che oscillava.
Premetti il tasto di chiamata.
«Pronto?»
«Oh, finalmente!» esclamò una nitida voce maschile «Ce ne hai messo di tempo per rispondere, ragazzina!»
Dal timbro della voce non sembrava essere troppo giovane, poteva trattarsi di un uomo tra i trenta e i sessant’anni. Non mi veniva in mente nessuno a cui potesse appartenere.
«Mi scusi, con chi sto parlando?».
«Mi chiamo Machiavelli.»
Machiavelli? Come lo scrittore? Probabilmente se avessi conosciuto qualcuno con quel cognome me lo sarei ricordato.
«Mi spiace, signor Machiavelli, ma credo lei abbia sbagliato numero…»
«No, no, guarda che Machiavelli è il mio nome! Non il cognome!»
«Ah.»
Sicuramente se avessi conosciuto qualcuno con quel nome me lo sarei ricordato.
E io che mi lamentavo del mio…
«Allora, è già schiattata la vecchia?»
«Come, prego?»
«Ma sì, la vecchietta rimbambita!» continuò a parlare l’uomo lasciandomi sempre più allibita «Se ero nella tua borsa deve aver per forza tirato le cuoia!»
«Ma chi è lei??!»
Ora capivo perché nonna Marcella diceva che il cellulare era un arnese del demonio. Doveva essere colpa di quel pazzo che aveva il suo numero.
«Ti ho già detto come mi chiamo! Cos’è, sei un po’ ottusa anche tu, Giò?»
«Come sa il mio nome??»
Mi sforzai di mantenere il sangue freddo. Un pazzo sconosciuto mi aveva appena chiamata per nome ma ci doveva essere un’altra spiegazione logica oltre all’ipotesi di uno stalker psicopatico che mi spiava da mesi e che forse mi stava osservando anche in quel preciso istante… Forse si trattava solo di un amico burlone della signora Corvetti ed era stata proprio lei a parlargli di me…
«Beh, è semplice. È da più di un anno che entri ed esci dall’appartamento della vecchia, è normale che conosca il…»
Attaccai. La conversazione si stava facendo troppo inquietante per i miei gusti. Forse era il caso di liberarsi di quel telefono…
«Ehi! Hai cercato di zittirmi??»
Frenando l’impulso di urlare e lanciare il cellulare, spinsi ancora il tasto per chiudere la chiamata. Ero più che sicura di averlo già fatto un secondo prima ma forse non avevo pigiato bene, poi quel cellulare sembrava piuttosto vecchio…
«Guarda che è inutile che cerchi di chiudere la chiamata, io parlo lo stesso!»
No, non era possibile… Provai a cambiare tasto, spostando il pollice sopra quello di accensione/spegnimento.
«Inutile provare a spegnermi, solo io posso decidere quando stare zitto!»
Ci provai lo stesso ma non funzionò. Mi venne in mente che, fin da quando lo avevo trovato nella borsa, quel cellulare doveva essere spento… e allora come diavolo aveva fatto a squillare durante il funerale??
Forse quel giovedì mattina avrei fatto meglio a sbarazzarmi di quell’aggeggio buttandolo in una fossa che non era stata ancora riempita ma, invece, me lo portai all’orecchio.
«Chi sei?»
«Te lo ripeto un’altra volta ma tu vedi di aprire bene le orecchie e accendere i neuroni!» disse la voce maschile in tono seccato «Piacere, mi chiamo Machiavelli. Machia per gli amici.»
«Machia…?»
Quel nome mi diceva qualcosa…
«Beh, è un po’ presto per definirci “amici” ma, visto che ho iniziato io a chiamarti Giò, ti posso concedere di chiamarmi Machia.»
La soluzione di quell’enigma era così semplice da non accorgermi di averla proprio sotto il naso: “MAKIA”
«Senti, questo telefono è tuo, vero? C’è il tuo nome sopra.»
«Ma tu hai dei pesci rossi che nuotano dentro al cranio o cosa??!» mi urlò l’uomo nell’orecchio «Il telefono non è mio! IO SONO IL TELEFONO!!»
Sì, avrei decisamente dovuto sbarazzarmene.







Note dell’autrice: Buondì a tutti! Vi lascio giusto giusto un piccolo appunto su questa storiella (che non dovrebbe superare i nove/dieci capitoli rigorosamente non troppo lunghi, promesso). Qualche anno fa bazzicavo sul forum di EFP e avevo adocchiato qualche contest. Mi iscrissi a tre o quattro e con altri mi sono limitata ad osservarli curiosa e a buttare giù idee. Ovviamente non ne portai a termine nemmeno uno (dai no, uno sì, giusto una cosa che non supera le 500 parole). Però le idee (e pure qualche cosa di scritto!) sono rimaste, così ho deciso di andarle a rispolverare, rattopparle e infiocchettarle per bene. Ecco la prima, nata dal contest del 2016 o 2017 sul tema “maghette” (o almeno mi pare che di quello si trattasse). A presto (si spera entro la prossima settimana), RedCrimson.  
  
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