Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: mystery_koopa    14/07/2019    14 recensioni
Lo Zar Ivan VI di Russia, deposto dal trono dopo pochi mesi di regno all'età di poco più di un anno, ha vissuto come prigioniero per l'intera durata della sua vita, tanto da non riuscire a capacitarsi di essere davvero stato il sovrano del "Paese dell'eterno inverno" in cui ha trascorso i suoi giorni: nella sua vita, infatti, non c'è mai stata un'estate.
La notte del 16 luglio 1764, la libertà pare essere più vicina che mai...
Dedicata a meiousetsuna.
✠ Quarta classificata al contest "A zonzo nel tempo!" indetto da _Vintage_ sul Forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Periodo Zarista
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

IL PAESE DELL’ETERNO INVERNO
 
 
Fuori dalla finestra la luce della luna illuminava le increspature del lago Ladoga, mentre la fresca brezza tipica della breve estate russa faceva oscillare i rami degli alberi posti sulle sue sponde.
Ma quando Ivan, sollevando lo sguardo dalla lettura della Bibbia, si ritrovò a osservare il paesaggio circostante la fortezza di Šlissel'burg, vide tutt’altro. Vide la neve cadere dal cielo, lenta ma implacabile: essa raggiungeva il terreno gelato, le rive ghiaiose e la lastra di ghiaccio che ricopriva la superficie del lago, e lì si depositava, ricoprendo ogni cosa.

Il giovane sentì un brivido di freddo e si strinse nella coperta che portava sulle spalle: davvero aveva governato sul Paese dell’eterno inverno, un tempo, e avrebbe ripreso il suo posto come gli aveva detto il sottotenente Mirovič?

Gli sembrava impossibile: aveva sempre vissuto rinchiuso e da anni era solo, sottoposto a una serie di ordini rigidi da parte dei comandanti di tutte le fortezze in cui era stato trasferito. Tra loro il colonnello Berednikov, che da qualche tempo era giunto a Šlissel’burg per conto della nuova regnante di quelle terre, che i soldati chiamavano Caterina come la moglie del primo zar, era solamente l’ultimo. Ivan l’aveva visto solamente una volta, al suo arrivo, in una delle rare giornate in cui le tormente di neve non sferzavano la campagna ma una fitta nebbia aleggiava sulle gelide rive del lago; successivamente, il nuovo comandante della fortezza aveva nominato il luogotenente Chekin come capo delle guardie che lo controllavano giorno e notte, e non era più entrato nella torre della fortezza in cui il prigioniero si ritrovava recluso.

Ogni giorno, le guardie di Chekin lo svegliavano violentemente, scaraventandolo con forza sul pavimento nonostante il giovane non opponesse resistenza; gliel’aveva insegnato sua madre, cercando di proteggerlo dai continui soprusi che fin dall’infanzia gli venivano rivolti. “Falso zar! Impostore!”, lo chiamavano, cercando di distruggerlo anche interiormente.
Ma Ivan non li ascoltava, non l’aveva mai fatto: come poteva essere lui un re, proprio lui che non aveva mai visto nulla del mondo, che gli era celato persino durante gli spostamenti da sbarre e pesanti tende sui finestrini delle carrozze?

Veniva poi trascinato nel cortile e costretto a lavorare la terra ghiacciata dal clima rigido, sulla quale nulla sarebbe mai potuto crescere. Se per lui le condizioni erano sempre le stesse, col vento gelido che gli sferzava la pelle e un metro di neve a intralciargli i movimenti, col passare del tempo le guardie che lo controllavano cambiavano il proprio abbigliamento, passando da pesanti divise e colbacchi in pelliccia a leggere uniformi con le quali, ne era certo, qualsiasi essere umano sarebbe morto di freddo, ma non loro, che per non dargli nemmeno l’illusione di poter fuggire resistevano quasi svestiti alle intemperie. Come se avesse avuto un posto dove fuggire, per altro… ma avrebbe avuto davvero un’occasione, come gli era stato detto dal Sottotenente?

I soldati inoltre, spronati da Chekin, continuavano a insultarlo per l’intera durata del giorno: per i suoi abiti troppo leggeri mentre loro indossavano cappotti e pellicce, per quelli troppo pesanti mentre loro parevano sudare come attaccati a una stufa. Ma Ivan sentiva solamente freddo, dentro e fuori, e solitudine.
Gli mancava terribilmente sua madre: gli avevano detto che fosse morta partorendo l’ultimo dei suoi fratelli, ma non credeva potesse essere vero. Era sicuro che l’avessero uccisa e sepolta nella terra che era costretto a scavare: lei non l’avrebbe mai abbandonato. Essendo stato separato anche dal padre e dai fratelli così tanto tempo prima, Ivan non ricordava nemmeno i loro volti: sicuramente erano passati anni, ma non avrebbe potuto dire quanti dal momento che non riceveva più alcuna lettera da così tanti giorni, troppi…

Solamente al sopraggiungere della sera, dopo una zuppa frugale e maleodorante, gli era concesso di stendersi a letto: leggeva molto lentamente un passo dell’unico libro permesso, la Bibbia, e poi si addormentava sulle fredde e rigide assi del letto, in attesa di una nuova e dolorosa alba. Ma da quella sera non sarebbe mai più successo, ne era certo. Era stato difficile, ma aveva iniziato a fidarsi di Mirovič: come avrebbe potuto rifiutare, dopo che egli gli aveva proposto di riavere con sé la propria famiglia in una casa grande e accogliente?

 
*
 
Improvvisamente la porta si aprì, e, non appena un uomo comparve sulla soglia, Ivan vide la fioca luce di una lanterna; l’aveva ripetuto nella propria testa per l’intera giornata: si trattava del segnale del Sottotenente. Vasilij Mirovič, infatti, entrò in un secondo all’interno della camera spoglia del prigioniero, raggiungendone quasi il basso soffitto grazie all’alta statura, che unita alla corporatura imponente ne restituiva un’immagine potente, quasi regale. Eppure, dopo aver richiuso la pesante porta di legno alle sue spalle, fu l’ufficiale a rivolgersi con tono servile al giovane prigioniero, come aveva abitudine di fare ogniqualvolta si trovavano da soli.

“Buonasera, mio Zar. Vede, fuori è calato il buio, dobbiamo agire più velocemente possibile!”

Ivan lo osservò nuovamente: Vasilij aveva il volto più scuro di quello degli altri soldati, come se solamente lui fosse raggiunto dai raggi del sole. I baffi folti e neri gli incorniciavano delle labbra sottili, mentre gli occhi scuri parevano impazienti di ritrovare la luce diurna. Era incredibile il modo in cui l’uomo risultasse così vivo, come nessun altro di quelli conosciuti da Ivan lo era mai stato.
La crudeltà dei carcerieri e gli sforzi della prigionia gli toglievano lentamente la vita, mentre ciò che muoveva Mirovič sembrava riportargliela indietro: libertà, era la parola che più volte gli aveva sussurrato, quasi con il terrore di fare del male a lui che non l’aveva mai conosciuta. La libertà di poter essere ciò per cui si era nati, la libertà di decidere le proprie azioni, la libertà di vedere il sole oltre il ghiaccio eterno.

Ivan si alzò dal letto, ripose il libro sacro sullo spartano tavolino scheggiato e indossò gli stivali, insieme al pesante cappotto in cui ogni giorno si avvolgeva per lavorare nella neve.

“Non è necessario quel cappotto così pesante! Fa caldo, mio Zar. Siamo in estate”.

Non poteva essere vero: Ivan non aveva mai visto l’estate. Una volta, sua zia Juliane glielo aveva chiesto in una delle sue lettere provenienti inizialmente da un luogo chiamato Brunswick, poi da un regno, la Danimarca, di cui diceva di essere regina: “Vedi i fiori, Ivan? La natura verde e rigogliosa che decora le campagne?”

Ma lui, sporgendosi ancora una volta dalla finestra per controllare, aveva scorto soltanto il terreno nudo e spoglio, in uno dei pochi momenti in cui il ghiaccio non lo ricopriva interamente. Arrivò a pensare che l’estate fosse la sua stessa zia: non l’aveva mai vista, poiché risiedeva in un posto lontano, ma ne aveva sentito parlare così spesso…
Non riceveva più sue lettere da molti mesi, cosa che negli anni precedenti non era mai accaduta; per la prima volta, aveva davvero perso il contatto con chiunque si trovasse fuori da Šlissel’burg, insieme alla capacità di contare i mesi e lo scorrere del tempo, limitandosi a constatare l’inarrestabile alternanza del gelido giorno e della notte oscura.

Il Sottotenente gli aveva detto che Chekin le aveva bruciate tutte, dalla prima all’ultima, e come ogni volta Ivan gli aveva dato ascolto: il suo tono di voce era sempre stato calmo, mai autoritario come quello di ogni altro uomo; durante il lunghissimo tempo trascorso in prigionia, solamente un’anziana servitrice sordomuta, che una volta al mese, dicevano, passava a lavare il pavimento sudicio della sua cella, gli aveva riservato delle occhiate non sprezzanti, ma quasi materne. Quando la donna usciva, Ivan piangeva, non trovando conforto nemmeno nei lumi celesti che tappezzavano la volta notturna.

Improvvisamente, Mirovič riprese la parola:
“È il momento. Un istante prima di entrare ho ricevuto dai miei soldati la conferma che aspettavo: il colonnello Berednikov è bloccato all’interno della sua stanza senza alcuna possibilità di fuga o di contatto con l’esterno, e a quest’ora le guardie di Chekin sono solamente due. Dobbiamo allontanarci dalla fortezza il prima possibile, in modo da avere il vantaggio dell’oscurità; passando attraverso i boschi arriveremo a Pietroburgo in poco meno di un giorno, e lì sarà possibile riorganizzare la riconquista del Vostro trono, mio Zar”.

Ivan annuì, quasi ignorando il vero significato delle parole del Sottotenente ma determinato a lasciarsi alle spalle la fame, la prigionia, il freddo.

 
*

Procedendo un passo indietro rispetto a Mirovič, Ivan avanzava lungo i corridoi oscuri e a lui sconosciuti della fortezza, guardandosi intorno con apprensione. Non aveva posto alcuna domanda al Sottotenente, consapevole che le guardie agli ordini di Chekin avrebbero potuto comparire in pochissimi istanti se solo avessero sentito il minimo rumore. Pertanto, cercava di appoggiare i pesanti stivali il più leggermente possibile sulla pavimentazione in pietra, tentando al contempo di mantenere la veloce andatura che il suo liberatore gli stava imponendo.

Durante la fuga non aveva potuto fare a meno di notare la presenza di molte altre celle simili alla sua, sbarrate all’esterno e senza alcuna apertura verso il corridoio, al contrario di altre, probabilmente gli alloggi delle guardie carcerarie, che disponevano di una grata posta nella parte superiore dell’ingresso. All’interno di esse i soldati dormivano, ignari di ciò che stava accadendo a pochi passi dai loro letti.

Dopo un ennesimo cambio di direzione, i due arrivarono all’ingresso principale della fortezza di Orešek, il cui massiccio cancello metallico era aperto. Sembrava che la libertà, quella situazione a lui così sconosciuta, si trovasse pochi passi più in là, ma quella situazione aveva ancora aumentato l’ansia di Ivan: non era possibile che le stesse guardie che lo braccavano durante il giorno fossero improvvisamente sparite, non accorgendosi della fuga di quel prigioniero che sembravano odiare così profondamente.

Il giovane inserì una mano all’interno della tasca del cappotto più leggerlo fornitogli da Mirovič, stringendo a sé il foglio di carta che vi era contenuto: si trattava di una delle preziose lettere provenienti dalla Danimarca, l’ultima, con la quale sarebbe riuscito a trovare finalmente l’estate.
Seguendo il Sottotenente varcò velocemente la soglia, cercando di ignorare i suoi presentimenti e correndo lungo il perimetro della fortezza; avrebbe dovuto percorrerne infatti metà per poter raggiungere la foresta riducendo le possibilità di essere visto.

 
*
 
Il luogotenente Chekin si affacciò alla finestra della propria stanza, la cui visuale era illuminata da una lampada a olio posta appena al di sotto del davanzale. Come le sue guardie gli avevano anticipato, un prigioniero non identificato a causa dell’oscurità era stato aiutato a evadere dalla fortezza, e lui era pronto a fermarlo a ogni costo. Non si capacitava di come Berednikov non si fosse accorto della fuga in corso, ma non gli importava, anzi: sarebbe stato lui a ricevere tutti gli onori dalle mani dell’imperatrice Caterina.

In quell’istante, due figure passarono al di sotto della sua finestra: uno dei due uomini cadde, rendendosi irriconoscibile, ma grazie alla luce appositamente posizionata riuscì a riconoscere il sottotenente Mirovič mentre si chinava sull’altro uomo per soccorrerlo. I suoi dubbi sull’identità del prigioniero erano stati finalmente fugati: il traditore stava aiutando quell’ignobile e stupido individuo con cui era sempre parso troppo gentile, Ivan, il falso zar. Gli onori e soprattutto i premi in denaro che avrebbe ottenuto uccidendoli sarebbero stati di inestimabile valore. Sollevò il fucile già carico, tenendo il dito pronto a premere il grilletto e prendendo la mira.

Avanzando di corsa lungo le mura della fortezza, Ivan inciampò improvvisamente, ritrovandosi con la faccia a terra e non accorgendosi del lume posizionato al di sopra della sua testa. Vasilij Mirovič si precipitò in suo soccorso, tornando indietro e afferrandolo per aiutarlo a risollevarsi. La sua stretta era salda, ma al tempo stesso gentile, e Ivan ricordò la prima volta in cui lui e il Sottotenente di erano incontrati: il giovane si trovava a terra, distrutto dal lavoro e colpito dai calci delle guardie, quando una voce aveva ordinato con tono perentorio ai soldati di fermarsi. Nello stesso modo in cui lo stava facendo in quel momento, anche allora Mirovič l’aveva aiutato a rialzarsi sotto lo sguardo sprezzante di Chekin; sembrava che lo facesse spontaneamente, senza alcun motivo o interesse, solo per aiutarlo.
Era consapevole che fosse impossibile, ma dopo tutto ciò che aveva vissuto era così semplice credere che, finalmente, qualcuno avesse deciso di capire cosa volesse dire essere rinchiuso senza alcuna colpa, come ci si sentisse dopo molti, lunghissimi, mesi e anni di solitudine. Era certo di non meritare tutto ciò, ma di avere diritto a vivere, come non aveva mai potuto fare.

Ivan sentì un forte botto nelle orecchie, e istintivamente voltò la testa verso l’alto, la direzione dalla quale esso era provenuto. Illuminato da due diverse luci, una posta sotto il davanzale di una finestra e una alle sue spalle, il luogotenente Chekin era intento a ricaricare un fucile. Di fianco a lui, invece, Mirovič giaceva disteso a terra con gli occhi sgranati, mentre un rivolo di sangue gli fuoriusciva dalla bocca.

“Corri…”, fu l’unica cosa che riuscì a dire prima della fine, e Ivan, ancora più impaurito di come fosse in precedenza, non poté che seguire la sua ultima parola. Si alzò velocemente da terra, e corse senza fiato allontanandosi il più possibile dalle mura, mentre Chekin puntava nuovamente il fucile verso di lui. Stringendo la lettera all’interno della sua tasca e avanzando nel fango con tutte le sue forze, il giovane raggiunse le rive del lago, dove il proiettile sparato dal Luogotenente lo raggiunse.
Non sentì il rumore dello sparo né il dolore causato dalla ferita che gli era stata provocata all’addome, ma solo una voce distante, che divenne a mano a mano più nitida: era quella di sua madre, dal tono dolce e protettivo, che non sentiva da anni. Un sorriso si dipinse sulle sue labbra, mentre i suoi occhi spenti videro improvvisamente scomparire il ghiaccio dalla superficie del Ladoga, sostituito da una distesa d’acqua limpida e cristallina.

I soldati inviati da Chekin, usciti celermente dall’ingresso della fortezza, raggiunsero in pochi secondi il punto in cui il giovane si era accasciato a terra, pronti a sparare un altro colpo se fosse servito. Tuttavia non fu necessario: quando essi si furono avvicinati, Ivan, con lo sguardo perso nel buio della notte, stava già spirando. Non appena ebbe esalato l’ultimo respiro, dal cielo iniziò a cadere, lenta, la neve. Nel mezzo di quella notte di luglio, i soldati sollevarono lo sguardo, immobili, mentre l’inverno riprendeva ad avanzare nel suo Regno. Il corpo di Ivan non sarebbe stato sepolto: il freddo, così come era stato presente in ogni giorno della sua vita, sarebbe stato anche la sua tomba per l’eternità.




 
Note:
Essendo stato deposto dal trono ancora infante, Ivan non ne ha ovviamente memoria. Si possono notare nel protagonista alcuni lievi problemi riguardanti la percezione della realtà, dovuti all'isolamento prolungato come riportato da diverse fonti storiche.
Il titolo è una mezza citazione involontaria a "Game of Thrones", involontaria perché avevo già sentito l'espressione "eterno inverno", ma non ricordavo dove (non avendo letto i libri né visto la serie). Quando ero già a metà della stesura della storia ho letto un articolo sul worldbuilding di Martin per un altro progetto, e in questo modo mi sono detto "ecco dove l'avevo sentito!"
La oneshot più chilometrica della mia vita, perdonatemi!
Vostro,
mystery_koopa
  
Leggi le 14 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: mystery_koopa