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Autore: Ryo13    14/07/2019    4 recensioni
Francia, regione della Bretagna, 1889.
Aurélie è una giovane donna che rifiuta l'idea del matrimonio: la sua famiglia ignora le sue aspirazioni e il difficile rapporto col padre la porta a pensare che nessun uomo sia capace di amare senza esercitare una buona dose di prepotenza. Un giorno, fa un incontro assolutamente eccezionale tra gli scogli della spiaggia di Kercambre, che la condurrà per un sentiero ignoto e verso la scoperta di un amore che non limita, ma che anzi è disposto a offrire sostegno ai suoi sogni.
❈❈❈Seconda classificata al Contest "A zonzo nel tempo!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP.❈❈❈
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO 01
 

Su le piane e l’orizzonte
Su le ali degli uccelli
E il mulino delle ombre
Scrivo il tuo nome

 Liberté di Paul Éluard ∽

 

1889

Aurélie lo trovò tra le sterpaglie del bosco appena a pochi passi dalla scogliera. L’uccello si dibatteva frenetico, agitando un’ala spezzata nel tentativo di riprendere il volo. Ma era impossibile: le piume così spiegazzate e l’inclinazione innaturale dell’arto lasciavano presagire un danno tale da costringerlo a terra.

Il gabbiano garriva disperato, in preda al dolore. Era una vista misera: lui abituato alla leggerezza del cielo, costretto a rotolare nella fanghiglia che gli macchiava le candide piume.

Il becco scattava da un lato all’altro, in cerca di aiuto. Ma non c’era alcuno della sua specie a soccorrerlo né, se ci fosse stato, capace di farlo adeguatamente.

Ad Aurélie si strinse il petto in una morsa. Girò lo sguardo attorno, anche lei in cerca di sostegno, ma era sola. 

Rimase indecisa per lunghi istanti sul da farsi, fino a quando uno stridio più acuto le lacerò una fibra del cuore e lei andò, invocata dal suo grido.

Prenderlo con la dovuta delicatezza non fu facile, perché il piccolo animale al tocco della mano estranea si agitò con maggior forza. Aurélie cominciò a vezzeggiarlo sottovoce, con un tono calmo e tanto basso da risultare roco.

Forse fu la gentilezza dei modi, il timbro della voce, o semplicemente una connessione d’anima, ma il gabbiano cominciò ad accettare quella invasione così estranea e in breve smise di agitare le ali. 

La ragazza se lo raccolse sul petto, attenta a non fargli del male. Poi si avviò sul sentiero di casa che si trovava alla periferia di Saint-Gildas-de-Rhuys: l’abitazione ㅡ una solida struttura settecentesca di proprietà della famiglia Lacroix da generazioni ㅡ distava meno di un miglio da Plage de Kercambre, da cui con ogni probabilità proveniva l’uccello.

Aurélie corse per l’ultimo tratto, togliendosi dalla strada principale per impedire che uno dei suoi genitori potesse scorgerla attraverso le vetrate della facciata. Sgattaiolò sul retro, raggiungendo le cucine ㅡ al momento vuote ㅡ e scivolando in una stanzetta della servitù nella quale sua madre non avrebbe mai pensato di cercarla. Ma non era vuota: in un angolo, seduta sulla poltrona, Agnés stava rammendando delle camicie.

Quando la domestica vide entrare Aurélie con in mano un batuffolo di piume per poco non le prese un colpo: l’ago le cadde di mano e prese ad agitare le mani come per scongiurare una catastrofe.

«Mademoiselle Aurélie, cosa avete fatto? Cos’avete in mano?! Sarete mica stata vista?»

La donna si precipitò a lanciare cupe occhiate al di là della porta e lungo i corridoi, fino a quando la mano impaziente della ragazza non la trascinò dentro per impedirle di attirare l’attenzione con i suoi schiamazzi.

«Mi sono preoccupata di non dare nell’occhio quindi, per piacere, non vanificare i miei sforzi», la riprese brevemente. «Questa creatura ha bisogno di cure immediate.»

Quasi a sottolineare la ragione di quelle parole, il gabbiano garrì in una serie di acuti.

«Sainte Mère de Dieu!» esclamò Agnés, «Ci farà scoprire!»

Aurélie non badò al terrore della sua vecchia nutrice e tornò a mormorare al suo piccolo amico.

Quando riuscì a calmarlo a sufficienza da poterne esaminare l’ala danneggiata vide, tra le piume macchiate di sangue, le piccole ossa fratturate.

«Non posso fasciare l’ala in queste condizioni. Non ho idea di come si debbano riallineare queste ossa. Cosa possiamo fare?»

«Quel che è certo è che non possiamo tenerlo qui: se monsieur Lacroix vi scoprisse vi chiuderebbe in casa per mesi! E a me non so cosa potrebbe capitare...» 

«Pensiamo prima a cosa possiamo fare per alleviare le sue sofferenze», disse indicando l’uccello. «Se non lo medichiamo per bene rischia di non poter più volare e sarebbe terribile.»

Lo sconcerto al pensiero di una prospettiva simile era piuttosto evidente nei tratti delicati della ragazza. «Cosa possiamo fare?», continuava a mormorare tra sé.

«Beh… ci sarebbe…»

«Cosa?»

«Ecco… potreste sempre portarlo da monsieur Duval. Dopotutto è un medico degli animali, no?»

Aurélie si immobilizzò di colpo, evadendo lo sguardo di Agnés. Ma quella, imperterrita, continuò a parlare: «Dite che non possiamo fare nulla… questa povera bestiola non può rimanere in queste condizioni, sarebbe crudele. E non possiamo tenerla in casa per ovvi motivi. Ma se andaste da monsieur Duval, certo madame Lacroix non avrebbe nulla da obiettare, anzi, la fareste persino contenta».

Aurélie si chiuse in ostinato mutismo, fino a quando la domestica desistette e, non sapendo cos’altro fare, tornò alla sua poltrona riprendendo in mano il lavoro: sapeva che con mademoiselle insistere sarebbe stato controproducente; dunque, fingendo disinteresse, attese che la ragazza traesse le ovvie conclusioni.

Aurélie non avrebbe voluto piegarsi a quell’idea. Tuttavia, più fissava lo sguardo sull’ala spezzata e più comprendeva che non avrebbe potuto lasciar vincere il proprio orgoglio. Non certo a spese del gabbiano ferito.

«Avviso la mamma che intendo far visita alla residenza dei Duval. Tieni nascosto l’uccello fino a quando non verrò a prenderlo.»

Così dicendo, abbandonò in fretta la stanza perché non sopportava di udire i commenti di Agnés: avrebbe già dovuto tollerare gli entusiasmi della madre.

Quando fu informata del programma della figlia, Victoire non credeva alle sue orecchie: la fissò attonita per un lungo momento, chiedendosi se quella fosse proprio Aurélie o se si trattasse di uno scherzo. Quando le vide raccogliere il cappellino da passeggio e il leggero scialle che l’avrebbe protetta dalla brezza serale, non solo comprese che tutto era reale, ma che sua figlia pensava addirittura di attardarsi a causa della visita. 

Sarebbe scoppiata in strilli di trionfo se non l’avesse trattenuta il pensiero che un simile comportamento avrebbe potuto dissuaderla dall’ottimo proposito. Così inghiottì la soddisfazione fino a quando non la vide uscire di casa con il cesto in vimini che usava per cogliere i fiori, dopodiché si abbandonò a un’agitazione esuberante inframezzata da gridolini di appagamento: fu così che la trovò suo marito Régis. 

L’avrebbe redarguita severamente per quel comportamento poco decoroso se non avesse appreso cosa l’aveva resa così entusiasta prima di provarci. Persino lui rimase stupito per quel fatto così insolito, al punto da dimenticare qualsiasi rimprovero. 

⚜⚜⚜

Aurélie aveva recuperato l’infortunato dal retro della casa e si era immersa nel bosco, procedendo a passo sostenuto.

La casa dei Duval non distava molto, ma lei non aveva mai compiuto quel percorso: anzi, negli ultimi tempi aveva preso volutamente a evitarlo, persino se il suo intento era semplicemente quello di passeggiare o di raccogliere fiori.

Nel cesto, nascosto sotto un fazzoletto di lino, il gabbiano riposava senza nemmeno strepitare. La cosa aveva del curioso, perché Aurélie avrebbe scommesso che quelle creature non tollerassero facilmente la cattività e gli spazi chiusi: re dei cieli, erano abituati a solcare i mari toccando con la punta del becco il pelo dell’acqua per fare dei pesci ricco bottino. Di certo non era normale che se ne stesse accucciato come fosse un pigro gattino. Quel pensiero la fece allarmare e la indusse ad accelerare ulteriormente il passo per il timore che versasse in fin di vita.

Giunta davanti la residenza, non si preoccupò minimamente dell’impressione che avrebbe dato alla padrona di casa, o a Etienne Luc Duval, se era per questo.

Sapeva per certo che Etienne abitava con la madre vedova che era piuttosto avanti con gli anni, ma non meno querula: dopotutto, doveva in gran parte a lei il fatto di trovarsi in una difficile posizione, anche se non dimenticava che la colpa andava attribuita quasi a pari merito anche ai suoi genitori.

Batté il pesante manico di ottone sul legno e attese che qualcuno le aprisse. Dopo meno di un minuto venne accolta dalla governante di casa.

Quella, sbalordita, fece tanto d’occhi, ma ㅡ a suo merito ㅡ si ricompose subito.

«Madame Duval si trova nel salotto attiguo, se volete...»

«Non sono qui per vedere lei», l’interruppe bruscamente. «Dov’è monsieur Duval

A corto di parole, le fece cenno di seguirla e la guidò, attraverso la casa, nel giardino sul retro: lì sorgeva una modesta costruzione in mattoni rossi, coperta da un lato da fitti rampicanti. La governante balbettò che si trattava dell’ambulatorio del suo padrone.

«In genere, non desidera essere disturbato...» commentò titubante, alla fine.

«Per me farà un’eccezione», disse Aurélie, ponendo fine a qualsiasi protesta.

«C-certamente, mademoiselle Lacroix.»

La donna bussò alla porta a vetri e attese il permesso di aprire.

Rispose la voce brusca di un uomo: «Avanti!»

In una singola parola era riuscito a condensare esasperazione e noia in maniera così perfetta che Aurélie non ebbe dubbi sul carattere burrascoso di Etienne. E sì che non lo aveva mai incontrato di persona, ma ne aveva sentito abbondantemente parlare: in termini elogiativi dai suoi genitori, e un po’ più realistici dalle cameriere e sarte di Saint-Gildas-de-Rhuys, tra le quali si mormorava che il giovane scapolo fosse schivo e taciturno. Una volta aveva sentito di lui da alcuni ragazzi del villaggio che si erano riuniti alla scogliera: erano stati aspramente rimproverati per averlo disturbato nello svolgimento del suo lavoro, o così aveva dedotto dalle loro chiacchiere.

Che fosse sulla bocca di tutti non faceva meraviglia perché l’uomo aveva fatto ritorno in casa dei genitori ㅡ nella quale, peraltro, non aveva mai vissuto ㅡ solo recentemente.

Aveva studiato medicina per anni in alcune scuole in Francia e all’estero, mentre prima di allora era vissuto a Caen, nella Normandia: i Duval, infatti, si erano trasferiti a Saint-Gildas-de-Rhuys, dove avevano ereditato una tenuta, quando alla signora madre era stata raccomandata l’aria di mare per curare i reumatismi.

La governante, dunque, spinse l’uscio, introducendosi in punta di piedi.

«Monsieur, perdonate se vi interrompo, ma è arrivata in visita mademoiselle...»

«Grazie», l’interruppe con noncuranza Aurélie, entrando col suo cesto come se fosse la padrona. Con mezza giravolta diede le spalle all’uomo, rivolgendosi poi con tutto il peso del suo sguardo alla donna. «Potete andare. Penserò io a spiegare il motivo della mia visita.»

Quella adocchiò brevemente prima l’uno e poi l’altro, ma decise in una frazione di secondo di abbandonare la scena e lasciarli soli. 

«Mademoiselle... non so chi voi siate, ma spero che abbiate un buon motivo per introdurvi in tal modo alla presenza di un uomo ed esigere di essere lasciata sola con lo stesso. Non so cosa pensavate di...»

«Forse se mi lasciaste effettivamente spiegare sarebbe tutto molto più semplice, non trovate?»

Quello la fissò con malcelata irritazione e chiese: «È vostra abitudine interrompere le persone mentre parlano?»

«No, ma è mia abitudine prestare ascolto solo a ciò che merita lo sforzo.»

Interdetto da tanto ardire, Etienne per un momento non seppe cosa rispondere. Poi disse: «Mi toccherà seguire il vostro esempio e domandarvi senz'altro indugio il motivo della vostra visita».

Aurélie sollevò il cesto, poggiandolo con delicatezza sul ripiano del tavolo da lavoro.

«Ho trovato questo gabbiano vicino la scogliera. Ha un’ala spezzata e non so come curarla. So che voi vi occupate del benessere degli animali, oltre che di quello degli uomini; vorrei che curaste questa creatura.»

Quando tolse il fazzoletto svelando l’uccello sotto di esso, Etienne cambiò d’un tratto espressione: ora era del tutto concentrato sul suo compito. Esaminò l’ala, identificando una doppia frattura all’ulna e al radio, o almeno così apprese Aurélie dai suoi borbottii. Era chiaro che parlasse più che altro a se stesso perché, per il resto, pareva essersi dimenticato della presenza della donna.

A lei quell’atteggiamento non dispiacque; anzi, la sua spiccata professionalità metteva a tacere gli innati pregiudizi che nutriva verso quell’uomo. Aveva fatto bene, dunque, a inghiottire un po’ di orgoglio visto che lui sarebbe stato certamente in grado di curare il suo piccolo amico.

Senza consultare la ragazza, cominciò a tirar fuori degli attrezzi e a preparare dei legacci di stoffa. Avrebbe continuato a ignorare la presenza di lei se Aurélie non gli avesse afferrato la mano che reggeva un pezzo di stoffa con quella che sembrava tutta l’intenzione di legare l’animale.

«Che gli fate?!» esclamò, guardandolo storto.

Etienne abbassò lo sguardo sulla mano di lei, ancora stretta alla sua, prima di alzarlo a fissarla negli occhi. Si aspettava che la ritirasse, mortificata per averlo toccato senza averne alcun diritto, ma lei era inamovibile. Apparentemente non le importava nulla di essere una ragazza nubile vicino a un uomo; sola con un uomo dentro un capanno; sola con un uomo celibe.

«Che cosa intendete fargli?», insistette.

Dal momento che quell’impertinente non provava alcuna vergogna, nemmeno lui avrebbe dato peso alle libertà che si prendeva.

«Se mi lasciate fare il mio lavoro, intendo legarlo in modo che non si muova quando manipolerò le ossa per rimetterle in asse e gli applicherò una fasciatura.»

«Si spaventerà.»

«Sicuramente. Ma non esiste altro modo.»

Non del tutto convinta, allontanò la mano, liberandolo: quantomeno non intendeva terrorizzarlo intenzionalmente. Tuttavia rimase nei pressi, seguendo ogni sua mossa.

Come c’era da aspettarsi, quando provò a legarlo, il gabbiano prese ad agitarsi nel tentativo di sfuggirgli. Sgusciò dalla presa della sua mano e atterrò con un tonfo sul ripiano del tavolo, scivolando. 

Il suo garrito quasi assordava.

Quando lo riacciuffò, la situazione sembrò addirittura peggiorare.

Aurélie non riuscì più a tollerare quei tentativi che prolungavano la sofferenza dell’animale. Senz’altro indugio avvicinò il viso al becco, ma non abbastanza da rischiare di essere colpita accidentalmente. Gli soffiò addosso in maniera sufficientemente forte da coglierlo di sorpresa, ma anche con la dolcezza che ricordava una brezza marina. Approfittando dell’attimo di immobilità, lo rabbonì con un suono leggermente stridulo che produsse schioccando la lingua contro il palato. Infine, sostituì le sue mani a quelle di Etienne, facendogli capire con un’occhiata che l’avrebbe tenuto fermo.

L’uomo, nonostante la sorpresa, comprese al volo e passò immediatamente all’azione. Anche se il gabbiano tornò ad agitarsi un poco quando avvertì il dolore all’ala, Aurélie fu abile nel non mollare la presa; e, per quanto potè, lo distrasse abbastanza da permettere all’altro di completare celermente il lavoro.

«Non resta che farlo mangiare, così potrà riprendere le forze», commentò alla fine Etienne.

«Cosa mangiano i gabbiani?»

«Beh, pesci ovviamente, ma anche ratti, e altri animali. Si arrangiano con qualunque tipo di scarto, anche di alimenti umani.»

«Avete del pesce da dargli?»

«Sfortunatamente no. Gli darò alcuni avanzi della mia cucina.»

L’idea non le pareva troppo salutare, ma lo tenne per sé. «Per oggi andrà bene. Domani gli porterò del cibo più adatto.»

Etienne si voltò bruscamente verso di lei. «Domani?! Gli porterete? Cosa vi fa pensare che possiate tenerlo qua?»

«Il fatto che in casa mia non ho il permesso di portarlo.»

«Nell’ultima ora avevo avuto l’impressione che non foste un tipo da avere bisogno di un permesso per fare quel che gli pare.»

«Sbagliate. Se mio padre lo trovasse in casa lo consegnerebbe ad Agnés per farlo cucinare. Non c’è alternativa, lo terrete voi; dopotutto siete il suo medico. Io verrò ogni giorno a occuparmi di lui e vedrete che non vi darà fastidio.»

«Onestamente mi preoccupa di più il fastidio che mi darete voi, piuttosto che quello arrecato dalla vostra bestiola.»

Aurélie agitò una mano come a cancellare le sue affermazioni. «Sciocchezze! Non vi accorgerete nemmeno di me.»

«Ne dubito fortemente» borbottò Etienne tra i denti. Lei finse di non sentirlo.

Quando ebbe controllato un’ultima volta le condizioni del gabbiano e averlo visto rilassato dentro il cesto, che usava ormai come nido, decise di far ritorno alla propria casa. Raccolti scialle e cappello, stava per piantare in asso Etienne con un saluto appena accennato, ma l’uomo riuscì a fermarla quando aveva il piede già per metà fuori dall’uscio.

«Aspettate! Non mi avete detto nemmeno come vi chiamate», sbraitò frustrato.

«Sono Aurélie Colette Lacroix», rispose lei d’un fiato. «La vostra promessa sposa.»

Ciò detto, si diresse verso il viale, lasciando il poveretto con un palmo di naso.





 
NOTE:
Il pacchetto del contest che ho usato è La Sacra sindone: 
- Contesto storico: Belle èpoque; 
- Prompt: Macchina;
   
 
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