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Autore: Sabriel Schermann    15/07/2019    4 recensioni
Era l’alba quando Dante mise piede per la prima volta a Sparta.
Una ragazzina dal volto giovane e fresco lo osservava con gli occhi spalancati, brillanti alla luce notturna.
Per un istante gli balenò nella mente il pensiero, come un ricordo sfocato, che la avesse già vista da qualche parte prima d’allora.
«Bimbetta mia…»
[Fanfiction classificata al quinto posto al contest "A zonzo nel tempo!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP]
Genere: Malinconico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dante Vale, Zhalia Moon
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il Segreto dell’Isola

 

 

 

 

 

«Pari agli dèi mi appare lui, quell'uomo
che ti siede davanti e da vicino
ti ascolta: dolce suona la tua voce […]
e mi inonda un sudore freddo, un tremito
mi scuote tutta, e sono anche più pallida
dell'erba […]

Ma tutto si sopporta, poiché...»

(Saffo – Ode della Gelosia)

 

 

 

 

 

 

 

 

415 a.C.

Era l’alba quando Dante mise piede per la prima volta a Sparta. Una paura tremenda gli fremeva in petto, non avrebbe mai dovuto seguire quel pazzo e più avanzava verso il palazzo reale e più se ne convinceva. Gli sguardi fugaci degli uomini e delle donne perbene che si posavano su di loro, puri e agguerriti soldati ateniesi, erano indecifrabili. Si aspettava di essere trafitto dalla lama di una spada in qualsiasi momento; se il suolo si fosse squarciato sotto ai suoi piedi, non avrebbe esitato un istante a buttarcisi dentro, a costo di non rivedere mai più la luce, sua madre, suo padre e l’amata sorella che aveva lasciato indietro. Non sapeva nemmeno se fossero ancora vivi, se avessero abbastanza cibo quanto ne aveva lui quando Alcibiade suggerì di fuggire a Sparta. Nessuna delle persone a lui più fidate aveva opposto resistenza, erano partiti e basta. Avrebbe preferito soccombere nella sua madrepatria o morire a Siracusa o in qualsiasi altro posto che non fosse il territorio nemico. Sentiva già la frusta frantumargli il costato e strisciare violentemente sulla sua schiena, come un rettile affamato nel deserto. Sentiva la morte sempre più vicina, tanto da poterne già patire l’amaro presagio.

 

˜

 

403 a.C.

Camminava altero per le strade della città, osservando con estrema attenzione tutto ciò che la sua visuale comprendeva, come un neonato che scopre il mondo per la prima volta. Adorava passeggiare intorno a quel luogo pieno di vita eppure così pacifico. Spesso si infilava nei prati, si sfilava i sandali e gironzolava a piedi nudi, assaporando il profumo fresco dell’erba e il sole tiepido sulla pelle.
Zacinto era estremamente diversa da Atene e anche se non era stata la sua volontà a spingerlo così lontano da casa, Dante aveva presto fatto dell’isola la sua dimora, il proprio angolo remoto di pace e solitudine, dove avrebbe forse potuto realmente riprendersi dalla miriade di sofferenze che la guerra gli aveva provocato.
Un giorno mite e ventoso però, decise di spingersi ben oltre il solito campo, oltrepassando le calle candide che solitamente osservava solo da lontano, attraversando una collina fino a raggiungerne la cima, la piazza del mercato.
Donne e uomini trotterellavano da una parte all’altra, per lo più trascinando grossi pesi sulle spalle e indossando vestiti di evidente pessima qualità. Alle donne ricche era proibito frequentare l’agorà e gli uomini di alto rango erano soliti ritrovarsi in un angolo dello spiazzo, sotto un portico adibito apposta per ripararsi dal sole o dalla pioggia battenti.
Alle loro spalle si ergeva un ampio cartellone infarcito delle notizie più recenti, tra cui la fine della guerra, che a Dante era costata non solo quasi la vita, ma anche l’ostracismo dalla sua città natia.
In cambio dell’esilio, avrebbe forse potuto rimettersi affondando il proprio corpo nell’acqua del mare e strofinando i piedi contro l’erba fresca del mattino per tutto il tempo che avrebbe voluto.

 

˜

 

Al fondo del piazzale poteva vedere chiaramente un piccolo gruppo di donne, di cui una sembrava asserire in modo concitato con alcuni uomini. Solo quando fu abbastanza vicino capì che si trattava di schiave sul punto di essere vendute per un pugno di monete.
Si trattava per lo più di giovani robuste e vigorose, probabilmente plasmate dal duro lavoro svolto negli anni, ma una di loro era più gracile e minuta delle altre, dotata di un viso straordinariamente armonioso che a Dante pareva brillare di luce propria.
Si avvicinò con cautela, incuriosito da quella figura insolita, osservandola attentamente. Per un istante, gli balenò nella mente il pensiero, come un ricordo sfocato, che la avesse già vista da qualche parte prima d’allora, ma subito lo ricacciò indietro con convinzione.
Chiunque lo avesse incontrato prima che giungesse a Zacinto, non doveva quasi certamente trovarsi più al mondo. Si sentiva ancora debole a causa delle ferite e della stanchezza accumulate, per cui pensò che qualcuno che avesse badato alla sua salute gli avrebbe probabilmente fatto comodo.
Quella ragazza era una nullità, tanto che la sua vita poteva essere comprata e venduta senza alcun rammarico, ma aveva l’aspetto di una dea. Quando le sfiorò un braccio, lei ebbe un sussulto. La pelle olivastra e liscia sotto il suo tatto gli provocò un improvviso capogiro.
«Come ti posso chiamare?» chiese lui senza preamboli, perdendosi in quegli occhi corvini come i capelli che le ricadevano morbidamente sulle spalle. Lei rispose abbassando lo sguardo al suolo.
L’uomo strinse involontariamente la presa sul suo braccio, esortandola a parlare. Non sembrava imbarazzata. Al contrario, permeava infinita tristezza. Poi, con un improvviso strattone, la ragazza si divincolò dalla sua presa.
Qualcosa gli aveva bagnato la faccia: quella schiava gli aveva appena sputato addosso.

 

˷

 

Era un pomeriggio uggioso, il sole era apparentemente intralciato dalle nuvole e solitarie gocce di pioggia si posavano delicate al suolo, unendosi ad esso fino ad esserne assorbite completamente.
Dante osservava il cielo torvo appostato alla finestra del suo laboratorio, dotata di un vetro sottilissimo lavorato apposta per lui dai migliori artigiani della polis. Ebbe la tentazione di uscire e vagabondare sotto il temporale, ma finì per tornare al lavoro, maneggiando dei sottili fili di spago, cercando di infilarli su un’asse di legno il più precisamente possibile.
Da quando era stato cacciato dal Consiglio di Atene la necessità di sopravvivere gli riportò alla memoria tutte le nozioni che suo padre gli aveva impartito riguardo al mestiere di costruttore di cetre, quando era ancora un ragazzo.
Così Dante aveva imparato a tessere tele di legno e a far fuoriuscire dagli strumenti vivaci note che spesso attiravano alla sua bottega le donne più importanti della città. Si presentavano con la scusa di voler acquistare una cetra, magari per donarla a un familiare, o talvolta le più fantasiose raccontavano di volerlo semplicemente osservare all’opera.
A un tratto una sensazione riaffiorò sfrontata nella sua mente, qualcosa di meraviglioso ma al tempo stesso ripugnante. Non riusciva a togliersi dalla testa la ragazza che qualche giorno prima gli aveva inumidito il viso con la sua saliva e respinto con modi sprezzanti.
Si chiedeva cosa le fosse successo, dato che indubbiamente il gesto della donna era considerato estremamente oltraggioso nei confronti di un uomo rispettabile come lui.
Nonostante l’ostracismo, tutti in città lo stimavano come se avesse sempre vissuto lì, forse perché erano a conoscenza del fatto che un tempo fosse un elemento di spicco o forse perché aveva combattuto anche in nome dell’isola di Zacinto.
«Non vi preoccupate» disse Dante alla donna quando, avendo assistito alla scena, minacciò la giovane, di un passo posteriore alle compagne. L’uomo si asciugò, noncurante del gesto, volgendo un tiepido sorriso alla fanciulla prima di girare i tacchi e tornare sui suoi passi.
Sentì un vociare dietro di sé, ma non se ne curò. Immerso in questi pensieri cupi e appaganti insieme, Dante continuava a incrociare lo spago, incidendo poi nuovamente il legno col lo scalpello, riportando alla mente pensieri di una giovinezza troppo lontana.

 

˜

 

Raggiunta la piazza, si diresse con passo spedito verso il gruppetto di donne presenti allo stesso posto sette giorni prima. Questa volta erano completamente sole, un altro buon motivo per avvicinarsi, pensò.
La ragazza che voleva era ancora lì, aveva la testa bassa e nemmeno quando l’uomo le si posizionò davanti sollevò lo sguardo. Il linguaggio del suo corpo sosteneva chiaramente che non fosse nelle condizioni migliori. Dante la osservò: la massa corvina le copriva quasi interamente il volto rivolto a terra.
«Quanto per lei?» chiese alla donna che ne sembrava la proprietaria, indicando la giovane.
«Ah, quella» ragliò lei di rimando, «vale solo qualche moneta, siete sicuro che la volete?» gli chiese inespressiva, stringendo le braccia di altre due donne più robuste, invitandolo a sceglierle.
«Voglio lei» rispose lui fermamente, «quanto?» aggiunse. La donna tornò al suo posto, confusa.
Fece rapidamente dei calcoli, infine decretò:«sono otto decadracme d’argento» con l’aria di chi vuole sbrogliarsi al più presto da un impiccio, «ma non riportatemela indietro se non si comporta a dovere» aggiunse in tono brusco e distaccato.
Dante la rassicurò, invitando la ragazza a seguirlo. Lei mosse lentamente alcuni passi, mantenendo la testa china. La donna li osservò camminare uno a fianco all’altra fino a quando non scomparvero completamente dalla sua visuale.


   
 
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