Il
Segreto dell’Isola
«Pari
agli dèi
mi appare lui, quell'uomo
che
ti siede davanti e da vicino
ti
ascolta: dolce suona la tua voce […]
e
mi inonda un sudore freddo, un tremito
mi
scuote tutta, e sono anche più pallida
dell'erba
[…]
Ma
tutto si sopporta,
poiché...»
415
a.C.
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403
a.C.
Zacinto
era estremamente diversa da Atene e anche se non era stata la sua
volontà a
spingerlo così lontano da casa, Dante aveva presto fatto
dell’isola la sua
dimora, il proprio angolo remoto di pace e solitudine, dove avrebbe
forse
potuto realmente riprendersi dalla miriade di sofferenze che la guerra
gli
aveva provocato.
Un
giorno mite e ventoso però, decise di spingersi ben oltre il
solito campo,
oltrepassando le calle candide che solitamente osservava solo da
lontano,
attraversando una collina fino a raggiungerne la cima, la piazza del
mercato.
Donne
e uomini trotterellavano da una parte all’altra, per lo
più trascinando grossi
pesi sulle spalle e indossando vestiti di evidente pessima
qualità. Alle donne
ricche era proibito frequentare l’agorà e gli
uomini di alto rango erano soliti
ritrovarsi in un angolo dello spiazzo, sotto un portico adibito apposta
per
ripararsi dal sole o dalla pioggia battenti.
Alle
loro spalle si ergeva un ampio cartellone infarcito delle notizie
più recenti,
tra cui la fine della guerra, che a Dante era costata non solo quasi la
vita,
ma anche l’ostracismo dalla sua città natia.
In
cambio dell’esilio, avrebbe forse potuto rimettersi
affondando il proprio corpo
nell’acqua del mare e strofinando i piedi contro
l’erba fresca del mattino per
tutto il tempo che avrebbe voluto.
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Al
fondo del piazzale poteva vedere chiaramente un piccolo gruppo di
donne, di cui
una sembrava asserire in modo concitato con alcuni uomini. Solo quando
fu
abbastanza vicino capì che si trattava di schiave sul punto
di essere vendute
per un pugno di monete.
Si
trattava per lo più di giovani robuste e vigorose,
probabilmente plasmate dal duro
lavoro svolto negli anni, ma una di loro era più gracile e
minuta delle altre,
dotata di un viso straordinariamente armonioso che a Dante pareva
brillare di
luce propria.
Si
avvicinò con cautela, incuriosito da quella figura insolita,
osservandola attentamente.
Per un istante, gli balenò nella mente il pensiero, come un
ricordo sfocato,
che la avesse già vista da qualche parte prima
d’allora, ma subito lo ricacciò
indietro con convinzione.
Chiunque
lo avesse incontrato prima che giungesse a Zacinto, non doveva quasi
certamente
trovarsi più al mondo. Si sentiva ancora debole a causa
delle ferite e della
stanchezza accumulate, per cui pensò che qualcuno che avesse
badato alla sua
salute gli avrebbe probabilmente fatto comodo.
Quella
ragazza era una nullità, tanto che la sua vita poteva essere
comprata e venduta
senza alcun rammarico, ma aveva l’aspetto di una dea. Quando
le sfiorò un
braccio, lei ebbe un sussulto. La pelle olivastra e liscia sotto il suo
tatto
gli provocò un improvviso capogiro.
«Come
ti posso chiamare?» chiese lui senza preamboli, perdendosi in
quegli occhi
corvini come i capelli che le ricadevano morbidamente sulle spalle. Lei
rispose
abbassando lo sguardo al suolo.
L’uomo
strinse involontariamente la presa sul suo braccio, esortandola a
parlare. Non
sembrava imbarazzata. Al contrario, permeava infinita tristezza. Poi,
con un
improvviso strattone, la ragazza si divincolò dalla sua
presa.
Qualcosa
gli aveva bagnato la faccia: quella schiava gli aveva appena sputato
addosso.
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Era
un pomeriggio uggioso, il sole era apparentemente intralciato dalle
nuvole e
solitarie gocce di pioggia si posavano delicate al suolo, unendosi ad
esso fino
ad esserne assorbite completamente.
Dante
osservava il cielo torvo appostato alla finestra del suo laboratorio,
dotata di
un vetro sottilissimo lavorato apposta per lui dai migliori artigiani
della polis.
Ebbe la tentazione di uscire e vagabondare sotto il temporale, ma
finì per
tornare al lavoro, maneggiando dei sottili fili di spago, cercando di
infilarli
su un’asse di legno il più precisamente possibile.
Da
quando era stato cacciato dal Consiglio di Atene la
necessità di sopravvivere
gli riportò alla memoria tutte le nozioni che suo padre gli
aveva impartito
riguardo al mestiere di costruttore di cetre, quando era ancora un
ragazzo.
Così
Dante aveva imparato a tessere tele di legno e a far fuoriuscire dagli
strumenti vivaci note che spesso attiravano alla sua bottega le donne
più
importanti della città. Si presentavano con la scusa di
voler acquistare una
cetra, magari per donarla a un familiare, o talvolta le più
fantasiose raccontavano
di volerlo semplicemente osservare all’opera.
A
un tratto una sensazione riaffiorò sfrontata nella sua
mente, qualcosa di
meraviglioso ma al tempo stesso ripugnante. Non riusciva a togliersi
dalla
testa la ragazza che qualche giorno prima gli aveva inumidito il viso
con la
sua saliva e respinto con modi sprezzanti.
Si
chiedeva cosa le fosse successo, dato che indubbiamente il gesto della
donna era
considerato estremamente oltraggioso nei confronti di un uomo
rispettabile come
lui.
Nonostante
l’ostracismo, tutti in città lo stimavano come se
avesse sempre vissuto lì,
forse perché erano a conoscenza del fatto che un tempo fosse
un elemento di
spicco o forse perché aveva combattuto anche in nome
dell’isola di Zacinto.
«Non
vi preoccupate» disse Dante alla donna quando, avendo
assistito alla scena,
minacciò la giovane, di un passo posteriore alle compagne.
L’uomo si asciugò,
noncurante del gesto, volgendo un tiepido sorriso alla fanciulla prima
di
girare i tacchi e tornare sui suoi passi.
Sentì
un vociare dietro di sé, ma non se ne curò.
Immerso in questi pensieri cupi e
appaganti insieme, Dante continuava a incrociare lo spago, incidendo
poi
nuovamente il legno col lo scalpello, riportando alla mente pensieri di
una
giovinezza troppo lontana.
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Raggiunta
la piazza, si diresse con passo spedito verso il gruppetto di donne
presenti
allo stesso posto sette giorni prima. Questa volta erano completamente
sole, un
altro buon motivo per avvicinarsi, pensò.
La
ragazza che voleva era ancora lì, aveva la testa bassa e
nemmeno quando l’uomo
le si posizionò davanti sollevò lo sguardo. Il
linguaggio del suo corpo
sosteneva chiaramente che non fosse nelle condizioni migliori. Dante la
osservò:
la massa corvina le copriva quasi interamente il volto rivolto a terra.
«Quanto
per lei?» chiese alla donna che ne sembrava la proprietaria,
indicando la
giovane.
«Ah,
quella» ragliò lei di rimando, «vale
solo qualche moneta, siete sicuro che la
volete?» gli chiese inespressiva, stringendo le braccia di
altre due donne più
robuste, invitandolo a sceglierle.
«Voglio
lei» rispose lui fermamente, «quanto?»
aggiunse. La donna tornò al suo posto,
confusa.
Fece
rapidamente dei calcoli, infine decretò:«sono otto
decadracme d’argento» con
l’aria di chi vuole sbrogliarsi al più presto da
un impiccio, «ma non
riportatemela indietro se non si comporta a dovere» aggiunse
in tono brusco e
distaccato.
Dante
la rassicurò, invitando la ragazza a seguirlo. Lei mosse
lentamente alcuni passi,
mantenendo la testa china. La donna li osservò camminare uno
a fianco all’altra
fino a quando non scomparvero completamente dalla sua visuale.