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Autore: jakefan    15/07/2019    1 recensioni
Cos’hanno in comune Heath e Buck, il suo cane? Molte cose: entrambi sono giovani, pieni di energia e vivono sul confine tra due mondi. Buck è per metà lupo, Heath appartiene alla riserva Lakota e anche al mondo «di fuori», bianco e tecnologico. Ma c’è di più, anche se i due non lo sanno: un’eredità sconvolgente sepolta dentro a ricordi lontani.
Quando il richiamo della vita adulta diventa perentorio, per entrambi si prospettano scelte difficili, rivelazioni e incontri che cambieranno loro la vita.
E la scoperta di un terzo mondo nascosto, governato dalla magia che permea tutte le cose.
Ho ucciso sua madre. E' mio.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Carissimi,
aggiorno con grande ritardo causa vacanze al mare e, subito dopo, periodo pesante al lavoro.
C'è stata un'epoca in cui ero molto attiva su EFP, parlo ormai di qualche anno fa. Dopo varie riflessioni ho concluso che ciò che mi manca di più di quei tempi è l'interazione con chi leggeva. Quindi, per farla breve, se leggete (so che leggete, lo vedo dalle visite :-) lasciate due parole, sarà un piacere per me rispondere e inziare uno scambio.
"Buck" è una storia completa che sto rivedendo e, anche se ha avuto altrove un discreto successo, attualmente la trovo un po' lenta. Se la riscrivessi ora, cercherei di aumentare il ritmo. Se ne avete il tempo e la voglia, fatemi sapere qual è il vostro parere.

Se tutto va bene, questa settimana aggiornerò anche mercoledì.
Un grazie ad Ale, che fino ad ora non ha mai mancato di lasciare due parole.
Buona lettura. 



6.
 
 
 
 
 
 
– Hai risposto?
– Risposto a chi?
Argh. Pasadena.
A Heath si rizzarono i peli del collo. Va bene che riusciva a pensare solo ai casini con Rivkah, ma come aveva potuto essere così idiota? Tanto da cancellare completamente la lettera da Pasadena? Quella in cui, oh dei, gli dicevano che lo avevano accettato?
– No. Non ho risposto.
– Ma devi farlo entro il… quando scade?
– Il 25?
– Il 25.
Non era necessario che si girasse per controllare il calendario.
Le guance brune di Neena si accesero di rosso come i segnali di pericolo sulla ferrovia; Heath si ritrasse, la testa incassata nelle spalle come una tartaruga nel guscio.
Tre.
Due.
Uno.
Il clang della padella sulla griglia del fornello lo fece saltare sulla sedia; un bel po’ di uova strapazzate rimbalzarono e si sparpagliarono sui fuochi, mentre altre finirono sull’acciaio lucido del lavello. Neena mollò il manico della pentola per acchiappare le uova che volavano e rovesciò tutto quello che restava sul pavimento.
L’imprecazione che seguì era particolarmente originale: Heath ne prese nota mentalmente, magari prima o poi gli sarebbe venuta buona. Sua madre era particolarmente creativa, quando era furibonda.
– Mi prendi per scema?
– Ma cosa dici, ma’? Secondo te io…
– Secondo me mi prendi per scema.
– Non è vero!
– Allora dì che non ci vuoi andare e basta, senza prendermi per il culo.
– Madre!
– Madre un –
– Ok, va bene! Va bene, basta!
Il piatto della colazione era ancora immacolato e vuoto, non c’era niente che Heath potesse cincischiare mentre cercava le parole giuste. Meglio così, sarebbe andato dritto al punto.
– Non lo sapevo neanch’io cosa volevo fare, l’ho capito in questo momento. Non ci voglio andare. Non è che siccome sono fortunato e voi potete mandarmici allora devo andare per forza al college. Non ci vado. Voglio restare qui e fare il lavoro di papà. Punto.
Heath si alzò e la sedia strisciò sul pavimento, e il rumore del legno sul legno e della forchetta che cadeva, e le parole graffianti e sconnesse di sua madre — che dimenticava l’inglese per il Lakota quando era veramente arrabbiata — lo seguirono oltre la soglia.
 
Avere qualcosa da pulire a fondo non era necessariamente un male. Neena si chinò a terra e cominciò a strofinare furiosamente le piastrelle.
– Dove ho sbagliato, Jen? Ci tenevo a fare un buon lavoro, ci tenevo sul serio. Perché è così…
Ma lo hai fatto un buon lavoro, sei stata bravissima con lui. Di cosa hai paura?
– Proprio tu me lo chiedi?
Neena rimase seduta per terra con lo straccio in mano.
– Se non fosse fortunato come noi? Se buttasse via la sua vita? Ma non lo capisce, è come se non gli importasse davvero di niente. Nemmeno di se stesso, alla fine.
La voce di Jenna, confusa nel canto degli uccelli, non rispose più.
 
Heath si tolse la maglietta e la adoperò per asciugarsi la faccia, il collo e le braccia nude. La lunga corsa nel bosco con Buck gli aveva fatto bene, ma non poteva di certo passare tutto il giorno a correre. E poi restava da affrontare Isaias. Inoltre, se davvero voleva entrare nei ranger e diventare guardaparco era meglio che si desse da fare per la domanda, il test o quello che era; non aveva idea di dove si cominciasse.
Appena lasciata l’ombra verde degli alberi notò la novità.
Una vecchia Ford Focus era parcheggiata davanti al cottage, coperta di polvere come se avesse fatto la Parigi–Dakar. Il cofano era ammaccato in più punti e un Arbre Magique rosa shocking era appeso allo specchietto retrovisore. Una cosa di gran classe.
I turisti di solito si fermavano al campeggio e nessuno dei suoi amici aveva un’auto propria, nemmeno un rottame come quello. Concluso che in ogni caso non gliene fregava niente, Heath si infilò nella rimessa, seguito da Buck.
Controllò il cellulare.
Niente, né messaggi né email né una foto né un accidente di niente, neanche un vaffanculo. Rivkah era sparita nel nulla. Zero assoluto dalla sera del ballo.
Quelle cazzo di lacrime.
È l’ultima volta.
Non si può essere lasciati da qualcuno se non ci sei mai stato insieme, giusto? Lui su questo era stato molto chiaro. Tutto molto semplice e pulito, tra loro. Massima libertà, reciproca, s'intende.
E in ogni caso gli amici non si lasciano mai.
Heath scrollò le spalle e sollevò il telo che copriva l’Harley; Buck uggiolò e gli diede una musata, spingendolo indietro. Era geloso della moto; Heath era sicuro che la riempisse di parolacce lupesche ogni volta che lo lasciava indietro, quando correvano sulla strada.
Era davvero fantastica.
Heath era sicuro che la sua moto fosse femmina, lo sapeva e basta, ma per fortuna non assomigliava a nessuna delle altre donne della sua vita. Magari avesse potuto convincere Rivkah a perdonarlo – di che cosa, poi? – con un colpetto alla manopola del gas.
Solo a sfiorarla questa vecchia signora, questa bellezza nera e cromata, scattava in avanti in tutto il suo splendore selvaggio. Niente lacrime, cavolo, solo il suono sexy del motore che reagiva, come il mugolio basso di Buck quando lo grattava dietro alle orecchie.
I mille dollari meglio spesi della sua vita. Quando era tornato a casa con la moto, Neena si era arrabbiata da morire – tanto per cambiare – perché quei soldi dovevano servire per l’università. Ma al cuore non si comanda, giusto?
– Dovresti venire un attimo in casa, per favore.
La voce gelida di Neena gli scivolò giù per la schiena come un cubetto di ghiaccio.
– Ma’, per favore. Non voglio…
– Devo presentarti qualcuno, un mio compagno di università. E forse c’è bisogno di te.
Heath imprecò tra i denti. Doveva davvero farsi insegnare qualche imprecazione Lakota, prima o poi.
A dopo, tesoro. Non farò molto tardi.
Ridistese il telo sulle cromature scintillanti e seguì la madre verso la casa, sbuffando.
 
– Eccoli qua. Questo è il nostro Heath, te lo ricordi? Tirava le treccine a tua figlia. Heath, questo è il professor Charmaine.
Isaias sedeva in salotto in compagnia di un ometto magro con una chierica di capelli rossi, il volto coperto di lentiggini e l’espressione vagamente bovina.
Professore? E di cosa?
– Piacere di conoscerti, Heath. Sono Donald Charmaine e lei è Anna, mia figlia.
Di chi diavolo stava parlando?
Al tavolo con loro non c’era nessun altro. E poi eccola lì: seminascosta dietro la porta aperta della cucina, che le faceva ombra, c’era una ragazzetta con i capelli neri e la stessa pelle lentigginosa dell’ometto, ma ancora più chiara. Se ne stava lì in piedi a braccia incrociate, strette contro la pancia come per parare un colpo.
Portava jeans a pelle e una maglietta bianca a maniche lunghe, aderente alle braccia magre. Un sacchetto di tela troppo sottile con dentro un mucchietto d’ossa.
Tutti adesso guardavano verso Sacco d’Ossa, che fece un passo indietro e sparì dietro la porta. Nessuno parlava.
– Ahia! Che cavolo…
Heath si massaggiò il punto tra le costole dove Neena l’aveva colpito con il gomito e si schiarì la voce.
– Ok, uhm. Ciao. Sono Heath.
– Ciao.
La voce della ragazzina era sottile come un filo di fumo e si perse nel ronzio del frigorifero. Sulle teste degli adulti campeggiava il fumetto Qualcuno dica qualcosa, per favore!
Intanto la tipa guardava ostinatamente per terra e suo padre, Donald, arrossì fino alla radice dei capelli. Heath si beccò un’altra gomitata da Neena. Ma che diavolo voleva da lui? Se quella era muta lui non ci poteva fare niente.
– Ahem. Vi… vi fermate molto?
Traduco: quando vi levate dalle scatole?
Ahia, sbagliato di nuovo. Le orecchie di Neena fumavano.
– Donald vuole fermarsi solo due settimane ma tutti noi vorremmo che restasse almeno fino al Sundance Festival, vero, caro?
Isaias sorrise, il suo sorriso largo e sincero. Heath si sforzò di imitarlo.
– E siccome non se ne parla neanche che vadano a stare giù al campeggio, si fermano qui da noi. Tu cederai ad Anna la tua stanza.
 
Venti minuti dopo Heath scendeva le scale con una pila di abiti, libri e lenzuola tra le braccia. In salita veniva sua madre che si trascinava dietro per mano Sacco d’Ossa. La quale guardava per terra, così per fare qualcosa di diverso.
Nell’altra mano Neena reggeva un trolley rosa.
– Lo mollo qui, dopo lo porti tu di sopra.
Le due si appiattirono contro la ringhiera quando lo incrociarono, e il gorgoglio sommesso di un mi dispiace – ancora quella voce sottile – seguì Heath mentre scendeva gli ultimi scalini. Sua madre si schiarì la voce; allora Heath si girò verso le due femmine ormai in cima alle scale.
– Fai come fossi a casa tua – sibilò. Aprì la porta con un gomito e la roba rischiò di cadergli tutta sui piedi; la rimise insieme in qualche modo e si avviò verso la rimessa.
Decisamente una giornata di merda, quella.
 
Buck dormiva al sole.
Davanti alla rimessa c’era uno spiazzo in terra battuta che d’estate diventava polveroso; nelle ore più calde il lupo ci si rotolava voluttuosamente e poi si sdraiava sul fianco, impolverato e felice.
Così addormentato emetteva una specie di brontolio profondo, simile alle fusa di un gatto, sommesso come la corrente di un corso d’acqua sotterraneo. Gli occhi erano una sottile fessura nera, la bocca semiaperta e, tra le zanne spaventose, si intravedeva la lingua rosata. Ronfava come un cucciolo, Buck. Aveva sempre dormito in quel modo beato, fin da piccolo.
Heath si sedette all’ombra della rimessa e rimase ad ascoltarlo.
Avrebbe voluto entrare nei suoi sogni. Certo, loro due si capivano: bastava che si guardassero negli occhi. Ma i sogni, quelli erano suoi e basta.
Buck aveva segreti?
Hai mai ucciso qualcuno, vecchio mio?
Buck non aveva mai avuto bisogno di cacciare. Non aveva mai dovuto preoccuparsi di niente.

Ho ucciso sua madre. È mio.
Heath si era sempre occupato di lui, in tutto per tutto. Gli preparava il cibo, lo spazzolava e di tanto in tanto – quando il mezzo lupo glielo permetteva – gli faceva anche il bagno. E dormivano insieme. Andava bene, così? Gli bastava? Ogni tanto Heath se lo chiedeva.
Un giorno Buck era tornato con la pelliccia insanguinata. A Heath era preso un colpo; poi si era accorto che non c’era nessuna ferita, solo un graffio su un orecchio, e il sangue che imbrattava la pelliccia del collo, la splendida criniera focata, al novantanove per cento non poteva essere suo. Qualcuno doveva essersi messo sulla strada di Buck. Una preda? Un altro lupo?
Un rivale in amore?
Ecco, adesso Buck sognava.
Heath si chiese se nel sogno c’era anche lui.
   
 
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