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Autore: Fabio Brusa    16/07/2019    1 recensioni
"Fenrir Greyback è un mostro. Un assassino. Un selvaggio licantropo. Approcciare con cautela."
Quello che il mondo vede è solo il prodotto di ciò che mi è stato fatto.
La paura li ha portati a ritenerci delle bestie, dei pericolosi predatori da abbattere. E la vergogna per non averci aiutati li spinge a tentare di cancellare la mia stessa esistenza.
Forse finirò ad Azkaban. Più probabilmente, qualcuno riuscirà a uccidermi, prima o poi.
Non mi importa.
Non mi importa, fintanto che sopravvivrà la verità su come tutto è iniziato e sulla nostra gente.
Sui crimini del Ministero e sull'omertà di uomini come Albus Silente.
Su come il piccolo H. sia morto e, dalle sue ceneri, sia venuto al mondo Fenrir Greyback.
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GREYBACK segue la storia del famoso mago-licantropo. Attraverso vari stili narrativi, dai ricordi di bambino ad articoli di giornale, dagli avvenimenti post ritorno di Voldemort a memorie del mannaro a Hogwarts, in 50 capitoli le vicende dietro il mistero verranno finalmente portate alla luce.
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Fenrir Greyback
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Più contesti
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1/50

La prima cosa che ricordo è il sangue di mia madre.

Si rivela a fatica nella mente, un'immagine oscurata da una fitta nebbia acre. Solo l'odore è nitido, come se lo stessi annusando ora: umido, ferroso, violento e inarrestabile nel suo spargersi per la stanza. I suoni, i colori e le forme, invece, sono confusi e perduti. Forse, se avessi accesso a un Pensatoio, potrei osservare il mio primo ricordo. Vedere con i miei occhi se quello che mi è stato raccontato corrisponde a verità. Anche se ormai ha poca importanza. Lei è morta e non saprei dire nemmeno di che colore fossero i suoi occhi.

La verità è che non mi è mai mancata. Nella baracca fuori Leek, nelle Moorlands, io e mio padre eravamo in grado di badare a noi stessi. 

Eravamo in città da un anno e l'unica cosa che conoscevo erano i campi. I prati verdi e sterminati che si infilavano ovunque, dal limitare del bosco fino a dentro le stradine private. A malapena riesco a figurarmi l'interno della catapecchia di legno marcio dove avevamo trovato rifugio, con un'unica stanza sudicia e il pentolame appeso alle pareti, ma i prati, invece, li ho ancora dentro. Grilli neri e grossi come il mio pugno infantile scappavano veloci dentro le loro tane, senza che riuscissi ad afferrarli. A volte, però, mi convincevo a stare in silenzio. Rimanevo immobile e senza emettere un fiato talmente a lungo che l'erba stessa ricominciava a crescere, come se non ci fosse nessuno a spiarla.  I bruchi strisciavano sui lunghi gambi dell'erba-capra, mangiando fino a diventare grassi e oziosi. Il vento tiepido della primavera faceva ondeggiare gli steli, e io li guardavo. Ci parlavo, aspettandomi una risposta.

"Dove passi l'estate, piccolo bruco?"

"Quando diventi farfalla, mi passi a trovare?"

Credevo di vivere in una sorta di paradiso, con mamma e papà che si assentavano durante il giorno, per lasciarmi alle cure del sole e del nostro cane Ursula. Credevo che fosse lei a tenere lontane le persone. Era un'ombra torreggiante e costante, che mi accompagnava all'avventura ogni giorno, fino all'ingresso di Curtney Street. Se volevo seguire i miei genitori, spinto dalla mia inesauribile curiosità, lei mi tirava per le bretelle, indirizzandomi di nuovo verso casa.

Una volta vidi un uomo con il cappello arrivare fino all'ingresso della via. Lo ricordo perché fu strano osservare come si fermò, di fronte al nulla, perplesso e incapace di proseguire. Esattamente come una formica, spinse il naso a destra e a sinistra, scegliendo una strada alternativa per i propri passi.

Ero al sicuro da tutto.

Da tutto, tranne che dai due maghi che tornavano ogni sera con il pane, i cavoli e la carne secca.

La cosa peggiore che mi potesse capitare era di essere amato troppo. Mio padre tornava sempre per primo. Ogni sera, in largo anticipo sul calare del sole, veniva a cercarmi  fra l'erba alta. Io cercavo di nascondermi, e pensavo anche di farlo bene, seguito a ruota da Ursula e dalla sua testa bavosa.

Avevamo un rituale. Lui diceva sempre:

- So che c'è un bambino in questo campo. Fatti vedere e non ti sarà fatto alcun male! -

Io allora ridevo, mi cacciavo dietro una pianta e urlavo:

- Prova a trovarmi, faccia di cinghiale! -

Così partiva la caccia. Mio padre si abbassava a quattro zampe e cominciava a grugnire, facendosi avanti a zig-zag, fingendo di non avere già visto me o il cane. Scappavo finché potevo, o fino a che credevo di non essere stato scorto, prima di alzarmi e tentare una corsa su gambette che avrebbero mal servito persino un topolino. Ursula si metteva in mezzo a noi, cercando di proteggermi, ma presto o tardi cadevo a terra sconfitto dalle risate e dal solletico.

Il cane non si rilassava mai. Rimaneva impettito, al mio fianco, ad osservare mio padre riempirmi di pernacchie e pizzicotti. Sembrava sempre così strana, Ursula. 

Era un cane che non rideva mai.

   
 
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