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Autore: MackenziePhoenix94    17/07/2019    0 recensioni
SECONDO LIBRO.
“Un sogno non può durare per sempre. Arriva per tutti il momento di svegliarsi e di fare i conti con la realtà.
E quel momento, purtroppo, è arrivato anche per me”.
Dopo due sole settimane, Nicole ritorna a Chicago portando con sé i segni, sia mentali che fisici, della sua relazione con Theodore Bagwell.
Ciò che ha in mente è chiaro e ben delineato: lasciarsi alle spalle l’uomo che l’ha presa in giro e ricominciare una nuova vita, questa volta sul serio; ma i suoi piani vengono nuovamente sconvolti quando riceve una chiamata proprio dal suo ex compagno.
L’uomo, in lacrime, la supplica di raggiungerlo e, così facendo, costringe Nickie ad affrontare l’ennesimo bivio: rifiutare o accettare?
Ancora una volta, Nicole decide di seguire il proprio cuore: senza esitare, parte per Panama, per raggiungere Bagwell, del tutto ignara delle conseguenze che la sua decisione avrà.
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, T-Bag
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Un dolore sordo alle ginocchia.

Il rumore di una porta sbattuta con forza.

Il buio assoluto.

Mi alzo dal pavimento lentamente, stringendo i denti, mentre un odore di muffa ed acqua stagnante mi aggredisce le narici; sbatto più volte le palpebre, guardandomi attorno, e grazie alla luce che filtra da una piccola finestrella riesco a dare una forma concreta al luogo in cui sono stata relegata: si tratta di una vecchia e stretta stanza, scavata nella pietra, traboccante di oggetti, scaffali e mensole arrugginiti e ricoperti di ragnatele.

Alcune gocce di umidità cadono da un tubo che attraversa l’intero soffitto, e formano una piccola pozzanghera sul pavimento, a poca distanza dai miei piedi, che emana lo sgradevole odore di cui l’aria è impregnata.

Sono in uno scantinato, senza alcuna ombra di dubbio.

Mi avvicino alla porta, zoppicando a causa di un taglio al ginocchio sinistro che mi sono procurata nella caduta, provo a spingerla, tirarla e perfino a tempestarla di pugni, ma ogni mio tentativo è vano: il legno non si sposta di un solo millimetro perché qualcuno lo ha sbarrato dall’esterno; l’unico risultato che ottengo è di ritrovarmi i palmi delle mani sanguinanti, a causa di alcune schegge che si sono conficcate in profondità.

Con un singhiozzo, ignorando i rivoli di liquido scarlatto, raggiungo la piccola finestrella, appoggio le mani sul davanzale di pietra e vago con lo sguardo sul giardino, finché non trovo ciò che sto cercando: a qualche metro di distanza da me, poco lontano dal ciglio della strada, c’è un uomo seduto sul ceppo di un albero.

Non posso vedere il suo volto perché mi dà le spalle, tuttavia è a lui che rivolgo le mie suppliche.

“Teddy, ti prego” urlo, emettendo un singhiozzo più forte, e sento delle lacrime rigarmi le guance prima di congiungersi sotto il mento “mi dispiace, ho sbagliato, ho fatto un’enorme cazzata e me ne rendo conto solo adesso! Ti prego, non è ancora tardi per rimediare! Possiamo parlarne, come due persone adulte e mature, e trovare una soluzione! Ti prego, Teddy, ti prego, fammi uscire di qui! Ti prego! Mi dispiace, mi dispiace terribilmente, Teddy, sono stata una stupida!”.

Niente.

Ogni mia parola cade nel vuoto, inascoltata.

Teddy non si muove, non si volta e non una sola parola esce dalla sua bocca; non so neppure che cosa stia passando per la sua testa in questo momento, e per la prima volta da quando la nostra storia è iniziata, mi ritrovo ad avere profondamente paura dell’uomo che ho sposato.

E la paura che sento si trasforma in una morsa che mi aggredisce la gola e lo stomaco, stringendoli con forza, quando lo vedo girare il viso di scatto, in direzione di un’accetta abbandonata, conficcata nel ceppo di un altro albero.

Trattengo il respiro, mi allontano di scatto dalla finestra e retrocedo finché non sbatto con la schiena contro una parete; la vibrazione provoca la caduta di un oggetto da una mensola, ma io non ci faccio caso, e mi lascio scivolare a terra, improvvisamente svuotata da ogni energia.

Un altro singhiozzo, misto ad un gemito, esce dalle mie labbra; mi passo le braccia attorno alle ginocchia, stringendole contro il petto, e rivolgo lo sguardo in direzione della porta, in attesa di vederla spalancarsi.

In attesa di vedere il mio carnefice che si prepara ad uccidermi con un’accetta affilata, per poi farmi a pezzi in modo da disfarsi del mio cadavere il più velocemente e facilmente possibile.

Il tempo inizia a scorrere lentamente, distorcendosi, fermandosi addirittura, portando quasi allo spasmo la tortura fisica e psicologica che sto subendo; per un attimo mi illudo perfino che la porta non si aprirà, ma le mie preghiere non vengono ascoltate, e quando accade, quando vengo investita da un fascio di luce pomeridiana, non riesco a trattenere un urlo, e mi porto le braccia al volto, assumendo una posizione di difesa, per quanto essa possa essermi utile contro un uomo armato, furioso, che desidera solo massacrarmi.

“Calma! Calma, stai calma!”.

Una voce maschile e completamente sconosciuta giunge alle mie orecchie.

Apro gli occhi, sbattendo le palpebre più volte, ma non abbasso del tutto le braccia, ancora posizionate davanti al mio viso: vicino alla porta spalancata dello scantinato non c’è mio marito, ma bensì un poliziotto con una torcia in mano, come testimonia la divisa nera che indossa; alle sue spalle, qualche metro più indietro, c’è un altro poliziotto armato, e riesco perfino a vedere la loro volante parcheggiata in giardino, con i lampeggianti ancora accesi.
“Cosa… Io non…” balbetto, confusa, incapace di formulare un discorso coerente e sensato.

“Stai tranquilla, adesso è tutto finito. Abbiamo ricevuto una chiamata anonima che ci comunicava la presenza di un ostaggio qui dentro” mi spiega l’uomo con la torcia in mano, facendo un passo verso la mia direzione, aggiungendo altre parole per tranquillizzarmi; sbatto di nuovo le palpebre e socchiudo le labbra in un’espressione sicuramente instupidita, scuoto la testa con forza.

“Non è possibile” mormoro, ritrovando la voce “questo non è assolutamente possibile. Nessuno sapeva che ero rinchiusa qui dentro”.

Nello stesso momento in cui pronuncio queste parole, un sospetto si fa strada nella mia mente.

Mi alzo di scatto dal pavimento ed esco dallo scantinato correndo, scansando bruscamente il poliziotto che tenta inutilmente di fermarmi.

Spalanco la porta d’ingresso di quella che è stata la mia casa nelle ultime due settimane e mi precipito al piano superiore, rischiando d’inciampare sui scalini; con il fiato ormai ridotto ad un rantolo, apro la porta della mia, della nostra, camera da letto, ma la trovo vuota.

Vuota, esattamente come il resto dell’abitazione.

Sto per uscire, quando un piccolo oggetto abbandonato sopra al materasso attira la mia attenzione; mi avvicino ad esso con gambe tremanti, ed allungo la mano destra per raccoglierlo ed avvicinarlo al mio viso per osservarlo meglio.

Si tratta di una collanina dorata.

Il ciondolo, costituito da una fede nuziale, dondola leggermente nell’aria.

La stessa collana che ho regalato a Teddy il giorno delle nostre nozze, a Las Vegas, perché la protesi gl’impediva d’indossare la fede all’anulare sinistro.
   
 
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