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Autore: Pachiderma Anarchico    17/07/2019    1 recensioni
_Sequel di "Too frail too live, too alive to die."_
La pelle è bianca come la mia, ma più inconsistente, più rovinata, con le occhiaie che assediano le palpebre traslucide come presagi oscuri.
I capelli sono sporchi, di un rosso stinto, spezzati e disordinati.
Qualche riccio non ben definito le ricade sulle guance non più piene come una volta, non più da bambola.
"Nessuno spettacolo, Dominik. Solo la verità."
Non basta lasciare che la tinta sbiadisca e i ghirigori rosa dell'ombretto scompaiano per dire la verità, Sylwia.
Non basterebbe una vita intera per dire la nostra verità.
"E qual é la tua verità? Sentiamo."
Quando risponde sembra quasi una ragazza.
"L'unica possibile."
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Too frail to live, too alive to die.'
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// Neanche ve lo dico da quanti mesi non pubblico un capitolo di questa storia, ma tra i vari impegni, drammi e organizzazione del proprio tempo (e della propria sanità mentale) pessima eccoci qui, giunti nel vivo di un 2019 frizzante come la Ferrarelle. Mi auguro che vi stiate divertendo e che l'estate vi permetta di contnuare a seguire "Cross my heart, that I'll die for you" nonostante la discutibile tempistica dell'autrice. 
Detto ciò, grazie a tutti coloro che leggono e perennemente grazie a Megara X
Il tempo non ci scalfirà
 


CAPITOLO 3
Sciroppo di Mirtilli
 
 
 
Aleksander_ Settembre
 
 
Appena mi chiamarono ebbero giusto il tempo di pronunciare le parole “Incidente”, “Ospedale, “Dominik” che me lo figurai in poltiglia sanguinolenta sulla strada, da qualche parte nel bel mezzo del nulla dove amava gironzolare lui.
Perché è così che t’immagini Dominik Santorski se ti dicono che è stato coinvolto in un incidente.
E m’immagino anche che sia il primo essere vivente (spero che sia ancora tra i viventi) che vedrò non appena varcherò la soglia dell’ospedale, attanagliato come sono dal rimorso (non lo ammetterò ad alta voce) di avergli detto cose un tantino brutte che non pensavo realmente.
Sono ancora incredibilmente arrabbiato con lui, e sono anche più incazzato perché è una settimana che non ci rivolgiamo la parola, né di persona né per un pidocchioso whatsapp, neanche con il passa-parola, perché me lo sono scelto con solo una piccola, minuscola, quasi inesistente punta d’orgoglio.
Però me lo sono scelto, e adesso accanto all’irritazione c’è anche quella fastidiosa, rancida sensazione nelle viscere che mi suggerisce di non affrettarmi troppo perché potrei trovarlo in condizioni che non potrei sopportare.
Aleksander Lubomirski può sopportare qualsiasi cosa, dannazione, anche l’eventuale corpo di Dominik Santorski spappolato.
Oppure no?
Ma quando io e mio zio finalmente entriamo nella stanza dove tengono in ostaggio la testa di rapa mora che non fa altro che morire e farmi prendere attacchi di cuore, non è Dominik, spappolato o meno, la prima cosa che vedo.
E forse l’eventuale suo maciullamento non è lo scenario più terrificante.
Mio zio capisce l’antifona con un secondo in ritardo ed entrambi indietreggiamo come se ci fossimo trovati difronte un gruppo di Zombie.
Ma la scena che ci si para davanti è molto più agghiacciante.
Mia madre, dove effettivamente deve stare -accanto al paziente di cui al momento scorgo solo una scarpa- che osserva con crescente preoccupazione un allarmato Andrej Santorski discutere animatamente con la sua ex-moglie Beata Nowak, sorretto moralmente dalla sua nuova compagna candidata-premier-bionda-di cui-non-mi-sforzo-di-ricordare-il-nome che gli fa pat pat sulla schiena, smentita a sua volta da mio padre che palesemente non aspettava altro che trascinarla in un dibattito sui fondi europei.
Il tutto infiocchettato dalla presenza (terrorizzati anche loro, poverini) di due poliziotti che parlano con una ragazza bionda ad un lato di Dominik.
E Dominik oh… appena riesco a vederlo in quell’ammasso aggrovigliato di voci e insulti è l’esatto riflesso di come mi sento.
Una mano sulla bocca, a metà fra la rassegnazione e l’orrido.
“E’ mai possibile che ogni qual volta mio figlio si trovi in tua presenza gli succeda qualcosa che lo fa finire in ospedale?!”
“Be-Beata, posso spiegarti…” E’ quasi comico l’effetto deciso che Andrej vorrebbe imprimere alla voce, con il risultato di sembrare un cane a cui hanno appena pestato la coda.
“Beata mi scusi, ma davvero non è nostra la responsabilità, Dominik era già uscito di casa quando…”
“Mi auguro per lei che non sia così che intende gestire il paese.” Ed ecco mio padre, che invece in quanto a decisione sembra quello che ha pestato la coda del cane.
“Ma cosa c’entra questo, Lubomirski?” 
“Ah, dunque c’era anche lei?”
Non ho mai visto la madre di Dominik davvero furiosa, ogni volta in cui la situazione rischiava di degenerare quest’ultimo mi trascinava a fare qualsiasi cosa lontano da lei, dal mangiare tre gelati a ripetizione allo studiare le posizioni del Kamasutra pur di non assistere a quegli spettacoli.
E solo adesso capisco che non lo faceva perché voleva provare la posizione numero 55.
Beata lievita come un panettone, si gonfia come un canotto da salvataggio, trattiene il respiro e sputa, letteralmente, fuoco.
A nulla valgono i tentativi di mio padre e del suo nuovo compagno -un certo francese Ambroise Amedè di pacificarla, è semplicemente un fuoco d’artificio sfuggito ad ogni controllo, impazzita come solo il figlio sa fare.
Ed è favoloso, davvero, vedere come Andrej Santorski si rimpicciolisca a vista d’occhio, di come la bionda gli si nasconda dietro, di come persino mio padre sia rimasta senza parole.
Ambroise, che ha visto in me lo stesso, tragico destino di esserci inna… beh, di provare cose per le persone che meno si adattano ad uno stile di vita tranquillo, si affianca al sottoscritto, in silenzio reverenziale.
“Incontri Dominik con lei dal primo giorno in cui te la sei trovata! Ti è mai passato per quella testolina bacata che forse non aveva nessuna voglia di vedere con chi te la spassavi questa volta, a meno di un mese dalla fine del nostro matrimonio?!”
Andrej ci prova a rispondere, davvero, lo sforzo c’è, si vede, ma non supera neanche la linea di partenza che la bionda prende il sopravvento.
“Beata, non mi sembra affatto il caso di rinfacciare ciò che è avvenuto in passato e non mi sembra neanche il caso che sia così scettica nei modi in cui Andrej si rapporta con suo figlio.”
Ed è l’Apocalisse.
Beata scaccia con uno scatto così repentino del polso la frangia dagli occhi da ricordare un serpente a sonagli.
Assomiglia così tanto al figlio da far paura.
“Mio marito” sibila, “anzi, grazie al cielo il mio ex marito, non si rapporta con suo figlio, lui fa le stronzate e poi pretende di nascondere tutta la merda sotto al tappeto.”
La bionda avrebbe fatto meglio a lasciare che Andrej si ritirasse come una camicia sgualcita nella sua disfatta piuttosto che toccare l’argomento.
Ma lei non sapeva, non poteva sapere cosa ci fosse dietro, quanto l’iceberg fosse profondo.
La punta sembrava già ingombrante a sufficienza.
Ma lei pensa che sia solo una mera questione d’interessi sentimentali, che Beata sia stata lasciata dal Signor Santorski per lei.
La signora, o signorina, non è al corrente del fatto che sia stata Beata a chiedere, no, pretendere il divorzio e a sbattere Andrej fuori di casa prima che lui facesse la sua conoscenza.
“Non mi sembra il luogo adatto per esprimersi in questi termini Beata.” 
“Non le sembra di potersene andare a f-“
Ambroise si getta in avanti posandole le mani sulle spalle, zio Ruben se ne va da mio padre a chiedere cosa diamine sia successo prima che lo shock gli passi e ricominci a parlare del suolo pubblico e vorrei saperlo anch’io a questo punto, cos’è successo.
Mi avvicino all’unica persona sana di mente nella stanza.
E definire Dominik Santorski sano di mente vi fa capire quanto io sia disperato.
“Mi dici cos’è successo?”
“Non lo vedi da te? La famiglia Addams, la famiglia Simpson e i Griffin si sono incontrati.”
“La tua qual è?”
“La famiglia Addams ovviamente, non ti do una somigliata a Mercoledì?”
“Ovviamente. Comunque mi riferivo all’incidente, e al surclassabile dettaglio che hai una spalla ridotta a brandelli.”
“Per quanto brutto sembri è solo un’ematoma, Aleksander” mi comunica mia madre con il suo tipico tono professionale da specialista.
“Chiamalo ematoma… e’ più nero dei suoi capelli.”
Dominik si siede meglio sul lettino e fa un gesto di noncuranza con la mano.
“Non è uscito nemmeno sangue.” 
“Ed è già un record per te. Che stavi combinando stavolta?”
Alza le mani. “Camminavo, ecco cosa combinavo. Non è stata colpa mia stavolta, una macchina ha improvvisamente dimenticato come si frena appena mi ha visto.”
Osservo i poliziotti e incrocio le braccia al petto. “Perché parlano con quella ragazza?”
“E’ stata la prima a trovarmi dopo che sono rotolato in un cespuglio per non finire morto ammazzato.”
“Un… cespuglio?” sbuffo rumorosamente e lo guardo con rimprovero, una mano su un fianco e il corpo ruotato di 60 gradi, e mi rendo conto troppo tardi che questa è una classica posa di mio padre.
“Ehi, ha attutito l’impatto, avrei potuto sbattere la testa e allora avresti parlato con i resti del mio cervello.”
Gli do ragione in silenzio e con un cenno indico la bionda in miniatura. 
“Chi è comunque? La tua nuova fiamma?”
“La mia?” Nik accenna un sorriso e non so davvero cosa ci sia di divertente fino a quando non chiama “Cecylia” e la ragazza si volta.
La borsa le cade dalle mani.
Cerco Dominik con lo sguardo, ma lui se la sta godendo troppo per darmi spiegazioni.
Cecylia si piega per recuperarla senza staccarmi gli occhi di dosso, quasi temesse di vedermi scomparire da un momento all’altro.
“Aleksander, questa è Cecylia, la figlia della nuova compagna di papà; Cecylia, questo è Aleksander Pallone-Gonfiato Lubomirski, Primo del suo nome.”
Faccio una smorfia e mi faccio avanti per stringerle la mano.
Lei mormora un “Lo so” con aria sognante e io apprezzo sul serio questo effetto vagamente cinematografico, ma inizio a preoccuparmi che vada in apnea.
E non accenna a lasciarmi la mano.
“Chiamami Leks.”
“Ti chiamo come vuoi.”
Chiedo aiuto a Dominik ma è troppo impegnato ad abortire un attacco di ridarella nei colpi di tosse.
“Quindi… sei stata tu a trovarlo?”
“Ero uscita di casa per chiedergli una cosa su di t… una cosa, e l’ho visto nel cespuglio al lato della strada con le spine delle rose sulla faccia e i petali in testa.” 
“Una visione celestiale” mormora Dominik.
“E non hai visto chi c’era in quella macchina?” continuo, ormai avvezzo al suo sarcasmo.
“No, i fari erano troppo luminosi.”
“Crediamo fossero luci al led, bianche e abbaglianti, ma non ne siamo certi.” I poliziotti si avvicinano. “Sono vietati.”
“Credete che sia stato Asher Brown?” chiedo, consapevole di essermi inacidito sulle ultime due parole.
“E’ l’ipotesi più plausibile ovviamente, ma non escludiamo altre strade. Signor Santorski, è giusto chiederle di non andare in giro da solo per un po’, almeno fino a quando non ne sapremo di più o non l’avremo preso.”
E’ chiaro come il sole che Dominik è lì lì per protestare, ma è ancor più chiaro che ricorda fin troppo bene cosa Asher sia capace di fare, e rinuncia all’ultimo momento.
“Certo che sono pazzi” commenta Cecylia a mezza voce, con l’attenzione rivolta verso il capanello di donne e uomini al centro della stanza.
Mia madre s’è aggiunta al ‘confronto’, la faccia tesa da primario.
“Per cortesia potreste risolvere le vostre battaglie irrisolte fuori dal mio ospedale?”
Il tipo francese cerca di far ragionare la madre di Nik, ma è un collaudatore di alberghi di lusso non un domatore di leoni, e Beata sembra una leonessa inferocita.
Io e Dominik rispondiamo in contemporanea.
“Tu non ne hai idea.”
 
 
***
 
 
_ Ottobre
 
 
Dovevo saperlo che mi avrebbero presentato il conto.
Li vedevo confabulare già da qualche giorno, e se prima i bisbigli e le occhiatine in tralice erano passate inosservate, a pranzo sono compromettenti.
Samuel si premura di lisciare il tovagliolo da venticinque minuti, è diventato così liscio che credo abbia due ferri da stiro al posto delle mani.
E’ sudore quello sulla sua fronte?
Per non parlare di quel ragazzaccio della fidanzata.
Gli occhi verdi appaiono come palline da tennis, saltano da una parte all’altra che neanche un Terminetor, da Samuel a me a Dominik alla madre che ha sporto la testa per chiederci se volessimo ancora cheescake ai frutti di bosco.
“Allora io papà andiamo dai Czarcek, fate i bravi.” Sorride e le manda un bacio prima di scomparire.
Un bacio sibillino, un sorrisetto di troppo.
Samuel sprofonda nella sedia, Dominik sorseggia il suo vino senza guardare nessuno e Sandra si alza di botto.
Manda indietro la sedia con un colpo di anche ed esce. Ma deve aver pensato a qualcosa durante il tragitto dalla veranda alla cucina, perchè prende la torta e la sbatte sul tavolo così forte che il mascarpone oscilla e qualche frutto si suicida.
“Glielo dico io.”
“Che?! No, no, no… ne abbiamo già parlato-“
“Ora dovresti parlare. con loro. Ora Samuel.”
Samuel ha appena ingoiato un limone rancido e io davvero non capisco cosa ci possa essere di tanto grave.
Andiamo, è di Samuel che si parla.
Il massimo che abbia mai fatto di male è stata la colossale sbronza in terza media senza neanche finire in ospedale, si è solo risvegliato con un’emicrania andata avanti per cinque giorni.
E con Sandra come pastore tedesco sarebbe matematicamente impossibile fare altro.
Eppure guardateli… come cercano il coraggio per dirlo.
Samuel soprattutto, Sandra sembra averle già trovate da un pezzo, e vuole spiattellarle tutte insieme alla cheescake.
Taglia la torta con la delicatezza di un macellaio, la spiaccica nel piatto e ci passa i piatti uno per uno, continuando a corrodere il mio amico con lo sguardo.
Non è che anche lei è una lontana parente di Beata? Così, per dire.
“Sì beh… ecco, sì. Sì, ecco, io e Sandra… noi… noi avremmo pensato di… sì beh… pensavamo di… proprio noi… di-“
Ci sposiamo.
Samuel si affloscia.
Un mirtillo mi è appena andato storto.
Vengo assalito da un attacco convulso di tosse e Dominik mi batte una mano sulla schiena senza nemmeno guardarmi.
“Voi… COSA?”
“Che c’è di male?”
“Sandra tu… in tutta franchezza non stai bene fattelo dire. Samuel… neanche ti commento. Dimmi solo che ti ha costretto, ricattato, minacciato di tagliarti le palle perché potrei svenire tipo: adesso.”
“Beh… Leks… me l’ha chiesto lei in realtà. Ma io ho detto subito… sì, ecco.”
Dominik sposta la mia fetta di cheescake.
“Non svenire nel piatto.”
“Subito sì… subito sì. Avete vent’anni porca miseria, in America non potreste neanche votare.”
“Io ne ho quasi ventuno.” La tedesca sorride, irremovibile. “E poi in America si sposano presto.”
“Non a vent’anni” sibilo. “Oh andiamo… Nik di’ qualcosa anche tu.”
Il moro si raddrizza, fa schioccare la schiena, poi il medio, poi l’indice. Posa il bicchiere e… “E’ molto romantico. Congratulazioni.”
Mi spiaccico le mani in faccia. “A chi ho chiesto.”
“Eddai, stanno bene insieme.”
“Questo NON basta per sposarsi.”
“Ci amiamo.” 
“E ‘sto cazzo Samuel, il matrimonio è la fine di tutte le gioie, non te l’hanno detto? Che bisogno c’è di farle finire ora?”
Averto lo sfarfallio dello sguardo di Nik danzarmi attorno, se la sta spassando troppo anche solo per parlare. Si sta divertendo più del dovuto ultimamente.
“Non se ne parla. No, no, no. Sempre e per sempre no. Non darò mai la mia benedizione.”
Nik alza gli occhi al cielo e Samuel risponde con una voce sottile sottile che sa già di colpevole: “Allora sarebbe inutile chiederti di farmi da testimone…?”
Potrei uccidermi.
O ucciderlo.
O uccidere tutti i presenti per risparmiarci la follia di questa conversazione.
“Cosa vuoi chiedermi?!”
Si guardano tutti, escludendomi nella mia isolotta di sanità mentale.
Perché sono assolutamente certo che l’unico ad avere ancora la facoltà d’intendere e di volere qui dentro sono io.
Scuoto la testa. “No… no in salute e malattia, in tristezza e in povertà-“
“Ci lasciate soli un attimo?”
“…per amare e onorare il no finchè morte non ci-“
“La finisci? Mi metti ansia.”
Quei due traditori sgattaiolano dentro casa.
Dominik finalmente ha negli occhi un luce più grave.
Avrà compreso finalmente la serietà della cosa?
“Voglio uccidermi.”
“Dopo ti spiego come si fa. Ora mi ascolti?”
Non gli dico di sì ovviamente, perché se altrimenti si monta la testa e chi lo ferma più, ma smetto di commiserarmi.
“E’ una cosa tanto brutta che il tuo migliore amico ti voglia come testimone in un momento così importante per lui?”
“E’ proprio il momento che non digerisco.” 
“Quanto sei megalomane, sarà un’occasione come un’altra per metterti quei costosi smoking d'alta sartoria e fare la sfilata nella navata della chiesa.
Sa di cosa sta parlando, ma rimango fermo nella mia isolotta di buonsenso.
“E potrai dare un decisivo contributo all’organizzazione perché non vogliamo che Samuel vada in crisi esistenziale prima di pronunciare il sì.”
Alzo il mento, accavallo le gambe -questo Jeans mi sta proprio bene- e volo molto più in alto della sua capacità di raggiungermi.
Non farai breccia dentro questo muro stavolta, Dominik.
“Non se ne parla neanche per sogno, neanche per sbaglio. ASSOLUTAMENTE, INCONTROVERTIBILMENTEA, INNEGABILMENTE N-“
“…pompino.”
Il ‘no’ affoga nella mia stessa saliva.
Ho capito male.
“Come?” rantolo con voce strozzata.
Ho capito benissimo.
“Ti faccio un pompino se dirai di sì, farai da testimone e non romperai più le palle.”
Dominik se non ‘fa breccia’, il muro lo fa saltare in aria.
Sbatto le palpebre, attonito come dopo una dose di anfetamina.
“Ma se non vuoi…” si fa passare la lingua sulle labbra, ritornando a concentrarsi sul suo bicchiere di vino.
Che grandissimo bastardo.
Come se già una volta questo gesto non mi abbia mandato in escandescenza.
Come se la sua bocca non mi faccia impazzire.
“Davvero ci stai pensando?”
“Che? Non ho già detto sì? Devo averlo fatto solo nella mia mente.”
Sospiro allargando le braccia.
“Certo che non ci sto pensando, a che devo pensare? Accetto. Accetto tutto. Faccio anche il prete se vuoi.”
“Ragazzi…" annuncia Dominik a voce alta, "è un sì.”
Formo con un labiale silenzioso la parola 'vigliacco' nella sua direzione mentre Sandra mi getta le braccia al collo e Samuel si lascia cadere su una sedia.
Il biondo avvicina la mano per battermi il cinque.
Lo guardo comunque male mentre le nostri palmi schioccano.
“MA, non metterò mai il color pesca.”
La ragazza bacia Dominik sulla guancia. “Se Dom accetta di farmi da testimone credi che potrei fargli indossare il color pesca?”
“E poi perché il color pesca?” chiede il mio forse-ancora migliore amico con tono più rilassato, ora che il pericolo è scampato.
“E che ne so, è così che fanno nelle commedie americane. E dato che voi mi sembrate una commedia americana, meglio metterlo in chiaro.”

 
***
 
 
Dominik_ Novembre
 
 
“Tutti ai posti di combattimento, il piano è il seguente.”
Sandra dispiega sull’enorme ripiano di cottura elettrica nella cucina di Samuel (compresa di gas elettrico, termostato ad alta precisione e in vetro inossidabile) un’enorme mappa della città di Varsavia, come se fossimo turisti sperduti provenienti dal villaggio di Umululo o ribelli della Resistenza polacca durante l’occupazione Nazista.
Sandra ricorda più un Nazista che un Umululo, con gli incroci e le linee di dieci colori differenti che ha tracciato fra strade, piazze e zone pedonali.
“Io, cugina Karol e Nik ci troveremo qui a Chmielna, mentre tu Samuel, tua sorella –Ciao Sarah- e Leks sarete qui, in Nowy Swiat. In questo modo non dovremmo incontrarci durante l’acquisto dei vestiti. E se i miei calcoli sono esatti, a Samuel verrà l’ansia al terzo vestito, darà di matto e sceglierà quello che non avrà misurato, il tutto in una ventina di minuti. Leks farà la passerella per tutto il negozio, passando davanti ad ogni specchio due volte, e sceglierà quello che gli fascia meglio il didietro –o quello che avrà fatto svenire almeno tre commesse su cinque- quindi almeno un'ora piena per lui. Katia è una povera anima che compatisco profondamente e che impiegherà dieci minuti giusto per uscire dalla boutique e andarsi a prendere un superalcolico che le resetti il cervello e le faccia dimenticare tutto. Intesi?”
Samuel prova a spiaccicare parola, credendo che questo sia il momento di avere un'opinione, ma Sandra si stava soltanto riprendendo fiato e continua.
“Noi, invece, cambieremo cinque negozi perché la mia cara cuginetta è l’indecisione incarnata, ed è pure rompipalle: una giacca sarà troppo stretta, un pantalone troppo lungo, una camicia troppo bianca, un bottone troppo abbottonato. Contiamoci quarantacinque minuti a negozio. Nik, se ci ho capito qualcosa, proverà tutti i vestiti in vendita e, abbinando ad ogni abito un paio di scarpe diverse, facendo tagliare le vene a commesse e commessi perché, per quanto gli stia bene il modello attillato, non ne possono più di vederselo ancora tra i piedi dopo essersi infilato in cinquanta smoking differenti, alla fine prenderà il primo che avrà misurato e che in realtà aveva già scelto. Da un’ora in su. Ti invito lo stesso Nik.”
Finalmente respira e ci guarda, e noi davvero non sappiamo se avremo mai voce in capitolo o meno.
E’ certo che Samuel abbia rinunciato anche al capitolo.
“E si può sapere tu quanto c’impiegherai?” chiede Karol.
“Io sono la sposa, fino a sette giorni sono giustificata.”
Sento Leks armeggiare alle mie spalle e portare sul tavolo sei tazze di caffè.
“E i colori?” s’informa.
 Scommetto che sta già pregustandosi la visione di se stesso in una giacca nuova di zecca di una qualche nuova collezione esclusiva.
“Blu e argento, o grigio per gli smoking, se volete.”
“Come a Capodanno?” a Sarah quasi non cedono le gambe.
“Ma dai, sarà una cosa diversa dai soliti rosa avorio, giallo calendula e gelsomino. E poi non esiste che io metta un abito bianco" risponde Sandra.
Il sorriso di Leks straborda da dietro la tazza.
“Sei ancora così sicuro che sia stata una buona idea?”
Samuel lo guarda stralunato. “Ma… ma… Sandra” quasi piagnucola.
“Oh, d’accordo! Ti facilito ancora di più la cosa, tu vestirai di blu con qualche cosa di grigio o argento, fai un po’ tu, e io d’argento con qualcosa di blu.” Alza le mani, schiarisce la voce, sventola le braccia come bandiere.
“I testimoni vestiranno al contrario di noi, ovvero di blu i miei, di grigio i tuoi. Tutto chiaro? Bene? Bene. Pronti, partenza, via. Vestitevi bene o non vestitevi affatto.”
 
 
***
 
 
Le previsioni di Sandra si rivelano esatte non appena varchiamo la soglia del quinto negozio e cugina Karol decide di non riuscire a decidere.
Io vago fra i corridoi, indicando vestiti e cercando nella povera ragazza che mi viene dietro un parere che in realtà non voglio.
Dopo una decina di smoking, quindici cravatte, venti papillon, trenta fantasie e otto tessuti per lui e cinque giacche, “camicia libera o gilè?”, “scarpe classiche o moderne?”, “questo blu si sposa perfettamente con i suoi occhi!” per me, è palese che la sposa non sembra neanche più Sandra.
“Prima che chiamiate il parrucchiere per decidere l’acconciatura potremmo dedicarci al mio vestito?”
Un’ora e mezza dopo siamo in uno sfavillante atelier di abiti da sposa, circondati da persone eccitate, gridolini isterici, occhi che brillano e una Sandra totalmente fuori luogo.
“Lei mi sta dicendo che io dovrei camminare su tacco 12 per tutti gli scalini e la navata in questo coso lungo?!”
E’ evidente che credeva di sposarsi in jeans e maglietta, e l’avrebbe pure fatto se Samuel per una volta non si fosse impuntato, pretendendo l’abito lungo e più tradizionale.
Ha aggiunto che lo diceva perché voleva vederla sotto una ‘luce diversa’ dalle solite felpe e code di cavallo, ma la ragazza non sembrava intenzionata a dargliela vinta, e non lo sembra neppure tutt’ora.
“Va bene, ma ne voglio uno argentato e blu, corto dietro e lungo davanti."
Leks scoppia a ridere senza ritegno.
"Che vuoi?! Ah, corto davanti e lungo dietro. Va bene così Leks!??"
Aleksander nasconde il sorriso tra due dita.
"Perfetto."
La ragazza squadra la commessa.
"No signorina, è inutile che mi guarda così, io il bianco non lo metto. E non osi rifilarmi una di quelle gonne da principessa Disney. Le sembro una principessa io??”
Sembra uno squalo che ha appena fiutato il sangue, sbraitando a destra e a manca su quanto il tradizionale sia sopravvalutato e puzzi di muffa.
“Il bianco, puah. Il colore della purezza e poi si presentano all’altare che ne hanno viste e fatte di tutti i…” 
Ma non seppi mai cosa ne avessero viste e fatte, perché un bagliore azzurrino e un cappuccio decisamente troppo nero mi facero un cenno con la mano.
Fuori dal negozio.
Di seguirli.
E non seppi mai davvero perché andai così, di botto, buttando già una scusa qualunque e mollando tutti lì, nella loro vivace normalità, per andare incontro a una figura minuta della quale non se ne vedeva il volto.
Questa non si ferma, attraversa la strada non appena capisce che la seguirò, ed entra in una tavola calda dallo stile vagamente americano, anonima e vuota per metà.
Si siede su un divanetto in pelle rossa e io mi ci siedo di fronte, poggiando i gomiti sul tavolo e intrecciando le mani sotto al mento.
Le mani che rischiano di tremare se solo le lasciassi libere.
Non c’è bisogno di presentazione.
Non c’è bisogno di fingere che i brividi non abbiano un nome, che non riconosca la sensazione del sangue che corre nelle vene.
L’avrei riconosciuta anche senza la ciocca di capelli turchesi che le ricade sul seno, sfuggita al cappuccio, o senza la discrezione misteriosa di chi ha tutto da perdere.
“I tuoi capelli sono più chiari del tuo avatar” dico, e so di non sbagliarmi.
“Invece i tuoi occhi sono dello stesso azzurro di come li aveva il tuo” e alza la testa, rivelando un volto bianco e due occhi cerchiati dal nero del kajal.
“Che ci fai qui?”
Dovrei correre via, dovrei alzarmi e tornare alla vita che ho adesso, che mi piace, che è proiettata in avanti, che mi promette il futuro, ma che forse non ho rammendato così bene, se il passato continua a farmi visita.
Dovrei correre via e invece me ne sto inchiodato qui, su un sedile di pelle consunto, lontano dalle luci della ribalta, lontano dalla perfezione a cui mi stavo nuovamente abituando, ad ascoltare voci che parlano nonostante le porte chiuse, nonostante le case abbandonate.
“Dovevo starmene zitta. Accada quel che accada. Lascia che sia, diceva sempre lei.” 
Le metafore, la poesia… il rumore dei cuori infranti, la musica dell’oblio, la dolcezza del silenzio.
Mentre parla è tutto caldo e familiare; come ritornare nella casa in cui sei cresciuto, come rivedere la tua famiglia.
“Ma non lascerò che sia questa volta. Non lascerò che sia di nuovo.
Si piega in avanti, le spesse ciglia finte danzano mentre si guarda attorno, poi fissa gli occhi scuri nei miei, senza più sbattere le palpebre.
“Non credo che sia finita. Non lo credere neanche tu. Non l’ho mai vista rinunciare così facilmente, non lo farà neanche adesso. Soprattutto adesso.”
E’ sconfortante ammettere che è molto più facile abituarmi a questo, a mezze verità sussurrate nel vento piuttosto che allo scampanellio acuto della vita sotto al sole.
“Stai parlando di Sylwia, vero?” sussurro anch’io. “Perché adesso non dovrebbe rinunciare? A cosa non rinuncerà?”
“A te” risponde semplicemente.
Ma questa volta, neanche io riesco a leggere tra le righe.
“Non capisco.”
“Un’altra sola volta l’ho vista tenere a qualcuno, e sai com’è finita?”
Non ha fretta, aspetta che ci arrivi, ma forse il vento parla davvero in un codice che non riesco più a decifrare, forse la mia vecchia vita vuole tenermi stretto, questa volta.
La guardo e scuoto impercettibilmente la testa.
O forse, credo nei sentimenti altrui più di quanto dovrei.
“Suicidio.”
Un cameriere si avvicina e lei ordina due piatti di pancake senza distogliere neanche per un secondo gli occhi da me.
“Ma nessuno di noi ci ha mai creduto.” 
“Perché l’avrebbe fatto?”
“Perché lo amava. Ma lui era diverso da lei, totalmente diverso.” Si zittisce di colpo quando due pile di pancake ci vengono piazzate davanti.
Non appena il cameriere si allontana prende il coltello e si dimentica della forchetta, o della sua ordinazione, o di qualsiasi altra cosa che non sia il rigirarsi la lama tra le dita.
“Ricordo come se fosse ieri… quei momenti.”
Per un attimo non sembra più qui, persa in un interminabile tunnel senza uscita; poi afferra anche la forchetta e inizia a tagliare il cibo come una comune mortale.
“Per tutti gli altri fu facile credere che si fosse ucciso perché la frequentava, ma noi che l’avevamo conosciuto sapevamo che non era possibile. Lui non ha mai voluto neanche entrare nella Stanza, voleva ripigliarla, salvarla, fare tutte quelle stronzate nobili che fanno gli innamorati -ma lei non ne voleva sapere- e lui le diceva che non potevano continuare così, che non sopportava tutto questo, che doveva scegliere: o noi o lui.”
Prende una caraffa con dello sciroppo di mirtilli e io non sono sicuro di voler risvegliare i morti.
“Puoi immaginarti com’è finita. Lei non sceglie. Lei prende tutto o niente. Scelse noi, ma non permise a lui di scegliere nient’altro che non fosse lei.”
Il sugo dei mirtilli cade sui pancake con la grazia di un corpo che sviene, scivola, lieve e scarlatto, sul pallore scheggiato del piatto.
“C’era sangue ovunque. Ovunque. Non avrebbe mai funzionato. Lui sveniva alla vista del sangue...” e ride, ride con il tintinnio di ossa rotte e notti in bianco svegli ad aspettare un miracolo, o la fine.
Si getta indietro come una bambola stramba, sinceramente divertita dall’ironia della sorte.
“Ma tu… tu sei diverso. Tu non hai paura del nostro mondo, tu non hai paura di lei, di quello che potrebbe fare… dovresti averne, Dominik. Dovresti iniziare ad avere un po’ paura del sangue anche tu.”
Credo di essermi perso da qualche parte, fra le dune sanguinolente di un deserto avvizzito, e lo sciroppo continua a gocciolare e a gocciolare, inesorabile.
E credo di aver capito dove voglia arrivare, ma non mi preme saperlo, non voglio sapere cosa questo sciroppo potrebbe diventare, che il rosso non è solo il colore delle tende e dello smalto per unghie.
Si caccia uno spicchio di cinque pancake in bocca e non aspetta di ripulirsi le labbra dal rosso, quando ricomincia a parlare.
“Se amava lui… non oso neanche pensare cosa provi per te.” non dirlo, non dirlo… “Tu che sei stato il Re del suo mondo.”
Ma lo dice, e su quel tavolo non c’è più posto per tutti e due.
La consapevolezza sgomita con prepotenza, il passato non è più un vecchio pagliaccio di porcellana riposto nella credenza e dimenticato, la mia capacità di trattenere la conversazione su un livello normale se ne va a puttane.
E allora: “stai tradendo la tua Regina venendo da me.”
“Io domani potrei non avere più la forza per vivere, e allora a che sarebbe servito? Ma non rimarrò a guardare mentre le sue ossessioni consumano chi questa forza ce l’ha. La Stanza non era nata per questo.”
So che sta dicendo la verità perché non si mente sulla propria morte.
Ho parlato con lei per giorni e settimane intere attraverso la chat di un pc, e non la conosco affatto.
Eppure, il formicolio della familiarità rimane, la sensazione di provenire dallo stesso luogo, di aver provato sulla pelle gli stessi morsi resta.
Come in una grande città straniera, fra un milione di lingue, tu trovi proprio il tizio sconosciuto che parla la tua, ed è subito casa.
Una casa a cui si restringono le pareti. Che rischia di crollarti addosso.
“Non mi farebbe mai una cosa del genere.”
Le parole non si accavallano, non hanno pressa. Sono pacate e incolori quando sgusciano fra le mie labbra, perché ci credo.
Nonostante tutto, io ci credo.
Ma lei è già al funerale di qualcuno, e non sono certo se sia il suo, il mio o quello dei suoi ricordi.
“Non abbassare la guardia Dominik, e non dimenticare mai dove hai sotterrato l’ascia di guerra.”
Mi alzo sul serio a questo punto, l’ascia di guerra è bella che sepolta e con l’aroma di zucchero e vaniglia dei pancake sul palato non si può davvero credere che il sole non sorga il giorno dopo.
Lascio i soldi sul tavolo e le passo accanto, inclinando il capo per guardarla.
“Non morire prima di aver visto se hai ragione.”
 
  
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