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Autore: _Akimi    18/07/2019    2 recensioni
[Partecipa al contest "Music is my best disaster" indetto da Soul_Shine sul forum di EFP]
[Metallica/Anthrax - 1986 Tour Europeo]
"Poi un rumore.
Un leggero suono al suo fianco lo risvegliò dallo stato di melanconico torpore, come se fosse già giunto il giorno all’improvviso. Eppure, buttando un occhio fuori dal bus, il cielo non era variato.
Solo altra desolazione senza nuvole, il brillare opaco della Luna e il chiarore lattiginoso delle stelle.
E ancora, un sottile filo di luce andò ad infrangersi contro il finestrino, rimbalzò sulle bottiglie di birra disseminate nella cabina e infine lì, dolcemente si posava, colorando un paio di guance
pallide.
Frank ne seguì con gli occhi i lineamenti, la linea tesa delle labbra, risalendo verso quelle iridi smeraldine che - come tante altre volte - aveva percepito su di sé. Mai così vicino, mai così intensamente."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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{Stand side by side
With our fists in the air
We live for the night
On the razor's edge}

Anthrax - Subjugator
10 Settembre, 1986
Cardiff, Wales
Lo sguardo distratto di Cliff si soffermò sul fiammeggiante dragone appeso lì, su una delle pareti di quel backstage insolitamente ordinato.
Il St.David's Hall non era esattamente un luogo per band come la sua – sì moderno per ospitare chitarre elettriche e fiumi di birra, eppure, al tempo stesso, fin troppo elegante per quei ragazzacci venuti da oltreoceano.
Il teatro gli ricordava vagamente i concerti di musica classica che vedeva in TV a casa, la sua afosa California, così diversa dall'aria frizzante gallese – con frammenti di un lui bambino alle prese con i tasti neri-bianchi del suo piano.
Mentre ora, con una bottiglia di birra in mano, il Cliff del presente era avvolto da una coltre di fumo e da coetanei mezzi ubriachi nelle loro ineleganti canotte. Nessun uomo scorbutico in doppio petto nelle vicinanze né vecchie che, pasticciandosi la faccia, tentavano in vano di nascondere i segni dell'età.
Solo le sagome dei suoi compagni oscillavano in ogni angolo della stanza, con Lars che biascicava insulti in danese e, dall'altra parte, Kirk che controllava di nuovo il suo equipaggiamento in un infinito loop temporale dettato dal nervosismo pre-esibizione.

Era il loro tour di ritorno in Europa, dopotutto, e anche se iniziavano ad affermarsi con sicurezza nella scena thrash, rimanevano pur sempre gli stessi ragazzini della Bay area – figli adottivi di una fervente San Francisco che Cliff amava da anni.
Nonostante ciò, aveva imparato a non temere lo scandire del tempo che lo divideva dal palco, al contrario, aveva fatto sua quell'attesa solitamente snervante – trovando un'amichevole pace negli ultimi attimi dove tutto e nulla poteva accadere.
E adesso era quella medesima, inconsueta quietudine a intiepidire il suo animo, accompagnata dall'alcool che, in simil modo, scioglieva gli ultimi suoi nodi di preoccupazione.
Così era libero di lasciarsi inebriare dalla musica, dalle note che facevano vibrare persino le pareti a ritmo di quegli ultimi 'Fight!Fight!' che anticipavano il suo turno.
Sì, le mura, tempestate di belle locandine di precedenti spettacoli, sembravano davvero tremare sotto il mitragliare della batteria, seguita dall'incessante trotterello del basso elettrico - profondo a tal punto che Cliff poteva sentirlo insinuarsi nella sua mente e oltre, attraverso la sua giacca di jeans.
Quelli erano gli Anthrax – un nome che tutto diceva della loro musica, capace di liquefare qualsiasi cosa davanti loro. E forse, anche se non l'avrebbe mai apertamente ammesso, ne era anche lui una vittima consapevole.

«Sono bravi, cazzo.»
All'improvviso la voce di James riverberò dietro le quinte, un po' sommessa dal suono graffiante delle chitarre e dalle grida del pubblico. Solo a quel punto Cliff si voltò e, nascondendo una punta di atipico imbarazzo, si accorse di aver ignorato l'amico sino a quel momento, forse troppo distratto dall'esibizione ancora in corso.
«Eh,» esclamò un poco sorpreso, osservando la figura deformata dell'altro attraverso il vetro bruno della birra, «altrimenti non saremmo in tour con loro, non credi?»
James si limitò ad accennare un piccolo sorriso, appoggiando la mano ingessata sulla sua spalla, chiaramente in trepidazione nella speranza di poter ricominciare a suonare.
Si era fratturato il polso un paio di mesi prima, quando ancora erano a casa, e Cliff riusciva a percepire la sua delusione – anzi, capiva che cosa volesse significare andare in tour rinunciando al proprio strumento.
Malgrado ciò, non apprezzava le frasi di circostanza, sicché era grato della silenziosa complicità che lo univa all'altro: era dispiaciuto per lui, ovviamente lo era, ma non aveva bisogno di ripetere inutili "Ti riprenderai presto" perché James odiava le consolazioni formali.

«E di lui,» il suo bisbigliare interruppe di nuovo il flusso di pensieri di Cliff, obbligandolo a risvegliarsi dal breve torpore mentale. «di lui cosa ne pensi?»
Allora le sue iridi seguirono silenziose il braccio di James, percorrendone ogni centimetro sino al dito teso esattamente lì, ad indicare uno dei musicisti sullo stage.
Una chioma bruna ondeggiava a ritmo di musica e sotto il fascio tiepido dei faretti Cliff intravide lembi di pelle lucida, solcati da piccole gocce di fatica che andavano ad infrangersi contro la stoffa dei vestiti.
Divertente – quella fu la prima parola che comparve nella sua mente guardandolo; divertente nel suo saltare forsennato sul palco, incurante di quanto fosse modesto lo spazio a sua disposizione.
L'aria pungente di alcool e sudore non lo infastidiva, viceversa, si sentiva a suo agio in quell'atmosfera, a tal punto da renderla sua, più intima ad ogni vibrazione di corde.
Lo si poteva percepire di nuovo, ancor più tronfio e impudente di prima – quel medesimo basso che non accennava ad arrestarsi nonostante l'ormai prossimo gran finale; il suo borbottio riecheggiava nella hall con lo stesso ardore di inizio concerto, mentre non affievoliva lo stupore degli spettatori.
Buffo - pensò in aggiunta Cliff, afferrando con lo sguardo una familiare sfumatura di compiacimento su quel viso, non lasciandosi sfuggire neppure il mezzo sorriso abbozzato sulle labbra.
E la capiva, sì – l'adrenalina degli ultimi momenti, i boati selvaggi dalla platea e tutte le facce sudate che cercavano un proprio posto nel mondo.
Nel loro mondo – di musica, di aggressività e sciocca allegrezza.

Ma alla fine, ripensando alla domanda iniziale di James, 'Divertente' e 'Buffo' risultavano parole limitate per descrivere ciò a cui aveva appena assistito. Nulla aggiungevano a ciò che gli altri - i fan e la critica – associavano generalmente agli Anthrax – ai loro modi goliardici, agli sciocchi shorts che, imperterriti, continuavano ad indossare. A quel loro essere esteticamente poco metal – in contrasto con il suono bellicoso dei loro riff.
Forse gli piacevano proprio per tale motivo – perché erano lontani dagli stereotipi del genere, abbastanza particolari per uno come lui che, a modo suo, era da sempre un genuino outsider.
E lo era anche Frank. Frank Bello - esattamente quel bassista che ora si apprestava a lanciare gli ultimi saluti al pubblico, e che Cliff smise di osservare solo quando qualcuno si schiarì la voce di fianco a lui, riportandolo alla domanda sospesa.
«Parli di Bello?» mormorò infine, cercando di divagare, ma ricevette in risposta niente altro che una risata divertita. James non era così stupido, dopotutto. «Solido musicista, ma sono meglio io.»
Lo pensava davvero, ma Frank lo stupiva comunque. Mancava solo scoprire il perché.


 

* * *

{Out of my own,
out to be free
One with my mind,
they just can’t see
No need to hear things that they say
Life is for my own to live my own way}
 Metallica – Escape

11 Settembre 1986
Bradford, England
Un refolo di vento gli lambì la pelle, facendogli tremare appena le ossa.
Il tempo inglese non era così diverso dalla sua New York, ma l’aria del distretto di Bradford aveva un insolito profumo melanconico come se, in mezzo ai fili d’erba e gli arbusti, si potessero ancora percepire i suoni e gli odori di epoche lontane, forse di cavalieri in pesanti armature seguiti dal nitrire stanco dei loro cavalli.
Era strano, così differente dal frenetico chiacchierio del Bronx e lo scrosciare del familiare fiume Harlem. Eppure, nonostante si sentisse un poco spaesato ed estraneo, Frank apprezzava la pacatezza delle colline britanniche.
Ne aveva sentito parlare a lungo, le aveva viste spesso in qualche foto sbiadita o cartolina in centro città ma, sebbene avesse già visitato il Regno Unito, era la prima volta che si abbandonava a quelle immacolate distese di pace.
I suoi concittadini avevano il più bel polmone verde del Nord America - sì, esatto, un sano patriottismo covava in lui ricordando Central Park e il suo essere perennemente vivace -, ma la campagna inglese celava un qualcosa di diverso.
Un particolare romantico che New York ricreava solo artificialmente; invece allo Yorkshire bastava la sua brughiera, l’infinita e solitaria brughiera, con la spontaneità di fiori violacei e lo zampettare della pernice di ritorno al suo nido.
Un ambiente che, neppure sotto il calpestare tremendo di quel gruppo di imprevedibili visitatori, rinunciava al proprio candore senza tempo, trovando spazio lontano dalla frenesia e altri artificiosi passatempi umani.

Giunse di nuovo una folata autunnale e Frank, come a prevedere il passaggio di un tipico acquazzone inglese, si strinse un poco nel suo giubbotto di pelle, nascondendo un sorriso curioso dietro al colletto.
Il vocio e le risate degli altri avevano appena pizzicato le sue orecchie, un richiamo dopo lunghi attimi di meditazione – uno sciocco quanto banale suono per ricordargli che no, non era solo, sebbene non stesse facendo altro che osservare ciò che lo circondava.
E, in verità, l'intenso contemplare non faceva esattamente parte del suo carattere – non era impulsivo, del resto apprezzava trascorrere tempo con sé stesso; tuttavia, non si reputava di indole timida perché conoscere, dibattere, non erano attività che lo intimorivano.
All'opposto, un ingenuo borbottio gli sollecitava lo stomaco, l'animo, incontrando gli sguardi spensierati dei suoi compagni di tour.
Così tanto condividevano, ciò nonostante, ancora poco conosceva di loro.
E intendeva qualcosa del loro io reale – oltre la facciata da temerari della West Coast, con le loro chitarre aguzze e quel nome che, stridendo sulle labbra delle persone da un paio di anni, avevano deciso di caricarsi sulle spalle.
Perché tutti sapevano chi fossero i Metallica – erano gli sfacciati del sangue e martello in copertina, quelli che avevano trovato un buon motivo per cui combattere i poser e tutta la feccia glam losangelina.
Ma non era tanto lo spettacolo ad interessare Frank – dopotutto, ne faceva parte anche lui -, ma tutto ciò che si celava dietro il turbine di violenza che quei ragazzi, attraverso la musica, rappresentavano.
Probabilmente doveva esserci una strana regola, una regola non scritta, per i gruppi come il loro: gli Anthrax apparivano più stupidi e immaturi di quanto fossero realmente; quindi restava da scoprire il misterioso contrappeso dei quattro californiani.
Non vi era traccia della tipica aggressività che si impossessava di loro sul palco, non un cenno di prepotenza o durezza – ora erano semplicemente loro, spensierati ventenni che andavano a caccia di gloria e successo.
Frank li capiva, di più, apprezzava l'irriverenza dei loro animi – contagiosa, così dannatamente contagiosa – e il solo pensiero di condividere i teatri del vecchio continente con loro lo portò a sorridere, dimenticandosi del rabbuiarsi del cielo sulla sua testa.

Non vi era motivo per temere il pioggerellare leggero, a questo punto. Non quando il profumo di erica iniziò a solleticargli le narici, amplificato da ogni nuova goccia che scivolava giù, silenziosa, lungo gli steli attorno alla collina.
E lì, quasi a volersi mimetizzare invano, un'altra sagoma se ne stava immobile – lontana dal resto del gruppo, forse contemplando qualcosa che gli altri si erano lasciati sfuggire.
E sempre lì, inaspettatamente, qualche brugo andava ad impigliarsi a ciuffi di capelli biondi e Frank cercò di seguirne l'intreccio con gli occhi, percorrendone ogni capello ramato e gambo piegato sino ad incontrare un volto.
Su quello stesso viso disteso, ciglia ricurve nascondevano uno sguardo quieto, accompagnato da una mezza smorfia sulle labbra che Frank riconobbe facilmente.
Era Burton, Cliff Burton.
Il solitario bassista che, osservando meglio, pareva essersi addormentato in mezzo al brentolo, incurante della pioggia che gli solcava la pelle, facendola scintillare tra i fiori lilla.
Un quadro selvatico – non poté che pensare Frank, divertito nel vedere come l'altro fosse diventato un tutt'uno con la natura circostante, assopito sul quel letto improvvisato di erba umida e arbusti fastidievoli.
Ma dovette ricredersi poco dopo quando, come risvegliato da un tuono immaginario, Cliff si sistemò su un fianco, facendo scomparire un paio di boccioli sotto il proprio peso. Lo vide passarsi pigro una mano sul volto, premendo tra le dita un fiore che aveva ripescato casualmente tra i capelli. Solo allora, in un momento di inusuale silenzio da parte di tutti, si accorse di essere osservato e i suoi occhi smeraldini si posarono sulla figura di Frank.
Sì, Frank, ancora lì fermo immobile, un punto nero pronto a lasciarsi inghiottire dal proprio giubbotto, ma troppo educato per non ricambiare quello sguardo con altrettanta curiosità.
Avrebbero potuto dirsi molte cose, partendo dallo strumento che entrambi amavano in egual misura; avrebbero potuto discutere del concerto del giorno precedente o ciò che li attendeva quella sera stessa.
Ma nulla. Solo un pacifico vuoto occupava le loro bocche, una pace amichevole tesa ad un potenziale infinito, una dimensione dove entrambi continuavano ad osservarsi come ad attendere un'audace mossa che tardava ad arrivare.

E giunse sotto forma di un breve, timido cenno di mano da parte di Frank; un banale gesto destinato a sparire nella sua tasca quando, poco dopo, una voce al suo fianco interruppe l'idilliaca e tacita conversazione. Un brusco modo per ritornare all'ormai grigia realtà britannica.
«Ci tocca fare un po' di soundcheck, Frankie.»
Era Charlie, una mano sulla spalla e una smorfia annoiata ad invadere il viso di entrambi.
«Vero, sarà anche ora di cambiare le dannate corde al mio basso.»
Il vento gli sferzò le guance di nuovo e voltandosi, Cliff era già scomparso, lasciando la brughiera alla propria naturale desolazione.

* * *
 
{So understand
Don't waste your time always searching for those wasted years
Face up, make your stand
And realize you're living in the golden years
}
Iron Maiden – Wasted Years

13 Settembre 1986
Edinburgh, Scotland

Il locale che avevano consigliato loro era in una qualche via nella parte antica della capitale – una bettola lungo una strada tortuosa che, stranamente, a Cliff ricordava San Francisco. Forse erano i cittadini, escludendo il buffo accento scozzese, a richiamare alla memoria alcuni quartieri della Bay City: stesse espressioni enigmatiche, accompagnate da quella particolare luce che accomunava tutte le persone che abitavano nelle città.
Il posto in questione, invece, pareva un anonimo pub in mezzo a tanti altri, all’apparenza un postaccio in cui non vi era nulla per cui valeva la pena fermarsi.
Eppure, lasciandosi la porta chiusa alle spalle e superando l’atrio a grande falcate, Cliff dovette ricredersi non appena lo sfrigolare di salsiccia in padella e il lieve profumo di marmellata attirò la sua attenzione. Si riscoprì affamato, dimenticandosi del sapore amaro di birra sulle labbra - ancora della sera precedente -, cercando con gli occhi, invece, il tavolo dove il resto della band si era seduta.
Il pub era insolitamente vuoto per essere l’ora di colazione; nella sala principale riecheggiava il vocio formale della giornalista - un viso intrappolato in uno schermo TV piccolo, ma sufficiente per i pochi spettatori presenti.
Un signore si voltò verso di lui, un sigaro nascosto dietro ad un paio di folti baffi e una legittima venatura di curiosità negli occhi - come a domandarsi se fosse appena arrivato il circo in città o qualche altra compagnia strana; le rughe del suo volto si arricciarono per un attimo, tese, quasi sul punto di dire qualcosa di sconveniente o sgarbato, ma Cliff si limitò ad ignorarlo, dirigendosi verso la tavolo rotonda dei suoi compagni.

Avevano scelto un posto appartato, eppure riuscivano ad attirare l’attenzione degli altri - come se, in qualche modo, tutti li conoscessero senza però rivolger loro parola. Persino un bambino, sfacciato come solo i giovani potevano essere, si era messo a giocare con il giubbotto di Lars, imitando le espressioni buffe che il batterista gli dedicava.
Risate puerili risuonarono nella sala e persino i ragazzi, ancora un po’ assonnati e frastornati dell’alcool, si concedevano alla gioia senza scopo del marmocchio - lasciandosi conquistare dal clima mite di quella mattinata. Era il lato pacato della Scozia, in contrasto con l’agitazione e la follia della vita notturna.

Altrettanto pacati erano gli Anthrax al loro fianco - o meglio, una parte di loro -, intenti a riempire le loro tazze di caffè bollente e a borbottare con James riguardo al concerto tenutosi la sera precedente.
Scott Ian era allegro, logorroico, ma allegro - Cliff lo ricordava ancora per la sua ospitalità newyorkese, quando anni prima non si era fatto scrupoli ad aiutarli mentre registravano il loro primo album. Parevano tempi lontani, ripensandoci, ma il loro rapporto non era cambiato - il che rendeva la compagnia reciproca ancora più piacevole.
Alla sua destra, invece, Charlie Benante si perdeva con lo sguardo verso la sua colazione, facendo stridere le posate contro il piatto, forse non rendendosi conto di quanto il suono fosse logorante per un gruppo vittima degli effetti di una simpatia sbornia.
A dire il vero, non era un suo problema; erano puliti, gli Anthrax: lo erano da quando avevano iniziato il tour e, probabilmente, lo sarebbero rimasti fino alla fine. Era una sciocca regola che Cliff non aveva ben compreso, eppure li ammirava perché, in un intricato senso, la loro scelta di sobrietà dimostrava un certo tono di maturità che nessuno si aspettava da loro.
Non che a Cliff importasse qualcosa delle opinioni degli altri - era abbastanza indipendente dal giudizio altrui -, eppure il loro strambo oscillare tra serietà e spensieratezza lo incuriosiva. Eclettici e mai banali. Erano dei validi motivi per averli come compagni di tour, dopotutto.


«Hey,» una voce raggiunse indistinta il loro tavolo, così prorompente da risvegliarlo dal suo solito torpore mattutino; si concesse uno sbadiglio per scacciare gli ultimi rimasugli di sonno, ma la stanchezza non sembrava volerlo abbandonare ancora. «grazie per avermi aspettato, eh.»
Il mormorare ironico lo carezzò proprio dietro alla nuca, obbligandolo ad alzare appena lo sguardo, lì, posando gli occhi sul viso del nuovo arrivato.
Quest’ultimo prese una sedia e si posizionò nel primo spazio libero trovato, così vicino a Cliff che, senza volerlo, poteva sentire il lieve profumo di shampoo pizzicargli le narici.
«Lo avremmo anche fatto, ma il tuo letto era vuoto quando ci siamo svegliati, Frankie.»
Fu Scott a parlare per primo, sbuffando perché minimamente ascoltato. Il suono della sua voce si disperse in mezzo al mangiucchiare dello stesso Frank - più interessato al suo pasto, piuttosto che alle futili lamentele del batterista.
«E a proposito, dove diavolo ti eri cacciato?»
Una domanda senza risposta. Solo silenzio, un lungo silenzio, mentre Frank non fece altro che alzare le spalle come un ragazzino, un riso beffardo sfuggì dalle sue labbra per poi scomparire dietro ad un tazza di caffè e in mezzo al trangugiare feroce di scones – rigorosamente farciti con panna acida e marmellata di fragole.
«Sapete il negozio di dischi che abbiamo intravisto ieri, all'incrocio?»
Frank domandò, arricciando le labbra per far scomparire un cenno di crema con la punta della lingua; guardandolo, Cliff iniziò a domandarsi quando la cameriera avrebbe portato la sua, di colazione.
«Maledetto, dovevamo andarci assieme!»
Charlie sbottò innervosito, più per semplice divertimento che per reale rabbia; funzionava spesso così tra di loro – Cliff lo aveva capito già dai primi giorni quando, prima o dopo un concerto, non smettevano di punzecchiarsi con battute e rimproveri del tutto inutili.
Il rapporto tra loro gli ricordava la sua famiglia, ora lontana chilometri e chilometri da lui. Ma suo padre, nonostante tutto, aspettava sempre una sua chiamata oltreoceano.
Forse gli mancava un po' casa – una cosa così poco metal da pensare.

«Comunque, guardate cosa ho comprato.»
La voce allegra di Frank ritornò a vibrare nelle sue orecchie, riportandolo alla realtà circostante; solo in un attimo, con la vista annebbiata da un'inaspettata fonte di vapore, si accorse che gli era stata servita la colazione come tutti gli altri.
In quel momento un mano misteriosa rubò uno dei suoi fagioli, facendolo scomparire dietro ad un sorriso in cerca di comprensione.
Era Lars, affamato come sempre, ma troppo orgoglioso per chiedere di dividere un po' del piatto assieme; Cliff avrebbe voluto rispondergli, ma un senso di amichevole pigrizia ebbe la meglio su di lui.
E poi, come se non bastasse, Frank riuscì di nuovo a distrarlo con il suo borbottare entusiasta.
«Non sbagliano mai un colpo, cazzo.»
Esclamò abbandonando il suo caffè per un attimo, scartando e frugando tra carte in cerca del misterioso tesoro. Gli altri lo guardavano un poco incuriositi e, anche se cercava di non esplicitarlo, anche un parte di Cliff era intrigato da tanta puerile passione.
Tuttavia, l'interesse svanì nel momento in cui un vinile si materializzò tra le mani di Frank – una copertina futuristica e un dettaglio, un simbolo familiare per qualsiasi metalhead, lo riportarono annoiato alla sua colazione.

Gli Iron Maiden erano uno dei tanti gruppi metal che, pur rispettandoli, Cliff non riusciva proprio a comprendere. Avevano fatto la storia della musica in così poco tempo, eppure non era bastato per far appassionare il ragazzo alle possenti cavalcate di basso – firmate rigorosamente Steve Harris.
Eppure cercava di capirla, di capire la sconfinata stima che gli altri provavano per il complesso inglese.
Ne parlavano tutti con così tanta foga da portarlo a domandarsi, tra un boccone e l'altro, se non fosse arrivato il momento di dare un'altra occasione alla vergine di ferro britannica.
Non aveva un buon motivo per farlo, a dire il vero, ma lo sguardo amichevolmente insospettito che Frank gli dedicò sembrò implorargli qualcosa.
«Sono un gruppo okay.»
Mormorò aspettandosi una qualche drammatica reazione da parte dell'altro bassista, ma invece, come a leggergli la mente, Frank si limitò ad accennare un sorriso divertito.

«Cliff è un intellettuale;» il loro scambio silenzioso di sguardi fu interrotto da Kirk che, abbozzando un sorrisetto irregolare, lasciava intendere che vi erano molti altri dettagli che rendevano Burton una persona unica.
Cliff non amava considerarsi diverso dagli altri - speciale in un qualche stupido modo; semplicemente aveva occhi per osservare e orecchie, sì, orecchie acute per ascoltare buona musica.
Non apprezzava le definizioni, tutte le sciocche etichette che le case discografiche e i fans continuano imperterriti a rispettare. Adorava il Metal, il suo suono graffiante e violento, ma ciò non lo fermava dall’amare la placida eleganza emanata da Beethoven o i ritmi reggaeggianti dei Police.
Al contrario, il solo pensiero di uniformarsi ad un solo genere lo infastidiva, lo faceva sentire insulsamente piccolo - e non riusciva a convivere con l’idea che una miriade di canzoni inascoltate lo stessero attendendo da qualche parte, incise su un vinile o passate in qualche anonima frequenza radio.
Ma proprio per tale motivo, una parte di lui non poteva che domandarsi il motivo di tanto entusiasmo da parte di Frank; lo strano luccichio era ancora lì, a far brillare le sue iridi nocciola. Una venatura di infantile passione che gli rigava gli occhi e andava oltre, varcando la curva delle sue ciglia per raggiungere le sue gote appena arrossate.
E ancora, come se lo stesse scoprendo per la prima volta dopo giorni, Cliff si soffermò su quel sorriso, in bilico tra orgoglioso sarcasmo e una sfumatura di beffarda malinconia.
Così poco sapeva di lui, eppure i suoi modi - ora timidi ora invadenti - raccontavano già molto del suo carattere; non solo le parole, ma anche attraverso tutte quelle sue piccole smorfie e increspature di labbra che, con attenzione, Cliff cercava di non lasciarsi sfuggire.
Non era ancora diventato bravo - non dopo così pochi giorni -, ma anche Frank doveva averlo capito, aver capito di essere sotto osservazione dal momento in cui avevano toccato suolo europeo.
Il desiderio di scoperta era reciproco e, in fondo, a Cliff non dispiacevano le buffe attenzioni che l’altro cercava di dedicargli.

«Mi staresti dicendo che ad un bassista, anzi, non un semplice bassista - a Cliff Burton non piacciono gli Iron Maiden?»
Frank domandò ironico, rivolgendosi più allo stesso Cliff che agli altri ragazzi; la curiosità era così palese dal suo tono di voce che, per un attimo soltanto, Cliff dovette trattenere una risata divertita.
«Hey, non c’è nulla da ridere, stiamo parlando di uno dei padrini del basso Metal, basterebbe prendere un qualsiasi album per poter dire che Steve Harris...»
«Non è odio o dispiacere;» lo interruppe Cliff alla fine, mormorando in un tono inaspettatamente moderato. Si carezzò il principio di baffi ramati sopra le labbra e, quasi imitato dall’altro, corrucciò la fronte in cerca di una buona argomentazione, «apprezzo Harris come musicista e come compositore, ma so di non essere e di non voler essere come lui. Non avrebbe senso formare una band per essere il camaleonte di qualcun’altra.»
Frank lo osservò accigliato, la bocca un poco inclinata verso il basso e, come a voler scacciare inutili pensieri, sorseggiò lentamente il suo caffè. Sembrava soddisfatto da tale risposta, ma nonostante ciò, non sembrava ancora disposto ad abbandonare il discorso.
«Mi sta anche bene, ma non hai ancora sentito Wasted Years.»
«Dovrei?» domandò Cliff con un pizzico di ironia a sfumargli la voce. Bevve anche lui un sorso di caffè, rendendosi conto che la colazione aveva già cominciato a raffreddarsi.
«È un dovere civile e morale.»
Così il mormorio lo fece divertire ancora e ancora, un lieve ridacchiare che partiva da lì, dalla gola tremante oltre le tonsille, sino alle labbra un poco spalancate. Frank sembrava guardarlo estasiato e, come era già capitato in precedenza, si domandò se fosse la sua risata a provocare una reazione simile nell’altro.
Bello era strano, ma la stranezza era ciò che più incuriosiva Cliff. Molto più degli Iron Maiden, a dire il vero.

«Al nostro tour bus;» gli disse alla fine, tentennando poiché non erano avvezzi a conversare molto, solo loro due. «abbiamo un giradischi, puoi passare se ti va.»
Per Frank non vi era bisogno di ripeterlo due volte.

 
* * *
 
{Orion, light your lights:
Come guard the open spaces
From the black horizon to the pillow where I lie.}
Jethro Tull - Orion

14 Settembre 1986
Dublin, Ireland


Il cielo d’Irlanda era terso e senza accenni di nuvole. Qualche stella illuminava uno spicchio di galassia e la Luna, fedele compagna delle ultime, notturne anime, ciondolava lì, appesa sul manto cobalto che copriva la mezza assopita Dublino.
I turisti erano svaniti al chiudere degli ultimi pub in un placido momento che oscillava tra tarda notte e prime luci del mattino.
Non era ancora alba, eppure, quasi dispiaciuto, Frank si era accorto che i minuti e le ore erano trascorsi velocemente, in un susseguirsi di canzoni, drink e chiacchiere che avrebbe voluto protrarre all’infinito.
E ci rimuginava lì, rannicchiato in un angolo del divanetto logoro che i Metallica avevano caricato sul loro tour bus. Era piccolo per essere il mezzo di una band che iniziava ad avere un nome importante. Era piccolo, ma a Frank piaceva - si respirava la stessa intimità del concerto tenutosi quella sera stessa.
Mille persone o poco più, solo loro, i loro strumenti, la loro musica.
Qualche volta lo immaginava, sì, un futuro in arene pullulanti di gentaglia o piazze a cantare all’unisono le loro canzoni. Ma alla fine - come se si trattasse di un elemento intrinseco nel suo animo - ritornava sempre alle street newyorkesi dove avevano cominciato, con i fans a tuffarsi forsennati dal palco e con norme di sicurezze che avevano del leggendario.
Apprezzava la spontaneità di quelle piccolezze, il senso di sentirsi e essere un qualcosa di comune che, al contrario, andava a sbiadirsi all’ingigantirsi degli stadi.
Nonostante ciò, amava la fama, - tutti l’amavano, dopotutto, - perché di passare una vita intera con zia e nonna non ne aveva intenzione. Qualche volta ripensava anche a chi lo aveva messo al mondo, ai sacrifici di sua madre e il modo gratuito con cui Charlie lo aveva amato. Come un fratello, nonostante non fosse dovuto a farlo.
In altre occasioni, invece, in notte buie e malinconiche come questa, si ricordava della figura vaga del padre. Quel padre che non aveva fatto più ritorno a casa, incurante delle conseguenze che avevano indelebilmente segnato la famiglia Bello.
Frank aveva smesso di domandarsi il perché da anni, eppure, sentendo lo stomaco contorcersi, capitava di chiedersi che cosa avrebbe potuto pensare di lui, di suo figlio, là, oltreoceano, vivendo di ciò che aveva sempre amato.
Avrebbe provato orgoglio? Oppure, come sempre, solo altra indifferenza?
Domande destinate a rimanere senza alcuna risposta; e a Frank andava bene così - si ripeteva – era sempre andata bene così.


Poi un rumore.
Un leggero suono al suo fianco lo risvegliò dallo stato di melanconico torpore, come se fosse già giunto il giorno all’improvviso. Eppure, buttando un occhio fuori dal bus, il cielo non era variato.
Solo altra desolazione senza nuvole, il brillare opaco della Luna e il chiarore lattiginoso delle stelle.
E ancora, un sottile filo di luce andò ad infrangersi contro il finestrino, rimbalzò sulle bottiglie di birra disseminate nella cabina e infine lì, dolcemente si posava, colorando un paio di guance
pallide.
Frank ne seguì con gli occhi i lineamenti, la linea tesa delle labbra, risalendo verso quelle iridi smeraldine che - come tante altre volte - aveva percepito su di sé. Mai così vicino, mai così intensamente.
«Hey.»
Riuscì solo ad esclamare, arrancando come se sfinito dopo una lunga corsa. Non sapeva cos’altro aggiungere, ma il destinatario, comprendendo tacitamente il suo senso di sorpresa, si limitò ad accennare un sorriso bonario.
Senza rispondere, senza dire una parola.
Era Cliff con il suo modo di fare, con l’abituale alone di mistero che lo avvolgeva. Un’aura che non poteva passare inosservata, anche se lui non ne faceva mai vanto; era così e basta, una costante alla
quale Frank iniziava ad abituarsi, quasi sentendosi a suo agio nel silenzio che aleggiava tra loro.
Avrebbe persino chiuso gli occhi, addormentandosi debolmente al suo fianco, ma un borbottio sommesso lo fece rizzare ancora, questa volta sbattendo il capo contro una qualche mensola dietro al divano.
Una timida risata vibrò nell’aria e, vedendo l’altro sorridere, Frank dimenticò per un attimo il dolore procuratosi dal colpo.
«Ohi,» sussurrò infine Cliff, scivolando e lasciandosi inghiottire dalla giacca di jeans che indossava sempre. Sembrava volersi nascondere lì, dietro il colletto e tra i ciuffi ramati che, mollemente, gli cadevano sul viso e sulle spalle. A quella vista, Frank sentì le mani formicolare, desiderose di scostare i capelli che ostacolavano lo sguardo, ma di nuovo il borbottio lo riportò alla realtà, scacciando qualsiasi sconveniente pensiero.
«Avevi ragione.»
Corrucciò la fronte, inclinando il viso quanto verso di lui, in cerca di un minimo dettaglio sul volto che potesse aiutarlo a decifrare quelle parole. Ma nulla, solo uno sguardo vago e, come solito, le labbra leggermente increspate che tutto dicevano tranne ciò che Frank andava cercando.
E sembrava divertito, Cliff, vedendo quanto tali silenzi confondessero i suoi sensi, facendolo sentire stupido – un poco – perché imperterrito non smetteva di darsi risposte.
Si diceva che la curiosità uccise il gatto – ma, a dire il vero, per Frank, morire in cerca di verità non era una morte così disdicevole.
«Ho mai torto?»
«Da quel che dicono.»
Un legittimo sguardo perplesso apparve sul suo volto: sopracciglia appena arcuate, la linea delle labbra ad incresparsi in una smorfia, ma le guance a pizzicargli nel tentativo di trattenere una risata divertita.
Non si era mai curato di conoscere le opinioni che altri avevano su di lui - lo reputava uno spreco di tempo a dir poco produttivo -, eppure, ora che Cliff aveva menzionato la questione, non poté che riflettere su tali giudizi.
Erano stati gli altri Anthrax a parlargli di lui? O, sentendosi infinitamente lusingato solo all’idea, era stato lo stesso Cliff a domandare?
«Non hanno detto nulla di imbarazzante, non preoccuparti;» mormorò alla fine Cliff, leggendo attraverso l’espressione che, nonostante il lungo silenzio, non aveva ancora abbandonato il viso di Frank, «forse non posso dire lo stesso di James e gli altri. Alle volte non sanno proprio cucirsi la bocca.»
«Non hanno aggiunto niente a ciò che so già di te;» Frank sussurrò in risposta, distogliendo lo sguardo come se pervaso da un improvviso senso di imbarazzo.
La verità era che non conosceva Cliff così bene - o meglio, poteva dire tutto e nulla sul suo conto: nuova promessa del Metal, prodigioso bassista che, pur condividendo il palco con altrettanto talentosi musicisti, riusciva ad attirare l’attenzione del pubblico. Eclettico e sperimentale, era semplice comprendere quanto la routine lo annoiasse, cercando di evitare il più possibile di essere il medesimo artista del giorno precedente.
Frank lo ammirava, ma non si sentiva sminuito davanti alla sua abilità come alcuni suggerivano; forse il nome dei Metallica era destinato a risuonare più lungo sulle labbra delle persone, ma nessuno sarebbe mai stato come gli Anthrax e questo lo sapevano in molti.
«Eppure sembravi stupito quando ho detto di non apprezzare molto i Maiden.»
«Perché alcune cose si prendono per scontate;» rispose Frank, accennando un sorriso non appena vide Cliff fare lo stesso. Era divertente, sì, lo era, perché l’impressione di ragazzi bruti e violenti sul palco pareva dissolversi ogni qualvolta parlasse con lui, «un bassista del tuo calibro a cui non piacciono gli Irons. Andiamo, è una barzelletta.»
«Allora senti questo, ti farà ancora più ridere.»
Frank lo osservò alzarsi pigramente dal divano, schivò il labirinto di bottiglie con destrezza e ne calciò i tappi abbandonati, nascondendoli sotto il letto a castello dove era solito dormire.
Gli altri erano spariti e, solo adesso, nel silenzio più estremo, Frank si accorse di essere rimasto solo con lui; non un’altra anima a coabitare sul bus, solo un leggero vociferare all’esterno, così sottile da non disturbare la pacifica atmosfera che aleggiava tra loro.
Non era imbarazzante come aveva spesso immaginato, al contrario, una parte lui si sentiva a suo agio con l’altro, carezzato da un senso di familiarità che non riusciva a spiegare in termini razionali.

Poi, in mezzo ai pensieri, un leggero martellio metallico riecheggiò, insinuandosi nella sua mente insieme ad una voce nasale che non aveva mai approfondito prima.
Un ritmo serrato, cupo, perfetto per descrivere la notte desolata che era attorno a loro.
E sembrava avere un senso - uno strano senso - la luce argentea che si rifletteva sul viso di Cliff ora che, appoggiato ad una parete, osservava il vinile nel suo pacato girare.
«Si chiama Orion,» presentò la canzone, lanciando un’occhiata vaga verso le stelle al di fuori dal finestrino, «come la costellazione.» aggiunse infine, facendosi cadere di nuovo al suo fianco, ora più vicino di quanto lo fosse prima.
Un ciuffo di capelli biondi ricadde persino sulle spalle di Frank, creando un insolito contrasto con i suoi ricchi scuri.
Erano diversi in tante cose oltre all’aspetto fisico, eppure iniziavano a trovare un giusto equilibrio tra eclettica maturità e, come qualsiasi altro giovane, la superficialità che si concedevano durante il tour.
Continuavano a non rientrare nei canoni delle classiche rockstars sbronze e circondate da groupie, ma, in fin dei conti, a Frank questa pace temporanea non dispiaceva per nulla. Aveva temuto, temuto stoltamente che un senso di imbarazzo si sarebbe insinuato facilmente tra di loro - non comprendendone ancora il motivo. Ma ora eccolo, lì, socchiudendo gli occhi al narrare di Anderson, beandosi inconsapevolmente del calore che il corpo al suo fianco emanava.

Sempre Cliff, ancora Cliff - un sospirare sommesso nel buio e Frank schiuse una palpebra, posandosi con quel suo unico occhio vigile sul viso enigmatico dell’altro.
«È una bella canzone.» borbottò, preso alla sprovvista dal silenzio fattosi un poco più pesante senza alcun reale motivo. «Non sapevo ti piacessero i Jethro Tull.»
«Ah,» ancora un silenzio, poi di nuovo parole, «allora non devono averti detto molto di me gli altri.»
«Forse ho domandato le cose sbagliate.»
Frank strizzò gli occhi un secondo dopo, rendendosi conto di aver detto più di quanto lo stesso Cliff dovesse sapere. Aveva chiesto, sì, nei momenti di noia, che tipo di persona egli fosse. Erano state più chiacchiere di circostanza, nulla di troppo ambiguo o di cui vergognarsi. Nonostante ciò, ammettere di aver chiesto ora lo faceva sentire a disagio, come se dovesse dare spiegazione a tale curiosità.
«Anch’io ho chiesto di te a Charlie.»
Esclamò con voce ferma, quasi a comprendere, a volerlo rincuorare. E non vi era una singola venatura di imbarazzo nei suoi occhi, erano limpidi - come in molte altre occasioni - tanto che Frank poté riconoscere il proprio stupido riflesso nelle sue iridi.
Sembrava davvero un idiota.

«Ci siamo già incontrati due anni fa a New York.»
Cliff disse, lasciando un sospeso “forse neppure ricordi” sulle labbra socchiuse. E a Frank parve di intravedere un accenno di rossore sulle sue guance, ma cercò di non curarsene troppo. Doveva essere l’alcol, l’alcol rendeva le persone così vulnerabili.
«Ho ascoltato le vostre tape per settimane.»
Toccò a lui consolarlo, questa volta, lasciando intendere che non si era scordato del loro breve incontro nella Grande Mela. Non avrebbe potuto, anche provandoci, dimenticarsi la prima impressione che Cliff Burton gli aveva fatto in mezzo a tutti gli altri. Così fuori posto, ancora stretto in una di quelle sue giacche di jeans - un volto un poco più bambino, ma non immaturo.
Quante cose erano cambiate dal loro debutto? E, ancora, quanto erano cambiati loro da quei giorni che ora sembravano così lontani?

«Perché il basso?»
Chiese poi Cliff, cercando di scacciare i primi accenni di sonno. Sembrava stanco, ma la conversazione non pareva sostenuta solo per dovere o educazione. Era curioso, lo si capiva dal modo in cui non smetteva di osservarlo.
Chissà che cosa ci trovava di interessante sul suo viso - si ritrovò a pensare Frank - come se vi fosse un dettaglio, una minuzia passata inosservata agli occhi degli altri.
«Come dici?»
«Perché hai scelto di suonare il basso.»
Ripeté la domanda, così banale, eppure sufficiente per descrivere ciò per cui entrambi vivevano. Semplice, ma non scontata quanto lo stesso Frank iniziò a pensare. Non voleva dare una risposta infantile e, quasi a voler rallentare il tempo, si limitò a rimanere in silenzio - quasi sperando che qualcuno potesse giungere in suo soccorso.

E in qualche strano modo, forse grazie alle tiepide stelle, il suo desiderio venne ascoltato pochi attimi dopo.
Una delle porte del bus si aprì, quasi cigolando, e il rumore fu seguito dal comparire di un paio di volti sciupati: erano Kirk e Lars - entrambi a stringersi a vicenda nella speranza di non cascare rovinosamente sui gradini.
Il loro ebbro vociferare riecheggiò nella cabina, cancellando la fiabesca atmosfera emanata dai Tull e, insieme a quella, anche l’inusuale quanto timida intimità che si era andata creando tra i due bassisti.

I due si guardarono, entrambi mogi per un motivo che ancora non riuscivano a capire; Frank tentennò, le palpebre a tremare appena in cerca di una simile risposta nello sguardo di Cliff. Quest’ultimo, accennando un sorriso ironico, decise di fare la prima mossa, alzandosi mollemente come mollemente si era lasciato cadere un quarto d’ora prima.

«Ti vedrò domani, magari.»
Una mano allungata verso di lui e, come sempre, un’altra espressione enigmatica sul volto.
«Già, magari.»
Frank non poté che lasciarsi sfuggire una risata - il tour era ancora lungo dopotutto; decisamente lungo.

* * *
{Hey you, you can't escape
Wicked smile, full of lies

Head of snakes, approach his cave
But don't look in his eyes
Oh, his eyes}

Medusa – Anthrax
 
20 settembre 1986
Birmingham, England


Cliff trattenne il respiro per uno, due, un’eternità di secondi per poi schiudere un poco le labbra, liberandosi del fumo che aveva a lungo annebbiato i suoi polmoni.
Si sentiva scialbo, le ossa a tremargli colpite dall’umidità inglese e, come se non bastasse, il frastuono che lo circondava andava a ferirlo esattamente dove la testa aveva cominciato a pulsargli da quella stessa mattina.
Poteva essere un segno, un messaggio che il suo corpo gli stava inviando per avvisarlo di un imminente pericolo; ma no, non era superstizioso e nulla di tale dolore sarebbe sopravvissuto a delle birre e qualche pigro giro di spinello.
Ed era l’odore di marijuana, infatti, a pizzicargli le narici e ad impregnargli gli abiti - portandolo a sprofondare sul divano come a desiderare di essere inghiottito lì, tra i cuscini logori.
Sparire per sempre - pensò per un attimo - sparire senza lasciare lascito, ritornare al nulla dalla quale era giunto, un memento homo che, recalcitrante, aveva trovato un proprio spazio nella sua mente.
Un senso di paranoia che non sentiva appartenergli; non a lui che, si conosceva bene, non era solito abbandonarsi a pensieri fatalisti e controproducenti. Aveva tempo da spendere in altro modo - dopotutto la musica chiedeva sforzi - e tra scegliere un inutile commiserarsi e produrre canzoni, la scelta era piuttosto ovvia.
Eppure, un brontolio sommesso non lo abbandonava, sconquassandogli lo stomaco e immobilizzandolo contro lo schienale alla ricerca di un qualcosa che non accennava a palesarsi.

Ancora sul divano - pensò di nuovo - sul medesimo divano su cui aveva riscoperto il piacere di conversare, sfiorando appena la superficie che lo aveva diviso da lui. Da Frank, intendeva.
Dallo stesso Frank che, come a poter leggere la sua mente, comparì in quell’istante a bordo del bus - seguito dagli altri -, tamburellando con le dita un ritmo che incuriosì Cliff, ma che non seppe riconoscere.
Il viso un poco spossato, ma non privo di vita; era sempre così dopo un concerto, le energie vacillavano, ma non scomparivano del tutto.
No, anche Cliff poteva notarla, l’abituale venatura di adrenalina che gli attraversava gli occhi, tempestati di altre mille e più indecifrabili sensazioni.
E fu solo poco dopo, nonostante il vano tentativo di celarsi tra boccate di fumo e ciuffi di capelli, che i loro sguardi si incontrarono. Un vago osservarsi, percorrendo ogni piega di pelle sospetta sul viso, ogni increspatura aperta a libera interpretazione.
Dapprima imbarazzo - a Cliff sembrava di vedere - perché il modo in cui le ciglia ombreggiavano sugli occhi di Frank gli incupiva il volto, proiettando preoccupazione sulle sue gote.
Poi, all’improvviso, come se l’altro avesse avuto modo di entrare nuovamente nella sua testa, una minuscola smorfia apparì sulle labbra. Un silenzioso quanto sardonico “Tutto okay?”, un modo per assicurarsi che Cliff, sentendosi un po’ fuori luogo, stesse bene.
La reputò divertente, tanta premura da parte di Frank che, solitamente, non aveva mai optato per ovvi comportamenti tra di loro. Si era dimostrato sempre un po’ distaccato - almeno questa era impressione di Cliff -, tanto che la timida intimità di qualche giorno prima sembrava ora un ricordo da rispolverare.

Ancora da capo, nuova serata, altra fine di concerto - la malinconia di aver lasciato il palco non se n’era andata ancora via, sciacquata assieme alla fatica e al sudore. Era rimasta lì, ad avvinghiarsi fastidievole ad ogni centimetro di sigaretta che Cliff aspirava.
Lo spinello brillò per un attimo al buio e Frank scosse divertito la testa, muovendosi verso la sua direzione.

«Vuoi fare un tiro?»
Chiese con la voce un po’ impastata, troppo annoiato per ripetere la domanda in modo chiaro. Frank sembrò capire lo stesso e, come tante altre volte, si limitò ad un abbozzo di sorriso.
Pareva dannatamente alto - ora che ci fece caso - un gigante buono che, nonostante la sua bonarietà, si concedeva anche a critiche severo. Ed era ovvio, almeno per Cliff, il suo senso di fastidio per il fumo che li divideva.
Un ostacolo che offuscava la vista di entrambi, eppure nessuno dei due si sforzava di cacciare la nebbia di fronte ai propri visi.
Era la stanchezza, forse. Oppure solo un altro modo per non esporsi del tutto, aggrappandosi, invece, a qualsiasi scusa per nascondersi un poco allo sguardo dell’altro.
E, ad essere sinceri, non sembrava funzionare molto.

«Credo di essere a posto così.»
Mormorò distratto in risposta, chiaramente a disagio al centro della cabina. Poi, nascondendo le mani nei suoi shorts, si abbandonò ad un sospiro liberatorio, come se fosse sufficiente a dissolvere la lieve patina di imbarazzo tra loro.
«Puoi anche sederti, sai;» Cliff gli fece cenno con la mano, timido ma pur sempre un primo passo; non era mai stato bravo a cominciare le conversazioni e, sino a questo momento, tale lacuna non lo aveva mai infastidito.
Non lo aveva disturbato poiché non era solito parlare molto - la solitudine era una virtù da preservare con cura -, ma con Frank era diverso.
Tante cose erano diverse con lui.
E lo aveva capito a sue spese già da un paio di giorni, sentendosi come uno di quei ragazzini spaesati davanti ad un problema più grande di loro. Era inusuale, eppure l’orgoglio dettava lui di sembrare impassibile o, almeno, di non concedersi scelte di cui avrebbe potuto pentirsi in seguito.


«Seguivo il ritmo della chitarra in modo spontaneo.»
La voce di Frank interruppe i suoi pensieri; un sussurrare grave, una quasi impercettibile vibrazione nell’aria e, ancora, un’espressione in bilico tra buffo imbarazzo e matura indifferenza. Anche lui cercava di apparire imperturbabile - Cliff iniziò a percepirlo dal suo rimanere rigido, ora con le mani in tasca ora a stringerle puerilmente contro il petto.
«Come dici?»
«È per questo che suono il basso.»
Gli occhi di Cliff si illuminarono al solo esclamare, il mondo ritornò alla sua forma originaria e dalla sua vista scomparì qualsiasi visione lattiginosa. Si sentiva di nuovo sobrio, scioccamente sobrio.
«Tu?»
Frank biascicò a bocca socchiusa come se, per un motivo che nessuno dei due riusciva a comprendere, avesse appena domandato qualcosa di proibito.
Poi, finalmente, scivolò al suo fianco sul divano - silenzioso, riservato, eppur incurante di come i loro gomiti, data la vicinanza, si sfiorarono. Lembi di pelle calda contro altri lembi di pelle. Un profumo fruttato pizzicò le narici di Cliff e, dopo più di una settimana assieme, aveva imparato a riconoscere l’odore dell’altro.
Lo avrebbe ricordato per il prossimo tour - pensò infantile - mentre gli occhi di Frank erano posati su di lui, ancora in attesa.
«Ah, io...» cercò di mantenere la serietà, ma nascondere il leggero imporporarsi di guance non era così semplice come ricordava, «guardavo mio fratello suonare in camera sua. Anche quando mi coricavo, il suono faceva tremare le pareti.»
Era il suo modo per addormentarsi - le linee di note che gli solleticavano il cuore e le orecchie, allettando quel suo spirito bambino che era sopravvissuto agli anni.
Era cambiato il resto: la sua famiglia, la sua vita, ma Cliff non aveva smesso di sentiva il basso di Scott nella sua mente. Il suono era ancora vivo, preservato da eventi più grandi di lui.

«Deve essere orgoglioso di te, Cliff.»
Un accenno di sorriso, vagando in un realtà mentale diversa dalla vita che, invece, gli era toccata. Cliff sorrideva perché Frank aveva ragione, suo fratello lo sarebbe stato. Come, a suo tempo, lo stesso Cliff lo era stato di lui. E avrebbero potuto condividere tanto, tante altre esperienze, se solo Scott non fosse...se solo fosse.
«È morto quando avevo tredici anni;» non un tremore né un singhiozzo. Voce piatta, sguardo disperso.
Non ne parlava molto, non ne aveva parlato molto neppure con gli altri ragazzi, ma discuterne con Frank pareva differente. Non troppa confidenza né estremo anonimato.
Non sentiva il bisogno di nascondere la sua sfortuna familiare, ma al medesimo modo, una parte di lui attendeva un qualcosa.
Un gesto di consolazione, forse - anche se non non aveva mai amato quel genere di formalità, parole false dettate da circostanze altrettanto false.
Ma gli occhi di Frank riflettevano un sincero interesse, non ferito dal dolore della perdita - ma una luce velata di comprensione come a dire, senza neppure aprire la bocca, che la vita era la stessa merda per tutti.
Empatia unica, non ridondante, eppure presente in un silenzio che si stendeva verso l’infinito. E lì ritornava - non appena Frank si lasciò cadere sul divano - il senso di intimità che era andato perduto pochi giorni prima.
Ne aveva sentito la mancanza, e forse iniziava a comprenderne il motivo.

«Ti avrebbe trovato stupidamente geniale.»
Alla fine disse, individuando un piccolo accenno di sorriso sul suo volto; era umiltà - la sua - e Cliff apprezzava anche quel suo lato modesto, un’inusuale aggiunta alla spavalderia sul palco e al senso dell’umorismo tagliente.
«E tu, invece, cosa pensi?»
Frank chiese con una punta di incertezza sulla lingua; sembrava quasi un gioco, una domanda retorica, ma una coltre di serietà piombò silenziosa su di loro.
Cosa pensava di Frank...cosa vedeva in lui che altri non avevano, lontano dall’ovvietà di tutti i giorni e gli altrettanto banali gesti dettati da fasulla cortesia?
Forse era quello: la sua spudorata onestà, unita al magico potere di riuscire a dire la cosa appropriata nei momenti giusti. Senza bugie, senza filtri formali.

«Di stare attento perché questo mondo marcio uccide le persone genuine.»
«Cerca di non morire prima di me, allora, Cliff.»
«Non potrei mai,» un breve scambio di sorrisi e un qualcosa di nuovo parve sorgere nei meandri del loro animo, una timida scintilla destinata ad un’esistenza breve.

«Allora, ti vedrò domani, magari.»
«Magari, Frank.»
* * *
 
{Crystallized, as I lay here and rest
Eyes of glass stare directly at death
From deep sleep I have broken away
No one knows, no one hears what I say}
Metallica – Trapped Under Ice

26 settembre 1986
Sweden

Frank ricorda poche altre notti fredde come questa: il ghiaccio adorna gli angoli bui delle strade e riflette la luce pallida della Luna.
Ah, sì, la Luna - placida testimone, brillare lattiginoso sopra la desolante Svezia. Il cielo è senza stelle e sferza un vento che fa piegare e attorcigliare l’erbacce attorno alle sue sneakers consumate.
È uscito indossando solamente il suo pigiama - dovrebbe provare freddo, ma l’unica sensazione di gelo che percepisce cova dentro di sé, sotto pelle, come un tonfo al cuore che zittisce ogni dubbio, dando risposte a domande che aveva volutamente rimandato.

C’era tempo - si era detto - tempo per suonare a lungo assieme, per scoprirsi a vicenda, capendo quanto le loro sottili differenze fossero, in realtà, il loro punto di forza.
Proprio come le loro rispettive band, Anthrax e Metallica - l’equilibrio impeccabilmente perfetto tra ironia consapevole e ira veicolata in note.
C’era tempo - si era detto - perché Cliff era più di un bassista promettente, e Frank aveva ingenuamente pensato che i grandi della storia non potessero morire di una morte così insulsa.

Ma è successo, ancora non riesce a spiegarsi il perché: un qualche scherzo di cattivo gusto per prendersi gioco dei suoi sentimenti, immaginando che dal bus rovesciato possa ancora uscire una chioma ramata, come se nulla fosse accaduto.
Un tempismo che gli fa accapponare la pelle, ma nel silenzio, ora che gli altri lo stanno osservando, darà la colpa al freddo. Non potrebbe ammettere altro, confessare che forse, in fondo, lui e Cliff...

C’era ancora tempo, dicevano entrambi.




 
Note varie:
-I Metallica e gli Anthrax si incontrarono diverse volte nei loro primi anni di carriera; nella storia vengono citati i giorni in cui i Metallica cominciarono a registrare il loro primo CD "Sangue e Martello" (riferendosi alla copertina, appunto, di Kill 'em All) a NY. Qui vennero ospitati da Scott Ian, chitarrista e fondatore degli Anthrax.
-In tour nel 1986 le due bands pubblicizzarono rispettivamente Master of Puppets e Spreading the Disease, non portando a termine la tournée poiché Cliff morì a causa di un incidente con il tour bus in Svezia.
-Un'altra cosa importante, che forse non è stata ben esplicitata nel testo, è che Frank Bello non era ancora nella band quando Cliff registrava Kill 'em All a NY, ma ho immaginato che i due si fossero incontrati almeno una volta casualmente.
Questo perché Bello è cresciuto (come accennato nella fic) a casa della zia, che è praticamente la madre di Charlie Benante (il batterista del gruppo.)
-Per quanto riguarda la discussione Maiden/Tull – Frank ha detto più volte di aver cercato una figura paterna in tutti i bassisti che gli piacevano, citando anche Harris poiché grande fan degli Iron Maiden; mentre Cliff non aveva gusti prettamente metal, al contrario, ascoltava e apprezzava gruppi di generi molto diversi tra loro.
Ho inserito la canzone Orion perché, oltre ad essere una grande fan dei Tull, il titolo si ricollega anche all'altra "Orion", dei Metallica, appunto. Famosa perché fondamentalmente composta da Cliff e, tra l'altro, suonata anche nel giorno del suo funerale.
-In un'intervista ad MTV, gli Anthrax sostennero di non aver mai fatto eccessi di alcool o di droga (che io sappia, nessuno di loro ha mai avuto problemi di tal genere, ad esclusione di Joey – il cantante, che non compare in realtà nella fic, che ha avuto problemi di alcolismo)
-Ho modificato il testo di Medusa, essendo "her eyes", optando per il corrispettivo maschile in riferimento a Frank.
-Il "Ci vediamo domani, magari" è riferito ad un reale scambio di battute tra i due. Frank in diverse occasioni ha ricordato di averlo detto anche la notte prima che Cliff morisse.
 
  
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