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Autore: LionConway    22/07/2019    12 recensioni
Alfredo è figlio di ricchi proprietari terrieri.
Olmo proviene da una famiglia di contadini.
E negli anni tra la Grande Guerra e il Fascismo si dipana la loro amicizia tormentata. Ma forse è molto di più di un'amicizia. Forse è qualcosa di inspiegabile, qualcosa che li lega insieme e li distrugge. Perché sono da sempre su fronti opposti, Olmo e Alfredo. D'altronde, come può il padrone amare il servo?
No, non poteva essere morto. Non se l'era mai bevuta quella voce secondo la quale era stato ucciso in un'imboscata dei tedeschi, mentre combatteva sulle montagne. Non Olmo, no. Alfredo lo avrebbe saputo. Alfredo lo avrebbe sentito, esattamente come aveva sentito ogni singola ferita inflitta sul corpo di Olmo nel corso della vita. Ogni colpo, ogni taglio, ogni bruciatura.
Avevano condiviso il primo, traumatico respiro.
Forse avrebbero condiviso anche l'ultimo.

Questa storia partecipa alla Soulmate Challenge indetta sul gruppo facebook Il Giardino di Efp.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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NOTE D'AUTORE UTILI ALLA LETTURA.

Questa storia è ispirata al film Novecento di Bernardo Bertolucci, i cui protagonisti, Alfredo e Olmo mi sono rimasti nel cuore fin da subito proprio per via del loro legame trascendentale. Nella storia si fa riferimento al fatto che sono nati lo stesso giorno, su fronti differenti, ed è così anche nel film. Potevo quindi non pescare l'occasione per scrivere una soulmate!AU su questi due? Che sono già anime gemelle nel canon? Nossignore, no. 
So che avrei forse dovuto inserire la storia nella sezione Film > Altro, ma spero non sia comunque un problema: è una sezione morta e sepolta già fin quasi dal momento in cui è stata aperta e avrei un sacco paura possa scoraggiare la lettura a chi mi segue. Inoltre, trovo che sia giusto dare la possibilità a chiunque di conoscere questi personaggi, protagonisti di una pietra miliare del cinema italiano che andrebbe visto da chiunque. Credo sia il miglior film ad aver raccontato alcuni dei grandi orrori del Fascismo. 
La trama riprende molti eventi del film (ma non tutti. Ci manca solo scrivere tutto ciò che accade in cinque ore di pellicola!), ma sono tranquillamente comprensibili senza averlo visto. Alcune scene sono riportate quasi esattamente come sullo schermo, ma rielaborate a modo mio per rendere il tutto coerente con il tipo di AU e il prompt scelto per la challenge. E' una one shot, ma dal momento che mi stava venendo parecchio lunga ho deciso di tagliare in due atti, riprendendo la stessa suddivisione del film. Facendo le dovute premesse, spero che vi piaccia. 

La canzone che accompagna tutta la storia e da cui prende il titolo è Baciami, Alfredo de Il Banco del Mutuo Soccorso (che tutti i fan detestano, ma personalmente è una delle mie preferite), che io trovo assolutamente perfetta per la relazione tra questi due. 

 

 

 

Questa storia partecipa alla Soulmate Challenge indetta sul gruppo Facebook Il Giardino di EFP.

Prompt: Quando uno prova dolore, lo sente anche l'altro
 

1

Il mare era più grande e fatto con cento mari 

Ma son venute poi le navi dei corsari 

Che l'hanno fatto a pezzi e chiuso nei forzieri 

Quel poco che è rimasto l'hanno rubato ieri 

 

25 Aprile 1945

 

"Muoviti!" 

La canna della doppietta solleticò Alfredo tra le scapole. 

E lui si mosse, tenendo sempre le mani sollevate, ma non troppo in alto; come a schermarsi il petto, come se la sua prigionia fosse soltanto un gioco che lui e Leonida, il ragazzino che gli puntava un fucile addosso, si divertivano a emulare. Ah, Leonida, Leonida, cosa ti diverte dell'imbracciare un fucile? Perché giochi a fare la guerra? Probabilmente perché è stata vinta, la tua infanzia è salva. Per poco uccidevi il padrone, Leonida: non è roba con cui scherzare, quella. 

"Eccolo là, il padrone! Dove si era nascosto?" 

"Quasi ci eravamo dimenticati di arrestarlo!"

Mentre Alfredo veniva spinto fuori dalla stalla, nel cortile interno della cascina, una folla di contadini armati avanzava verso lui e il ragazzo. Se non si fosse sentito così stanco, così spossato da tutti gli avvenimenti susseguitesi negli anni, forse avrebbe trattenuto il respiro, per lo stupore, per lo spavento. Gli uomini imbracciavano fucili da caccia, inadatti alla guerra, le donne non erano state da meno nel fare la loro parte e brandivano rastrelli e forconi per il fieno. Ma i loro volti, in quel momento, non erano contratti in smorfie minacciose, bensì in sorrisi. Di vittoria ma anche di scherno. 

"Bravo, Leonida, tu sì che ne hai di inventiva." 

Qualcuno si complimentò con il ragazzo. "I giovani c'hanno più cognissione dei vecchi!" 

Tenne il capo basso, mentre Leonida e il suo fucile lo costringevano a sfilare tra i mezzadri e, per qualche strana ragione, adesso le braccia stavano molto più in alto della testa, come se davvero temesse che qualcuno potesse sparargli. Piano piano, le voci concitate dei suoi servi si affievolirono, sostituiti dallo scalpiccio di un paio di stivali sul terreno. Un passo che Alfredo avrebbe riconosciuto tra mille, che sempre avrebbe ovattato tutti gli altri suoni attorno a lui. Fu solo allora che trovò la forza di sollevare il mento. 

Aveva quarantaquattro anni, eppure ci vedeva già male senza gli occhiali. Li spinse indietro, ma non perché ne avesse particolarmente bisogno: avrebbe anche potuto essere cieco, ma mai la sagoma di Olmo di fronte a lui gli sarebbe apparsa sfocata. Olmo Dalcò era sempre stato sempre il punto più luminoso nel quadro della propria vita. 

Sentì Leonida dargli un ultimo colpetto con la canna del fucile. 

"Olmo!" esclamò "Ti consegno il mio prigioniero!" 

Una donna si congratulò con lui, mentre gli occhi di Alfredo si concentravano esclusivamente sulle labbra sottili del partigiano biondo di fronte a lui, che si schiudevano in un sorriso rivolto al ragazzo. Lo stesso sorriso che, anni prima, aveva più volte riservato ad Alfredo. 

Quest'ultimo non fece in tempo a dire qualcosa, qualsiasi cosa, che qualcuno lo spinse malamente e cadde in avanti, sulle proprie ginocchia. Gli occhiali gli scivolarono oltre la punta del naso, colpendo il terreno polveroso, e per un attimo quella fu la sua unica preoccupazione: che si fossero rotti, che fossero andati in frantumi. 

Come lui, come l'azienda agricola di famiglia, come i padroni, come i fascisti. 

Era finita. 

I partigiani avevano vinto. 

I padroni non avevano più alcun potere. 

Lui non aveva più alcun potere. Lo aveva mai avuto, in realtà? Sua moglie gli urlava sempre addosso che fosse un debole, un vigliacco terrorizzato dal pugno di ferro dei fascisti che avrebbe dovuto saper controllare. 

Forse aveva ragione. Alfredo era debole. Non aveva più nemmeno la forza di difendersi. 

"Scusi, padrone!" esclamò sarcasticamente l'uomo che lo aveva spintonato. "Ce l'avevo in mano da così tanto tempo che mi è scappato!" 

L'udito di Alfredo venne scosso da un coro di risate liberatorie e sguaiate. Aveva appena raccolto gli occhiali, cercando di pulirli nella maglia grigiastra che indossava, che avvertì un dolore lancinante al fondoschiena e si ritrovò disteso sulla pancia, la faccia sul terreno, colpito dal calcio di un altro uomo che gridava: "E io da tempo ce l'avevo sul piede!" 

Rimase in quella posizione per qualche secondo, attimi che a lui parvero eterni, attimi che gli diedero il tempo di pensare. Le sue ossa dolevano e, lo sapeva, anche Olmo stava provando la stessa cosa. Aveva provato lo stesso suo dolore nell'atterrare sulle proprie ginocchia spigolose, aveva sentito quel calcio nel sedere che lo aveva buttato completamente giù. In quel momento, Alfredo avrebbe voluto essere morto. Lo avrebbe preferito, avrebbe preferito sentire il proprio cadavere divorato da vermi e parassiti piuttosto che la voce di Olmo che rideva di lui nonostante avvertisse tutta la sofferenza provata da quel corpo e, forse, anche dallo spirito del padrone sconfitto e sbeffeggiato davanti a tutti. Davanti a lui. 

Avvertiva il peso di due guerre mai davvero combattute, di amori spezzati, di fallimenti, di persone care scomparse, di amicizie tradite. 

Avvertì la mano di Olmo sul suo capo brizzolato e capì che si era chinato su di lui. Quel tocco, troppo parsimonioso in un momento come quello, gli fece venir voglia di piangere. Di spingere indietro le lancette dell'orologio e riavvolgere il tempo, tornare a quegli anni spensierati in cui non vi era posto per la nostalgia e la sofferenza, anni in cui Olmo non lo odiava. 

"Ehi, stai dormendo?" 

Fu solo a quella domanda che trovò la forza e il coraggio di sollevare lo sguardo. 

"Sapevo che non eri morto." 

Si rimise in ginocchio. Un sorriso era fuori luogo sulle labbra di un padrone, lì in mezzo. Eppure, le labbra di Alfredo non riuscirono a fare a meno, se non altro, di accennarlo. 

No, non poteva essere morto. Non se l'era mai bevuta quella voce secondo la quale era stato ucciso in un'imboscata dei tedeschi, mentre combatteva sulle montagne. Non Olmo, no. Alfredo lo avrebbe saputo. Alfredo lo avrebbe sentito, esattamente come aveva sentito ogni singola ferita inflitta sul corpo di Olmo nel corso della vita. Ogni colpo, ogni taglio, ogni bruciatura. 

Alfredo sapeva perfettamente che se gli avessero sparato, uccidendolo, avrebbe avvertito l'atroce dolore provocato dal proiettile, sia che si fosse bloccato tra le costole o che gli avesse trapassato il cranio da parte a parte. 

Forse sarebbe addirittura morto anche lui. 

Chi poteva dirlo? D'altronde erano nati insieme, nello stesso istante, in quella stessa azienda agricola di proprietà della sua famiglia, quella notte di fine gennaio di tanti anni fa. Alfredo nella stanza da letto di sua madre, Olmo negli appartamenti dei villani. Ogni strillo valeva per entrambi, respiravano per due: un doppio dolore a quei minuscoli polmoni che iniziavano a funzionare. 

Avevano condiviso il primo, traumatico respiro. 

Forse avrebbero condiviso anche l'ultimo. 

Nonostante la guerra, Olmo sembrava molto meno vecchio e spossato di lui, non così diverso dall'ultima volta che Alfredo lo aveva visto. Fuggiva dai fascisti che desideravano ardentemente la sua testa di comunista, di agitatore delle folle. All'epoca aveva i capelli più corti, ricci bronzei che, in quel momento, riflettevano la luce del sole nel tardo pomeriggio di aprile. I suoi occhi scuri, vispi e penetranti, lo scrutavano come mai aveva fatto in vita sua: vuoti, inespressivi. Fu quello sguardo a stringere il cuore di Alfredo in una morsa. Avrebbe preferito di gran lunga vederlo arrabbiato, infuriato. Sapeva che erano ormai lontani i tempi in cui Olmo gli riservava un sorriso, un'occhiata colma di affetto e parole troppo pericolose da essere espresse ad alta voce, ma che lui comprendeva lo stesso, perché era sempre stato così tra loro: bastava uno sguardo, un gesto, e tutto era chiaro, tutto era sistemato. 

Non lì. 

Non adesso. 

Non c'erano più il bambino ricco e viziato dei Berlinghieri e il marmocchio scapestrato vestito di stracci cresciuto dai contadini. Non c'era più la pesca alle rane e la gara a chi si sporcava di più rotolandosi nel terreno. Non c'erano nemmeno più le giornate piovose passate a nutrire i bachi da seta in soffitta o a baciarsi sui sacchi di frumento una volta cresciuti e ritrovati dopo la Grande Guerra. Non c'era più l'estate calda trascorsa a nascondersi in mezzo alle più alte spighe di grano, lontano da occhi indiscreti che avrebbero potuto separarli. 

Non vi era più nulla di tutto ciò, si erano separati da soli. 

Il servo e il padrone. 

Il proletario e il borghese. 

Il comunista e il fascista

No. Alfredo non era un fascista. Potevano chiamarlo in qualunque modo: porco, bastardo, infame, ma fascista mai. 

"Forse l'avresti preferito, non è così?" 

Quando Olmo proferì parola, perfino la sua voce rauca gli parve estranea nella sua familiarità. O forse, quella durezza vi era sempre stata nel suo tono: era lui, era Alfredo che non aveva più la forza di tenergli testa. Era iniziato come un gioco, era finito con uno scontro tra fazioni opposte. Eppure, si ritrovavano sempre, costantemente: erano, in qualche modo, legati, destinati a incontrarsi ancora e ancora fino a quando non sarebbe giunta la fine, e nemmeno la guerra sarebbe riuscita a dividerli, anzi, li aveva riportati a quel punto. Alfredo avrebbe voluto essere in grado di scappare. Avrebbe voluto avere il potere di lasciarlo andare. 

Ma non aveva più potere, non contro il popolo che Olmo rappresentava: la gente comune che chiedeva la testa del padrone su una picca, su uno dei forconi usati per spostare il fieno. 

Olmo allungò una mano e, con il dorso, gli pulì il volto, rimuovendo la terra. Quel breve contatto, così familiare ed estraneo a un tempo, scatenò in Alfredo brividi e sensazioni che pensava di aver dimenticato da molto tempo. Per un misero attimo, Alfredo s'illuse che lo avrebbe abbracciato. Che lo avrebbe perdonato. Ma il suo vecchio amico si limitò ad aiutarlo a rimettersi in piedi. I due si scambiarono uno sguardo penetrante, poi Olmo gli restituì gli occhiali e si voltò, dandogli le spalle. 

In pochi minuti, fu istituito un processo contro di lui. All'aperto, tra il suono di una fisarmonica, tra canti e danze popolari e sotto un'enorme, immensa bandiera rossa. 

"L'ho cucita io anni fa con Rosina!" esclamò una vecchia. 

Rosina. La madre di Olmo. In piedi al centro del piazzale, tra lui e Leonida, gli occhi di Alfredo si spostarono sui presenti nel tentativo di scorgere il viso familiare della donna che molte volte gli aveva preparato da mangiare quando era piccolo. Solo in quel momento, si rese conto di come chiunque, intorno a lui, gli risultasse un viso sconosciuto. Invece doveva pur conoscerle, erano le donne dell'azienda: erano le madri e le mogli della sua forza lavoro, erano le ragazze che servivano dentro casa sua, allora perché non ricordava neanche un volto, neanche un nome? Perché aveva in mente soltanto la faccia e il nome di Olmo, di cui Alfredo avvertiva gli occhi piantati su di sé più di tutti gli altri, mentre uno ad uno gli si avvicinavano e lo accusavano di malefatte, gli puntavano addosso il dito per incolparlo di ogni loro sofferenza? 

"Lui pulito, noi sporchi. Lui a mangiare, noi a patire la fame. A lui tutto, a noi niente."

"Te sei un delinquente, ma tuo nonno era anche peggio!" 

"Sì, appena era arrivato voleva licenziare tutti i braccianti!" 

"Ma no, quello era suo papà, il signor Giovanni!" 

"Cosa c'entra? Padre o figlio, il padrone è sempre il padrone!" 

Alfredo inspirò profondamente, il cuore che ormai doleva e bruciava. Era il suo cuore o quello di Olmo a essere spezzato? Se era il suo, Olmo lo percepiva a sua volta? 

"Io posso dire soltanto una cosa." sospirò. "Non ho mai fatto del male a nessuno. Mai fatto del male a nessuno." 

"Questo lo dicono tutti i padroni, adesso." 

Alfredo credeva che, se avesse spostato gli occhi su Olmo, avrebbe incontrato un sorriso beffardo sulle sue labbra sottili, le stesse labbra che aveva baciato tanti anni prima. Ma si sbagliava: non vi era l'ombra di nessun sorriso sul volto del partigiano. Si mosse e prese a camminargli intorno, il suo sguardo vigile costantemente fisso su di lui. 

"E sono così ipocriti che quasi ci credono." 

"Non ho mai fatto del male a nessuno." ripeté Alfredo, deciso, perché Olmo adesso giocava d'astuzia ed era bravo, maledettamente bravo a far leva sul suo senso di colpa. Era vero, Alfredo non aveva mai fatto male a nessuno. Ma non aveva mai nemmeno alzato un dito per impedire che qualcun altro lo facesse. Se n'era rimasto chiuso nella sua villa, a compiangere la partenza di Olmo, a soffrire dell'abbandono di sua moglie, quel giorno in cui i fascisti avevano massacrato un numero indefinito di braccianti, colpevoli di essersi ribellati al fattore. 

"Per questo avete tirato fuori di prigione i delinquenti e sbattuto dentro i comunisti, eh?" 

Alfredo avvertì il respiro di Olmo solleticargli la base della nuca. Strano come, in quel momento, fosse ancora una sensazione che gli piaceva. Triste. 

"Sì, è così, compagni!" 

Olmo si mosse in avanti e lo superò, rivolgendosi adesso a tutti gli altri, ai contadini e ai sempliciotti che pendevano dalle sue labbra. 

"I fascisti non sono mica come i funghi, che nascono così, in una notte." disse Olmo. "I fascisti sono stati i padroni a seminarli. Li hanno voluti, li hanno pagati! E con i fascisti i padroni hanno guadagnato sempre di più, al punto che non sapevano più dove metterli i soldi. Così hanno inventato la guerra! Ci hanno mandato in Africa, in Russia, in Grecia, in Albania, in Spagna! Ma chi paga siamo sempre noi, chi paga. Il proletariato, gli operai, i contadini, i poveri!" 

Si levò un coro colmo di rabbia e di protesta, di chi invocava la morte del padrone, la sua dipartita. 

"Ecco, li senti, Alfredo Berlinghieri?" 

Olmo si voltò di scatto verso di lui. "La senti la voce del popolo? Noi siamo la canaglia pezzente, i morti di fame. E l'esempio verrà da qui, da questo paese nel buco del culo del mondo che ha il coraggio di condannarti a morte. E con te, condanna a morte tutto il passato." 

Con Alfredo si fronteggiarono viso a viso, la spossatezza di uno contrapposta alla fiamma rivoluzionaria dell'altro. Poi gli occhi di Olmo si spostarono su Leonida, con il fucile ancora stretto tra le braccia, e allungò una mano per farsi passare l'arma. 

Olmo lo imbracciò e puntò la canna proprio tra gli occhi di Alfredo, che si incrociarono per fissare i fori scuri. Lo stesso colore delle proprie iridi colme di tristezza e malinconia. 

"Fallo." Alfredo lo incoraggiò. "Io muoio... e a te vediamo che succede." 

"Credi che abbia paura di morire?" ribatté Olmo. 

"Mai pensato." Alfredo sorrise. "Vedo che non hai ancora smesso di sdraiarti sui binari con il treno in corsa." 

 

Hanno circondato il prato e la collina 

Prendendoli alle spalle presto di mattina 

Non fare quella faccia, dai, non fare il fesso 

È stato sempre così, vuoi che cambi adesso?

 

2. 

Quando Olmo Dalcò aveva sette anni si divertiva a sdraiarsi sui binari dietro i campi e lasciare che il treno gli passasse sopra. Si copriva il volto con le mani per non rimanere accecato dai lampi di luce che filtravano negli spazi tra i vagoni e, quando tutto finiva, sorrideva al cielo e pensava di aver sconfitto la morte ogni singola volta. Non si era mai fatto niente, tranne una volta che un pezzo di ferro sporgente lo aveva ferito sul dorso di una mano. 
Quando questo era successo, Alfredo non lo conosceva ancora. Eppure, un pomeriggio in cui stava giocando sull'altalena con sua cugina Regina, avvertì un forte bruciore sulla mano destra e, quando la sollevò per controllare, vide un taglio netto lungo tutto il dorso della manina tozza che zampillava sangue vermiglio. All'epoca diede la colpa a qualche ramo o alla corda dell'altalena, suo padre, invece, diede la colpa a lui, intimandogli di smetterla di andare a sporcarsi in giro per i campi e i boschi che circondavano l'azienda. 
Alfredo riservò una linguaccia alla schiena di Giovanni Berlinghieri e l'unico a coglierlo in flagrante fu suo zio Ottavio. Ma non gli disse niente, anzi: gli sorrise, divertito, e poi si premurò di medicargli il taglio, mentre gli raccontava un sacco di balle su tutte le volte che si era ferito in combattimento, quando era imbarcato su una nave pirata. Neanche allora Alfredo vi credette, però il tatuaggio che gli mostrò, che rappresentava un'ancora, quello era vero. Secondo le storie di Ottavio, glielo avevano fatto durante lo sbarco in un porto dei Caraibi. Dovettero trascorrere una decina di anni prima che Alfredo scoprisse che suo zio era stato mandato in prigione perché lo avevano beccato a stantuffarsi con un altro uomo. 
Adorava suo zio. Era pittore, scultore, fotografo e girovago per il mondo -anche se su transatlantici e non navi pirata. Era la persona che più gli piaceva della famiglia insieme al nonno, che si chiamava Alfredo Berlinghieri pure lui e gli aveva donato il proprio nome il giorno della sua nascita. Giovanni avrebbe voluto chiamarlo Giuseppe, in onore di Verdi, morto qualche ora prima della sua nascita, ma nonno Alfredo non ci aveva sentito.

Il giorno in cui conobbe Olmo, mentre pescava le rane che i Berlinghieri avrebbero mangiato quella sera stessa, si azzuffarono, si rotolarono nella terra, si presero continuamente in giro. Poi Olmo lo sfidò a sdraiarsi con lui su quei maledetti binari, uno sopra l'altro, ma Alfredo si rifiutò, togliendosi di lì giusto in tempo. Il suo cuore perse un battito quando vide il treno passare sopra quel corpicino emaciato. 
"Sei vivo?" gli chiese, giusto per assicurarsene perché sapeva che non poteva essere morto. Per qualche strana ragione, si sentiva un po' come se il treno fosse passato pure addosso a lui. Per tutta risposta, Olmo gli riservò un ghigno e gli sputò in faccia. 
"Codardo!" esclamò, con quella "erre" arrotolata tipica delle campagne parmensi, la stessa che i genitori di Alfredo tentavano disperatamente di correggergli. 
"Non sono un codardo." 
Alfredo si pulì la faccia con la manica del giacchetto, ormai fattosi molto più grigio che bianco: si sarebbe preso una bella strigliata, per quello. "Sei tu che sei tutto matto!" 
Entrambi risero. 
Poi avevano giocato insieme per il resto dell'estate, con il sommo fastidio di Regina, piantata lì per un villano qualsiasi.

Quando il nonno era morto, Alfredo aveva pianto. Aveva visto la salma ed era fuggito, terrorizzato. Si era nascosto sopra un ammasso di paglia e, sporgendosi, aveva visto Rigoletto, un contadino ritardato, che spulciava la testa bionda di Olmo alla ricerca dei pidocchi. Alfredo lo aveva supplicato di attaccarglieli, così non lo avrebbero più fatto entrare in casa: voleva vivere lì, tra i poveri, con il suo amico. 
"Perché non vuoi più tornare a casa?" gli chiese Olmo, mentre si arrampicavano su per l'attico dove lui si prendeva cura dei bachi da seta. Qualche volta ci dormiva pure, sopra uno dei materassi umidi e sgualciti abbandonati in un angolo. 
"Perché il nonno non c'è più" Alfredo sospirò e si lasciò cadere su uno di quei cosi, bagnandosi il culo. Non se ne lamentò, altrimenti Olmo lo avrebbe preso in giro da lì fino alla fine dei suoi giorni. "Chi si prenderà cura di me, adesso?" 
"La tua mamma e il tuo papà non ti vogliono bene?" 
Alfredo scosse la testa, sentendo le lacrime spingere agli angoli degli occhi. 
"C'è solo lo zio Ottavio che mi vuole bene, ma lui è alla Merica, adesso!" 
"Che cos'è la Merica?" 
"Un posto molto grande e molto lontano. Zio Ottavio dice che lì si può fare tutto quello che si vuole." 
"Sembra divertente. Un giorno ci andiamo insieme, va bene?" 
Alfredo tirò su col naso e guardò Olmo, accennando un debole sorriso: "Tu fai già sempre quello che vuoi." 
Olmo gongolò e si batté il pugno sul petto con fare orgoglioso: "È perché sono un socialista!" 
"Che cos'è un socialista?" 
"Non lo so bene, ma nonno Leo lo dice sempre. Sei un socialista, sei un Dalcò!" 
Nonno Leo era Leo Dalcò, il capofamiglia dei contadini a cui tutti facevano riferimento, che tutti ammiravano. Ed era anche un buon amico di nonno Alfredo. 
"Anche io voglio essere un socialista." 
"Non puoi. O sei il padrone o sei un socialista. Tipo, un giorno tutto questo sarà tuo. Basta che mi lasci i bruchi!" 
"Ma va là!" Alfredo sghignazzò. "Mi prendo tutto. Pure te sei mio!" 
"In culo!" esclamò Olmo. "Io me ne vado alla Merica, quando sono grande! Te stai qua a fare il bravo signorino."

Forse anche Leo Dalcò aveva pianto quando il padrone era morto. 
Tutti gli altri contadini piansero, perché c'era stima del vecchio Alfredo Berlinghieri, perché sapevano che era malato da tempo ma che era anche un buon padrone, un brav'uomo. Piansero, perché suo figlio Giovanni non fu come lui. Non aveva a cuore l'interesse degli agricoltori, ciò che contava per lui era sfruttarli per guadagnare sempre di più. E chi non considerava utile alle forze lavorative, veniva licenziato, sostituito da nuove idee e macchinari che aravano i campi molto più in fretta, e più tempo si risparmiava, più si produceva, più si guadagnava. 
I lavoratori all'azienda agricola Berlinghieri furono tra i primi a prendere parte allo sciopero agricolo che si estense per tutta la provincia di Parma. Non mungevano nemmeno più le vacche e, di notte, il sonno di Alfredo veniva disturbato dai loro muggiti doloranti. Un giorno, mentre bighellonava in giro in prossimità dei campi di grano, vide uno spettacolo degno del circo: suo padre, sua madre e qualche altro vecchio parente, tutti ben vestiti, che tiravano le tette alle mucche, Giovanni che urlava perché non sapeva come diavolo si facesse. 
Muovendosi più avanti, incontrò Olmo, intento a fare aria con una foglia al vecchio Leo, appoggiato con la schiena a un palo telegrafico -lo stesso palo su cui Olmo, ogni tanto, si chinava e diceva di ascoltare la voce del fantasma di suo padre che gli parlava dall'aldilà. 
Alfredo lo indicò con il mento: "Che cosa fa?" 
"Dorme." 
"Con gli occhi aperti?" 
Olmo si portò un dito alle labbra, indicandogli di fare silenzio. Per un po' si sentirono solo le imprecazioni di Giovanni Berlinghieri e le cicale che cantavano. 
Poi Olmo si stufò, lasciò lì la foglia e suo nonno, che non si mosse di un millimetro e quasi sembrava non respirare più. Si allontanarono con Alfredo, infilandosi tra le spighe di grano più alte. 
"Guarda!" 
Alfredo si slacciò i pantaloni e lo mostrò all'amico: Olmo gli aveva detto, qualche giorno prima, che se voleva diventare un socialista avrebbe dovuto farselo diventare più lungo, perché loro lo avevano tutti così. 
"Come hai fatto?" gli domandò Olmo, una punta d'invidia nella voce. 
"Ho tirato." 
Risero di gusto e Alfredo si richiuse le brache. Poi si buttarono in mezzo alle spighe, sdraiati sulla schiena a guardare il cielo azzurro sopra di loro. Sembrava così vicino, eppure era così lontano. 
Olmo prese un lungo stelo di grano, lo spezzò in due e ne diede un pezzo ad Alfredo. Se lo mise in bocca, poi incrociò le braccia dietro la testa. 
Alfredo lo guardò per un po'. Gli piaceva come la pelle di Olmo fosse più ambrata della sua per via di tutte le ore trascorse a giocare sotto il sole, in perfetto contrasto con i suoi riccioli dorati. 
Poi il suo amico piegò la testa per guardarlo a sua volta. 
"Io me ne vado a Genova." disse, semplicemente. 
Alfredo si tirò su, appoggiandosi sui gomiti, e sollevò le sopracciglia: "A fare che?" 
"Boh, vallo a sapere. Mandano via tutti i figli dei contadini, perché se quelli non lavorano noi non mangiamo, capisci?" 
"Allora vengo anch'io." 
"Non puoi. Non sei mica un contadino, tu." 
Alfredo abbassò lo sguardo, puntandolo su una formichina che zampettava lì intorno. "Ma poi torni, vero?" 
Si rese conto di provare una paura folle di non rivedere mai più il suo amico, il suo compagno di giochi. E quella paura gli stringeva il cuore, la consapevolezza di non poter essere più felice senza trascorrere il tempo con quel matto che si appendeva le rane al cappello di paglia. Chissà quanti altri bambini avrebbe incontrato lassù a Genova, chissà quanti di loro sarebbero divenuti i suoi nuovi migliori amici. A lui sarebbe rimasta solamente quella cavalletta di Regina. Non andava nemmeno a scuola, Alfredo, perché Giovanni aveva insistito a pagargli un tutore che lo istruisse in casa. 
Olmo si strinse nelle spalle. 
"Boh, non lo so" rispose. "Penso di sì. Lo sciopero non può mica durare per sempre."

Olmo se ne andò su un treno pieno zeppo di bambini. Strillavano, cantavano e sventolavano bandiere e fazzoletti rossi. 
Seduto sui binari dietro casa, Alfredo deglutì, quando sentì il fischio della locomotiva che cominciava ad avvicinarsi. 
"Non sono un codardo" mormorò, ma mentre se lo diceva avvertì una fitta allo stomaco, come se le viscere avessero preso a muoversi dentro di lui. Non sarebbe scappato, quella volta. Non avrebbe avuto paura. Quello era l'unico modo per salutare davvero Olmo. 
Così si sdraiò sulla schiena, le mani ben premute sugli occhi, e lasciò che il treno gli passasse addosso. 
Puzzava, lì sotto, e il rumore delle ruote che scorrevano a pochi centimetri dalle sue orecchie era assordante, ma Alfredo rimase pietrificato per tutto il tempo, al buio, immobile, come morto. 
Ma era vivo quando il treno passò del tutto. Alfredo tolse le mani dal viso e inspirò profondamente, gli occhi puntati sul cielo azzurro. Non era poi così lontano.


Chiudi gli occhi 
E non sognare, Alfredo.

 

  
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