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Autore: Nina Ninetta    22/07/2019    14 recensioni
L’estate a New Orleans può essere davvero calda, proprio come quella del 1969, quando morì nonna Maura. Una donna tedesca forte e idealista che aveva conosciuto gli orrori del Terzo Reich e perciò tentato di raggirare il sistema, per proteggere soprattutto la sua amata nipotina ebrea: Malka.
Seconda classificata al contest "Playlist Contest" indetto da Soul_Shine sul forum di EFP
Terza classificata al contest "Villains against Heroes" indetto da missredlights sul forum di EFP
Quinta classificata al contest ‘Tre parole per una storia’ indetto da Camilla19
Sesta classificata al contest “Happy Birthday To You" indetto da MaryLondon sul Forum di EFP
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
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Una vera rockstar!

 

“L’odio non è altro
che amore non corrisposto”

 
 
Avete mai trascorso l’estate a New Orleans?
Può essere calda, umida e piovosa contemporaneamente. L’estate in cui morì nonna Maura fu esattamente così.
Non ho molti ricordi della mia infanzia. Quei pochi che mi pare di poter rievocare in realtà credo siano stati influenzati dai racconti della nonna.
C’è un particolare che tuttavia è ancora oggi vivido senza che nessuno me ne abbia mai fatto cenno: un camino spento e un freddo pungente. Adesso so che mia madre non accese il focolare fino a quel giorno per evitare che il fumo richiamasse l’attenzione dei nazisti.
Sono per metà ebrea e per metà tedesca. O razza ariana se preferite.
Quando nonna Maura si ammalò di demenza senile aveva ormai raggiunto gli ottant’anni, accompagnati ancora da un fisico possente, da matrona teutonica. Tra i lunghi capelli grigi, raccolti in una treccia composta che cadeva morbida oltre la spalla destra, si potevano scorgere fili biondo cenere se osservati controluce: il suo colore naturale. Sulle gambe era solita tenere una logora coperta di lana, di un rosa pallido, al centro della quale c’era ciò che ne restava di un coniglietto ricamato a mano. Quella coperta, che adesso riposa con lei sottoterra, non teneva più caldo ed era ormai ruvida al tatto, eppure non riusciva a separarsene. Diceva che fu in quella vecchia coperta che mia madre Ester mi avvolse, quando una notte – quella notte – di circa 30 anni fa, bussò alla sua porta e mi porse a lei.
A quanto pare, alla fine aveva deciso di accendere il camino e affrontare il destino degli Ebrei in quel periodo storico. Era il dicembre del 1940, io avevo appena 5 mesi e mia mamma 19 anni.
Una pattuglia delle SS le stava alle calcagna da quando aveva animato il focolare poche ore prima per poi uscire nel cuore della notte, “prendendo la decisione più coraggiosa, amorevole e stupida della sua vita” affermò nonna Maura durante una delle mie visite settimanali. La trovai come di consueto seduta sulla sua sedia a dondolo preferita, quella posizionata accanto all’ampia finestra che dava sul giardino. La vecchia coperta sulla gambe nonostante fossimo prossimi alla stagione estiva e gli occhietti neri e inespressivi del coniglietto mutilato fissati all’insù, sul suo volto rugoso.
Quando la demenza senile diventò un pericolo per la sua stessa vita, presi la sofferta decisione di ricoverarla in una casa di cura per anziani: la “The House of the rising Sun”. La nonna conosceva già lo staff della clinica perché di tanto in tanto faceva visita ai malati terminali o trascorreva le mattinate a giocare a carte con i pazienti in modeste condizioni fisiche. Le chiedevo perché lo facesse, perché essere testimone di tanta sofferenza, e lei, con il suo solito sorriso un po’ triste, mi rispondeva che lo faceva perché lì trasmettevano spesso la sua canzone preferita (la quale, manco a dirlo, si intitolava come la casa di cura). Correva l’anno 1964 e i The Animals passavano nelle radio locali ogni ora circa.
Per oltre 25 anni nonna Maura non ha mai fatto parola delle mie origini ebree, poi la malattia l’ha portata a sfogarsi con me come si farebbe con una vecchia amica - o uno strizzacervelli - in un flusso infinito di coscienza. Più volte, durante il tragitto di ritorno verso casa, mi sono chiesta quanta forza d’animo avesse dovuto avere per trascinarsi dietro un fardello pesante quanto il mondo intero, per una vita intera.
«Questi occhi azzurri ti salveranno dal male del mondo» era solita dirmi quando mi disperavo per un problema all’apparenza insormontabile. Oggi so che i miei occhi hanno già adempito al loro compito, un secolo prima.
Nonna mi prelevò dalle braccia tremanti di mia madre e mi tenne stretta al suo caldo e vigoroso seno, mentre le guardie naziste afferravano la giovane Ester, insultandola per il suo sangue impuro e trascinandola via per i capelli. Letteralmente. Il sottotenente si scusò con Maura per l’inconveniente, purtroppo “questi topi di fogna sono difficili da stanare”. Quindi mi aveva guardato abbozzando un sorriso sghembo:
«Bellissima» disse. «Ha gli occhi azzurri, carattere dominante della razza ariana». Fece un leggero inchino e si allontanò.
Fu così che la nonna si ritrovò a dover crescere una bambina completamente da sola, alla veneranda età di 56 anni e con l’Europa che andava in fiamme.
 
Mio padre Carl non ebbe mai nessun particolare interesse per me, né tantomeno io ho mai sentito la sua mancanza. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fu spedito in missione in Francia, in uno sperduto villaggio lungo il confine con il Belgio. Durante i suoi brevi congedi preferiva soddisfare altri bisogni, evidentemente più impellenti, invece di trascorrere il poco tempo che aveva a disposizione con la sua figlia bastarda.
All’età di 29 anni Carl si prese una bella sbandata per mia madre Ester, nonostante i diversi anni di età che li separavano: lei ne aveva 14, appunto. Era tuttavia il periodo delle Leggi di Norimberga e della deportazione della mia gente nei ghetti. Inizialmente la famiglia di mia madre riuscì a evitare il martirio grazie al buon cuore di nonna Maura, la quale convinse suo marito Adam Schmidt – il Maggiore Adam Schmidt – a intercedere per quella famigliola di ebrei che da generazioni prestava servizio presso la propria casa.
Maura voleva bene a Ester. In fondo l’aveva vista nascere e crescere. Da donna intelligente e attenta, si era anche accorta dell’amore morboso, malato e sconsiderato del suo unico figlio Carl per una ragazzina ebrea di quindici anni più giovane. Aveva tentato svariate volte di parlargli, di farlo ragionare, consigliandogli di prendere moglie, sposarsi e farsi una famiglia con una donna adatta a lui. Carl in tutta risposta aveva resistito per ben cinque anni, durante i quali ogni speranza di una vita insieme alla sua amata Ester svanirono nel nulla. La prima causa furono i continui rifiuti di lei nel corso degli anni, infine la politica di Hitler pose il veto assoluto: i matrimoni fra razze miste erano vietati dalla legge.
Una notte però Carl l’aveva attesa in un angolo buio della casa e l’aveva stuprata, violando il candore di una giovane donna e la religione nella quale credeva. Egli stesso si ritrovò a tradire il proprio venerato Führer, macchiandosi di uno dei reati più deplorevoli per un nazista: giacere con un’ebrea.
Ester il giorno dopo andò via, congedandosi da Maura con un abbraccio silenzioso. A nulla valsero le preghiere di mia nonna per trattenerla, neanche la cruda realtà che solo lì, fra quelle mura, sarebbe stata al sicuro dalla furia immonda dei nazisti. Ma al suo ennesimo rifiuto, Maura aveva capito che proprio in quella casa dimorava un mostro ancora peggiore per la diciannovenne Ester: suo figlio Carl.
Ester odiava Carl per ciò che le aveva fatto e lui a sua volta odiava lei per quello che non era stato in grado di dargli (o che non aveva voluto): amore. E poco importava che discendesse dal popolo che il Terzo Reich aveva messo al bando. Sarebbe fuggito in Sud America con lei se glielo avesse chiesto. Ester però detestava Carl da quando aveva compreso i sentimenti e le continue attenzioni di quell’uomo troppo grande per una quattordicenne.
Quindi non fu difficile per Maura comprendere i motivi per cui mia madre fuggì lontano dalla casa che avrebbe dovuto proteggerla dal male e invece era diventata una prigione. Ciò nonostante non riuscì mai a immaginare l’episodio scatenante, o meglio: preferì accantonare quell’idea aberrante e accettare le conseguenze che quella decisione avrebbe comportato. Fin quando non si ritrovò con un pargolo fra le braccia.
 

 
Al funerale di nonna Maura presenziarono più persone di quanto mi aspettassi. Seguendo le sue istruzioni, feci in modo che venisse seppellita accanto al corpo di suo marito Adam.
«Non mi ha dato l’amore che ogni donna fantastica leggendo romanzi rosa» mi confidò il giorno in cui il nonno ebbe l’infarto. Eravamo nella sala d’attesa dell’obitorio, lui era dentro con gli addetti delle onoranze funebri e stavamo attendendo che lo preparassero nel feretro. «Ma è stato un buon marito.» 
Il giorno dell’esequie faceva così caldo che neanche l’ombra del fogliame degli alberi riusciva ad alleggerire l’afa che sembrava pesare addosso come un plaid di lana. Mi sentivo schiacciata dal peso dell’umidità, sotto l’abito di satin nero la schiena era bagnata a causa del sudore, alcune ciocche di capelli si erano incollate alla fronte. Udivo le persone alle mie spalle sbuffare, i ventagli delle signore erano così tanti che sibilavano nell’aria. Avrei voluto prendere anche il mio dalla borsa e magari tamponarmi il viso e il collo con un fazzolettino, ma ero come immobilizzata. La bara di nonna Maura era proprio lì davanti a me e io ancora mi aspettavo di vederla sbucare da un angolo del campo santo con il suo solito sorriso triste e un’altra storia da raccontare.
 
Quando Maura disse a Carl che Ester era andata via, lui aveva accennato un sorriso tronfio, di scherno:
«Quella puttanella ha finalmente capito che gli Ebrei sono feccia e non possono vivere sotto lo stesso tetto di noi razza superiore».
Secondo Nonna Maura fu proprio Carl a scoprire dove si nascondesse Ester e a sguinzagliarle dietro la Gestapo. A me piace credere che piuttosto mia madre abbia preferito sacrificarsi per permettere alla sua bambina dagli occhi azzurri di sopravvivere in una società disumana e selettiva.
Ciò che invece è certo è che Ester, dopo aver lasciato gli Schimdt, trovò rifugio presso un vecchio rudere abbandonato, dove alcuni omosessuali furono ben lieti di accoglierla e di aiutarla con la gravidanza. Erano tutti tedeschi, mi confessò mia nonna durante un pomeriggio piovoso, che di giorno ricoprivano cariche pubbliche al servizio di Hitler: professori, studenti di giurisprudenza, camerieri. Eppure avevano scelto di vivere nella povertà più assoluta, di restare insieme ai propri amati e mettere da parte un gruzzoletto per fuggire lontano lontano. Chissà, forse sognavano l’America, la patria delle opportunità e dei diritti umani. Erano in sette: due coppie di uomini, una di donne e il fratello gemello di una di queste che aveva deciso di schierarsi dalla parte della sorella.
Una sera però nessuno di loro rientrò e la mamma si trovò completamente da sola, in un’immensa vecchia casa piena di spifferi e scricchiolii, con una bimba di pochi mesi da crescere e proteggere.
Con sua enorme sorpresa la granitica Maura fu quasi obbligata ad allevare una perfetta estranea, della quale tuttavia non le fu difficile riconoscere i geni della famiglia Schmidt. Come i pugni chiusi e lo sguardo glaciale quando un capriccio mi veniva negato.
Nonno Adam non riuscì mai a perdonare completamente suo figlio Carl per quello che aveva fatto. Sua moglie non gli chiese se quel rancore fosse dovuto al fatto che suo figlio fosse stato così vigliacco da violentare una donna o perché la donna in questione fosse ebrea.
La guerra portò lontani sia Carl sia suo padre Adam e nonna Maura poté godersi appieno quella bambina caduta dalle stelle fra le sue braccia. Non a caso era solita rivolgersi a me proprio con l’appellativo di «figlia delle stelle, con gli occhi color del cielo illuminato dal sole e i capelli scuri come la notte senza luna».
Come ho detto prima, ho conosciuto davvero molto poco mio padre Carl da non sentire praticamente mai la sua mancanza, neppure quando morì. Un giorno di dicembre del 1944, bussarono alla porta di casa e un giovane in divisa fece sapere a mia nonna che «suo figlio Carl è morto per onorare la Patria». Le porse una medaglietta e andò via, congedandosi con il saluto militare. Quell’oggetto freddo e inanimato era tutto ciò che restava di papà.
Qualche mese dopo ricordo una lunga discussione in casa Schmidt fra i miei nonni. Io avrei compiuto 5 anni il mese successivo, eppure nel silenzio più assoluto della camera da letto, nel cuore della notte, mi sembra ancora di poter sentire chiaramente le parole di nonna Maura:
«Solcherò l’oceano da sola o a nuoto se necessario, ma salverò Malka da questa follia!».
«Si chiama Katrina!» aveva esclamato suo marito Adam battendo un pugno sul tavolo.
«No, il suo nome è Malka, perché l’ha scelto sua madre e perché è per metà ebrea» la voce di nonna si fece più sottile, come se sibilasse le parole, simile a un serpente. «Sai cosa vuol dire Malka nella sua lingua? Ho fatto una ricerca: significa regina. Malka significa regina» aveva scandito quella frase manco se la verità sulle mie origini avesse potuto mutare la realtà in cui vivevamo.
«Devi imparare a chiamarla Katrina se vuoi sperare di passare la dogana e imbarcarti su una nave per l’America. O le spareranno in testa senza pensarci due volte».
Nonna Maura non aggiunse altro. Adam poteva sembrare un uomo burbero e senza sentimenti. In realtà aveva un modo tutto suo di far capire agli altri il bene che provava.
Tre settimane più tardi ci imbarcammo su una nave diretta in Argentina. Io, unica ebrea – probabilmente – in mezzo a decine e decine di nazisti che fuggivano dalla sentenza finale. Non era facile lasciare la Germania in quel periodo. La sensazione comune era che la fine della guerra fosse vicina e di certo i tedeschi non sarebbero saliti sul podio dei vincitori. Riuscimmo a trovare i biglietti verso la salvezza grazie soprattutto alle conoscenze del vecchio Maggiore Schmidt.
Nessuno si meravigliò di vedere una coppia di anziani in compagnia di una bimba di appena 5 anni: la guerra non aveva fatto sconti neanche alla potente, imbattibile e pura razza ariana.
Quando la Germania firmò la resa e le foto dei campi di concentramento fecero il giro del mondo, molti tedeschi si vergognarono di quello che il proprio popolo aveva fatto ad altri. Si contarono milioni e milioni di morti, eppure qualcuno era riuscito a sopravvivere a quell’inferno. Penso che Maura si convinse che la stessa Ester fosse fra questi ultimi, forse ci sperò più per mettere a tacere la propria coscienza.
Della traversata transatlantica ricordo il cielo stellato. Un’immensa distesa buia che si estendeva a perdita d’occhio ci inghiottiva completamente, costellata da migliaia di puntini luminosi. Io e nonna passavamo intere notti con il naso all’insù a contemplare lo spettacolo che si srotolava sopra le nostre teste, cullate dall’infrangersi delle onde contro la nave. Fu durante quelle notti che notai un oggetto che la nonna aveva iniziato a portare sempre con sé: uno scrigno. Quasi come se non si fidasse a lasciarlo incustodito quando Adam era nelle vicinanze, continuò a tenere quel portagioie al sicuro anche dopo lo sbarco. Non era un bel portagioielli, non aveva pietre preziose incastonate o intarsi artigianali, era semplicemente fatto di legno lucido, grande quanto il palmo di una mano.
Negli anni mi dimenticai dello scrigno, il ritorno a una vita normale – semmai ne avessi avuta una fino a quel momento – mi aiutò a crescere come una bambina e poi un’adolescente comune. Di tanto in tanto però il portagioie saltava fuori, soprattutto durante i traslochi a cui eravamo costretti. In quei casi nonna Maura non lo chiudeva nei pacchi insieme al resto delle cose, ma lo teneva con sé, ben protetto nella borsa. Non so se il nonno si fosse mai reso conto della presenza di quell’oggetto, per quel poco che mi ha permesso di conoscerlo, so che non gli sfuggiva mai nulla.
 
Ci trasferimmo a New Orleans negli anni ’50. Nonostante l’età avanzata Adam trovò lavoro come istruttore presso il poligono della città, mentre nonna Maura teneva alcune lezioni private di tedesco. Io ero un’adolescente sveglia e iperattiva, che amava studiare e fare sport di ogni genere (il nonno diceva che l’amore per l’attività fisica l’avevo ereditata da mio padre). Onestamente ignoro come e perché i nonni scelsero di stabilirsi proprio qui, a New Orleans, una città così lontana dal loro modo di essere, eppure nessuno di noi tre ebbe problemi a integrarsi nella società.
Nonno Adam morì d’infarto a 79 anni. Era il 1958, io avevo appena compiuto il mio diciottesimo anno di età e frequentavo il college locale. La sera stessa delle esequie notai Maura seduta sul bordo del letto a fissare lo scrigno dei misteri. Mi avvicinai piano e vidi che era chiuso, quindi le chiesi perché tenesse così segreto il suo contenuto, possibile che fosse tanto importante? Nonna non si prese neppure la briga di alzare lo sguardo per guardarmi negli occhi, cosa che faceva molto di rado, poi come se fosse in uno stato di trance disse che racchiudeva il più grande segreto della sua esistenza.
Pensai a mio padre e mia madre, di cui sapevo così poco; pensai alle lettere di un amante, magari morto in guerra o fuggito in qualche luogo esotico proprio per sfuggire alle grinfie della guerra. Di sicuro mai e poi mai avrei pensato di trovarvi liste intere di nomi di donne ebree.
Dopo la morte di nonna Maura gli inservienti della “The House of the rising Sun” mi consegnarono tutto ciò che possedeva. Fra le poche cose, c’era ovviamente anche lo scrigno. Feci il viaggio di ritorno in auto, gettando di tanto in tanto uno sguardo fugace sul portagioie di legno immobile sul sedile del passeggero. Finalmente avrei potuto svelare il mistero e sapere cosa nascondesse al suo interno, eppure adesso non mi interessava più. Qualsiasi cosa avesse contenuto era morta con mia nonna. Soppesai l’idea di non aprirlo, di non violare quel segreto che Maura aveva celato al mondo per anni interi.
Chi ero io per venirne a conoscenza in fondo?
Una piccola parte di me temeva anche di restar delusa, non da ciò che vi avrei trovato, ma da quello che avrei potuto scoprire sulla nonna. Una donna che avevo in qualche modo idealizzato, forte e caparbia, che era riuscita a farmi da nonna, da mamma e da papà allo stesso tempo e per tutti quegli anni.
Se non fossi stata la sua vera nipote?
Quando quella sera Robert tornò a casa dopo il lavoro, mi trovò in piedi, a fissare un oggetto che lui non aveva mai visto prima. Mi puntellavo con il bacino contro i mobili della cucina, mentre mangiucchiavo le pellicine intorno alle unghie, senza più cognizione di nulla. Sul soffitto il ventilatore a pale ronzava come il motore di una vecchia Buick degli anni ’30.
«Mal?» Robert si accostò cauto. «Che succede?»
«Lo vedi quello?» chiesi, indicando il portagioie sul tavolo. «Era di Maura. Per anni mi sono chiesta cosa contenesse e adesso non so se voglio saperlo.»
Robert cominciò a fissarlo a sua volta, passarono alcuni minuti, o forse ore.
«E se ti riguardasse?»
Questa semplice domanda bastò per convincermi.
All’interno dello scrigno, ciò che mia nonna aveva considerato più importante della sua stessa vita, trovai alcune centinaia di nomi e cognomi di donne. Tutte ebree e con tanto di età. I nomi erano stati tutti scritti a mano e non mi fu difficile riconoscere la grafia della nonna: sottile e spigolosa.
Cercai il nome di mia madre, scrutando e rileggendo quei foglietti spiegazzati e talvolta sporchi – di sugo, di caffè, di lacrime – per diverse volte, ma niente da fare. Ester non era fra questi.
Nei giorni seguenti mi convinsi a fare delle ricerche approfondite, cominciando dalla biblioteca dell’Università in cui insegno – corso di “Storia e origini del popolo ebraico”.  Fuori la colonnina di mercurio sfiorava i 35° C, ma all’interno della struttura si stava decisamente freschi. Mi sedetti in disparte, con una quantità di libri da consultare non indifferente. Rimasi a osservarli per un po’, prima di allontanarmi per prendere un caffè al distributore. Una vocina dentro la mia testa continuava a dirmi di lasciar perdere, nonna non c’era più ed era abbastanza sterile incaponirsi su tutti quei nomi di persone sconosciute e probabilmente morte come bestie. Eppure tornai alla mia postazione, il caffè mi aveva dato nuova forza, nuovo coraggio.
Mi ci vollero diversi giorni per arrivare alla conclusione di quella storia, ma neanche così tanti a dire il vero. Già dopo i primi cinquanta o sessanta nomi la verità cominciò a farsi largo nella testa, ma proseguii nella ricerca. Volevo esserne certa. Nessuna delle donne riportate su quei foglietti figurava fra le vittime ammazzate nei campi di concentramento. Questo poteva significare solo una cosa: erano vive.
Non so come, ma era evidente che nonna Maura si era battuta per salvare quante più donne ebree le fu possibile. Forse con l’aiuto del Maggiore Schmidt, erano state mandate a lavorare nei terreni o nelle fabbriche di armi. Se l’avesse fatto o meno solo per trovare mia madre non mi importava affatto. Nascosi un sorriso dietro la tazza di caffè marchiata New Orleans University, ripensando a ciò che mi aveva detto Robert la sera precedente, quando nella penombra della nostra camera da letto gli avevo parlato di quella possibile eventualità:
«Wow! Tua nonna era una vera rockstar!».
 
 

fine

  
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