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Autore: Red Owl    25/07/2019    0 recensioni
Per vent'anni il comandante Medina Suarez, detta "Medea", ha meditato vendetta nascosta nelle viscere di una città sotterranea, costretta a vivere all'ombra degli uomini che hanno distrutto la sua famiglia. Finché, un giorno, l'ora della vendetta arriva.
***
Seconda one-shot scritta per il concorso "Perle d'Inchiostro".
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Alexandria'
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Qualcuno mi ha messo davanti un bicchiere sporco. Le mie dita lo stringono assenti e la mia mano inizia a disegnare dei cerchi lenti, strisciando sulla superficie rovinata del tavolo. È un mio vecchio vezzo. Gioco sempre un po' con i miei drink, prima di consumarli. Il liquido trasparente che il barista mi ha servito inizia a ondeggiare, increspandosi in minuscole onde regolari che si infrangono contro la barriera effimera del vetro. È un movimento quasi ipnotico e i miei occhi lo seguono vacui, senza un vero interesse.

Sono seduta in questo buco sotterraneo a bere vodka calda, mentre tutto intorno a me decine di corpi sconosciuti si contorcono e guizzano al ritmo martellante della musica vomitata da altoparlanti che non riesco a vedere. Io non la sopporto, la vodka. Eppure la bevo lo stesso, piccoli sorsi regolari che mi incendiano la lingua e la gola senza che io colga il gusto di quello che sto ingoiando. Ma chi se ne frega. Non sono qui per l'alcol o per godere di questa massa di umanità pulsante, brulicante come una nidiata di vermi e affamata di piaceri facili e di oblio a poco prezzo. Non sono in cerca di sesso, né di droghe che possano rendermi meno consapevole della nostra condizione abietta: no, sono qui il Nemesis è il luogo che più di ogni altro riesce ad alimentare in me la rabbia, soffiando nuovo ossigeno sulle braci mai spente del rancore e della vendetta. Perché in questo posto io vedo il simbolo di quello che siamo diventati: ratti timidi che da vent'anni si nascondono nel ventre polveroso della terra, troppo spaventati per salire in superficie e reclamare il nostro posto sotto i raggi caldi dei due soli gemelli che illuminano questa terra. Noi viviamo rintanati nelle tenebre eterne, mentre loro, lassù, godono delle bellezze che questo mondo ha da offrire.

Non sono in molti, quelli che osano alzare il capo. Le persone che ci governano e che dovrebbero avere cura di noi non hanno davvero la forza di affrontare la situazione. O forse non ne hanno l'interesse... chissà.

"Ehilà!" mi apostrofa una voce che ho imparato a conoscere bene. "Indovina cos'ho scoperto?"

Non trattengo un sospiro irritato mentre mi volto per guardare in faccia l'uomo che si sta avvicinando a me, contorcendosi come un'anguilla per evitare di scontrarsi con uno dei tanti ballerini che affollano il locale. È incredibilmente alto, il che, immagino, gli garantisce un certo vantaggio. Noto che i suoi capelli rossi sono acconciati in una pettinatura ancora più bizzarra del solito: se ha deciso di curare tanto il proprio aspetto fisico, è indubbiamente perché prevede di dover dare il meglio di sé, questa sera.

"Ti aspettavo più di mezz'ora fa" gli faccio notare, posando il bicchiere sul tavolo con uno tonfo secco.

Il sorriso scompare dal suo volto allungato, dominato da un naso troppo grosso. "E dai, Medea!" esclama in tono lamentoso.

Medea. Come mi viene facile, rispondere a questo nome. Solo di tanto in tanto ricordo il tempo in cui non ero Medea, ma Medina, una ragazzetta bruna con le gambe da cerbiatta e i capelli che profumavano di olio di mandorla. Succede soprattutto quando mi trovo impegnata in una conversazione di poco conto e la mia mente si sente libera di vagare, libera dalla morsa che che mi stringe perennemente l'anima. 

Dimenticando rapidamente il mio sgarbo, Ian afferra uno sgabello di ferro scuro dal tavolo di fianco al mio e lo trascina di fronte a me, lasciandovisi poi cadere sopra con uno sbuffo teatrale. "Mi offri qualcosa da bere?" mi chiede, rivolgendomi quel suo sorriso storto che gli deforma i tratti del volto in modo quasi grottesco.

Per tutta risposta, agito una mano come per scacciare una mosca invisibile. "I soldi ce li hai" replico seccamente. "Non siamo qui per conversare del più e del meno: se hai qualcosa da dirmi, fallo subito e poi levati dalle palle per un altro po'."

Se è turbato dalla mia risposta brusca, non lo dà a vedere. Del resto, è abituato a questo mio modo di fare al limite della maleducazione. Credo che non gli importi nulla di quello che dico o penso: se siamo qui, è perché pensiamo di poter trarre un vantaggio dalla reciproca collaborazione, non certo perché vogliamo diventare amici.

"Carina e accomodante come sempre, eh, Comandante?" sghignazza infatti. Il titolo con cui si rivolge a me, comandante, gronda sarcasmo. Sappiamo entrambi che non sono al comando di nulla di concreto: non guido nessuna forza ufficiale che possa veramente fare qualcosa per cambiare le nostre vite, ma solo una banda di sbandati troppo misera per ottenere dei risultati degni di nota.

"Allora?" lo sprono, ignorando la sua provocazione. In fondo, so che si tratta di una frecciatina bonaria: per quanto possa trovarlo sgradevole, Ian ha spesso combattuto al mio fianco e si è sempre dimostrato un soldato leale.

Con un gesto rapido, lui si impossessa a del mio bicchiere e se lo porta alle labbra, trangugiando in un solo sorso metà della vodka residua. "Dunque", esordisce, con una luce un po' folle che gli accende gli occhi pallidi, "ti hanno detto chi sarà dei nostri, questa sera?"

Basta quella semplice domanda per mettermi sul chi va là: l'esperienza mi ha insegnato a diffidare dei vari soggetti che, di tanto in tanto, si presentano non invitati alle nostre piccole riunioni periodiche. "Chi?" chiedo, avvertendo i muscoli della schiena che si irrigidiscono poco alla volta.

Lui sorride e i canini dorati che si è fatto piantare in bocca scintillano in modo un po' sinistro. "Il Signor Christopher Kay" replica. "Non è meraviglioso che un illustre membro del Consiglio Cittadino abbia deciso di dedicarci un po' del suo preziosissimo tempo?"

La mia occhiata dev'essere talmente eloquente che non c'è alcun bisogno che io espliciti a parole quello che penso del Signor Kay e delle persone come lui: inutili burocrati che ci blandiscono con parole vuote, promettendoci un cambiamento imminente che, però, non arriva mai. "Chi l'ha invitato?" chiedo, serrando i denti con rabbia. Chiunque l'abbia fatto, mi deve delle spiegazioni.

Ian si stringe nelle spalle, un gesto ridicolamente infantile, considerata la sua stazza. "Non ne ho idea" confessa, ben poco interessato all'argomento. "A me l'ha detto il Corvo. Come abbia fatto lui a saperlo, però..." e scrolla di nuovo le spalle, lasciando sfumare la frase.

Ma sì. In effetti, si tratta di un particolare di poco conto. Se Christopher Kay vuole dire la sua in occasione di quello che dovrebbe essere un incontro privato, se non addirittura clandestino, io non sono nella posizione di impedirglielo.

"Ti va di ballare?" La domanda di Ian, tanto inaspettata quanto balorda, mi distrae per un istante dai miei pensieri. Ballare? Dice sul serio? Non ho mai mosso un singolo passo di danza in tutta la mia vita – nemmeno prima, quando le cose erano diverse - e non intendo certo iniziare seguendo il suo gentile invito.

"No" rispondo semplicemente, una sillaba secca che non lascia spazio a dubbi o proteste.

Lui ride di nuovo, un suono gorgogliante che si leva dalla profondità della gola e sorpassa quasi singhiozzando la barriera dei denti e delle labbra. Cosa diavolo avrà da ridere sempre, poi. Non sono molti i motivi per cui rallegrarsi e, in effetti, la risata di Ian è spesso priva di gioia autentica. Lui, però, ride lo stesso. Forse è un idiota e quello è il suo modo di affrontare la vita.

Rivolgendomi un cenno con la sua mano enorme, Ian gira sui tacchi e poi si lancia nel turbinio dei corpi sudati che invadono tutta la parte del locale che non è già occupata da sedie e tavolini, lasciandomi nuovamente sola con la mia vodka calda. Soppeso per qualche istante il bicchiere sporco di ditate e di grasso vecchio, poi me lo svuoto in gola, contraendo il viso in una smorfia mentre l'alcol lascia in me una scia infuocata che si condensa nel centro del petto, appena sotto lo sterno.

Per i successivi venti, trenta minuti, osservo le persone che ballano caoticamente davanti a me, chiedendomi come possano sembrare felici, soddisfatte di quello che hanno. Come può essere felice Ian, che pure si impegna in prima linea per riconquistare il diritto di guardare il cielo?

Le mie riflessioni vengono interrotte bruscamente quando il barista, un uomo basso e con il volto in gran parte nascosto da una barba incolta, si avvicina a me e mi posa una mano sulla spalla. Non dice niente, ma con un dito mi indica il gruppetto di persone che hanno appena varcato la soglia e che io, assorta com'ero nel mio studio del campione di umanità che si agita davanti a me, non avevo visto arrivare. Vi scorgo il Corvo, lì in mezzo, il volto pallido e inespressivo come sempre, vedo Angela e i suoi capelli rosa, la piccola Shanti e Cortés. È proprio quest'ultimo a rivolgermi un cenno di saluto e a indicarmi con il capo la porticina quasi invisibile che conduce allo stanzino in cui siamo soliti incontrarci.

Ian si materializza al mio fianco e poi passa oltre. Prima di seguirlo, mi soffermo qualche istante a osservare il quinto componente del gruppo, quello che, per quanto mi riguarda, non ha ragione di trovarsi qui. Christopher Kay è un uomo alto, dalla pelle scura come ebano, assolutamente troppo giovane per ricoprire con saggezza la posizione che gli è stata assegnata: deve avere almeno dieci anni in meno di me, il che lo rende quasi un ragazzino.

Quando raggiungo lo stanzino, sono già tutti seduti attorno al tavolo. I miei compagni hanno delle espressioni guardinghe, come se temessero la mia reazione. Mentre afferro una delle sedie pieghevoli addossate alla parete dipinta di un rosso cupo e mi faccio spazio tra Angela e Ian, sento su di me gli occhi neri e liquidi di Christopher Kay. Quando si accorge di avere la mia attenzione, il ragazzo allunga davanti a sé le gambe fasciate dai pantaloni militari neri e le sue labbra piene si stirano in un sorriso pigro. "Vorrei ringraziarti per avermi concesso di partecipare alla tua piccola riunione, Comandante" mi dice con la sua voce calda e avvolgente.

"Io non ti ho concesso proprio niente" puntualizzo, sputando le parole insieme a tutta l'irritazione e il disprezzo che provo nei suoi confronti. "Hai fatto tutto da solo."

Il sorriso sul suo volto dai tratti regolari sembra raggelarsi per un istante, ma poi la tensione quasi impercettibile che per un attimo ha increspato i suoi lineamenti scompare. "Come vuoi" concede, lasciandosi prontamente alle spalle i convenevoli. "Parliamo del motivo per cui sono qui, allora."

"Mi sembra una buona idea" si intromette Ian, ma Kay pare non badargli, tenendo invece gli occhi puntati su di me.

"So che domani avete in programma un'escursione in superficie, Comandante Suarez." Pronuncia il mio cognome con estrema attenzione, lasciando che la "s" e la "r" rotolino quasi con pigrizia sulla sua lingua. Suppongo che voglia vedere che effetto mi fa sentire quel nome che nessuno pronuncia più da tanto tempo.

"Esatto" confermo in tono neutrale.

Lui annuisce. "II Signor Dekker mi ha riferito che domani intendete far visita alla centralina elettrica tra la ventesima e la ventunesima strada, è corretto?"

Prima di rispondere, lancio un'occhiata tagliente al Corvo, chiedendomi cos'altro abbia raccontato al ragazzo. Lui, però, mi fissa con aria impassibile, come se non si sentisse tenuto a fornirmi alcuna spiegazione. "Confermo" faccio, allora, senza aggiungere ulteriori dettagli. Del resto, sono certa che il Signor Kay sappia benissimo che è questo, quello che facciamo: piccoli sabotaggi, delle azioni di disturbo talmente poco rilevanti che difficilmente scatenano la risposta di chi vive alla luce del sole. È raro che riusciamo a fare qualcosa di più incisivo: siamo tutti armati, sì, ma più per difesa personale, che per altro.

"Benissimo" annuisce ancora Christopher Kay. "Vorrei chiedere la vostra collaborazione per una faccenda che potrebbe aiutare a migliorare le vite dei nostri concittadini. Devo chiedervi di rivedere leggermente i vostri piani, ma vi assicuro che, se tutto andrà come spero, i risvolti saranno più che positivi."

"Cosa significa che dovremo rivedere i nostri piani?" lo interrogo.

Il Signor Kay mi fissa in silenzio per qualche istante, poi si sporge verso di me, posando entrambi i gomiti sul tavolo che ci separa. "Siamo stati invitati a un incontro con la Signora Laura Yates, Prefetto di Alexandria. Ci sono delle trattative in corso, ma questa sarà la prima volta che ci incontreremo faccia a faccia. È solo un piccolo rendez-vous informale, ma io credo che possa essere importante. Sono certo che potrebbe essere una prima pietra su cui fondare poi dei rapporti migliori tra le nostre due città."

Inarco le sopracciglia in un'espressione scettica. "E dunque?" chiedo. Credo di intuire dove vuole andare a parare, ma preferisco non fare ipotesi che potrebbero rivelarsi infondate.

"E dunque", ripete Christopher Kay, chinandosi un po' per guardarmi negli occhi, "sono qui per chiedervi di accompagnarmi fino al luogo dell'incontro. In poche parole, voglio che voi diventiate la mia scorta, almeno fino a domani sera: il Consiglio ha pensato che io fossi la persona più adatta per affrontare il colloquio con la Signora Yates. Purtroppo non sono però nelle condizioni di concedermi una scorta armata ufficiale, dal momento che la presenza di soldati potrebbe essere considerata offensiva. È un ragionamento che posso capire, perfino condividere, ma non sono un idiota: non ho nessuna intenzione di finire in un'imboscata... non senza prendere qualche precauzione, quantomeno."

lan scoppia a ridere. "E credi che noi risulteremo meno offensivi agli occhi dei signori di Alexandria? Forse le nostre armi non sparano proiettili, ma confetti e caramelle?"

Gli occhi neri del Signor Kay hanno uno scintillio minaccioso. "Confido nel fatto che abbiate il buonsenso e l'intelligenza di non farvi vedere, a meno che le circostanze non lo richiedano." Davanti al tono velenoso con cui il ragazzo ha pronunciato quelle parole, lan solleva le mani e annuisce. Poi Christopher Kay si rivolge direttamente a me. "Questo significa che dovrete rinunciare al vostro proposito di far saltare la centralina elettrica. Se l'incontro di domani andasse a buon fine, è probabile che dovrò avvalermi dei vostri servizi anche in futuro: in questo caso, dovrete astenervi dal commettere vandalismi e sabotaggi vari anche nei mesi a venire.

"No."

La risposta esce dalle mie labbra ancor prima che il mio cervello abbia il tempo di processarla e il Signor Kay mi rivolge un'occhiata perplessa. "No?" ripete, con solo una punta di minaccia nella voce.

Davanti alla sua incredulità, guadagno sicurezza. "Non abbiamo intenzione di fare quello che chiedi. Non è questo, quello per cui lottiamo."

Sulle sue labbra piene, quasi femminili, si dipinge un piccolo sorriso educato. "Non lottate forse per la pace?" mi provoca. "Il vostro obiettivo primario non è il benessere dei nostri concittadini?"

"Noi vogliamo solo giustizia: è questo il nostro obiettivo" lo contraddico.

"E rimettendo a posto le cose non avreste giustizia?" mi incalza il ragazzo. Faccio per rispondere, ma le parole mi muoiono in gola. C'è qualcosa che mi brucia all'altezza dello stomaco, un grido soffocato, disperazione e dolore e sangue, paura e una rabbia feroce e senza risposta. No, non è la giustizia che cerco io, vorrei dire, ma Christopher Kay mi precede. "Tu ti chiami Medina Suarez, non è così?" mi chiede, di punto in bianco. "È questo il nome con cui sei registrata all'anagrafe. Eppure tutti qui ti chiamano Medea: perché?"

La domanda dovrebbe sorprendermi, eppure non lo fa. Mi pare stranamente coerente con il discorso che stavamo facendo fino a pochi istanti fa e improvvisamente intuisco che quel ragazzo con troppo potere tra le mani vede più lontano di quanto credessi. "Mio padre era un amante della mitologia greca" spiego, cercando di ignorare il peso degli sguardi che i miei compagni stanno riversando su di me. "Questo nome è un modo per ricordarlo."

Il Signor Kay annuisce. "Tuo padre è morto tempo fa, vero, Comandante?"

Subito incontro i suoi occhi del colore della notte. "È stato ucciso durante la guerra civile. E lo stesso vale per il resto della mia famiglia."

Il ragazzo sembra non avere udito la mia risposta, immerso com'è nei suoi pensieri. "È un mito strano, quello di Medea. Non posso dire di essere un appassionato di miti terrestri, ma, se non ricordo male, Medea era l'amante di un eroe... Giasone, o forse era Ercole? E quando lui l'ha lasciata per un'altra donna, lei si è vendicata donandole un mantello avvelenato che l'ha uccisa tra atroci sofferenze. Personaggio piuttosto sgradevole, per quanto mi riguarda."

È Angela a venire in mio soccorso, captando il mio disagio. "Tutto ciò è molto interessante, ma ho come l'impressione che stiamo andando un po' fuori tema" ci fa notare, masticando rumorosamente una radice di pianta del sale, una delle poche cose che riusciamo a coltivare con agio alla luce delle nostre lampade artificiali.

"Niente affatto" la contraddice Kay. "Io ho l'impressione che il vostro comandante non sia in cerca di giustizia, bensì di vendetta, che è una cosa ben diversa. È per questo che si rifiuta di fare ciò che le chiedo; ed è per questo che si è scelta questo peculiare nome di battaglia."

Quelle parole mi colpiscono come un pugno nello stomaco e un capogiro mi coglie per una frazione di secondo. Perché ha ragione, naturalmente: io voglio vendetta. Io voglio che chi ha massacrato la mia famiglia davanti ai miei occhi, lasciandomi in vita solo per sadica compassione, soffra come ho sofferto io, espiando tutte le sue colpe. Non l'ho mai ammesso ad alta voce, ma è questo desiderio che mi ha animata per tutti questi anni, spingendomi ad abbracciare le armi e a impegnarmi in prima linea in questa guerriglia logorante che si trascina lenta da quasi un decennio. Ma, al tempo stesso, Christopher Kay si sbaglia: questa è giustizia. Questa è la forma più pura e istintiva di giustizia che possa esistere.

"Il nome è solo un modo per onorare la memoria di mio padre" mi limito a ripetere. Se non esplicito il mio ragionamento, non è perché me ne vergogno o perché lo ritengo poco valido: semplicemente, non credo di dovermi giustificare davanti a un ragazzino che se ne sta qui di fronte a me, tronfio e ignorante e del tutto incapace di vedere al di là del proprio naso.

"Se le cose stanno così, sono certo che allora riconsidererai le tue posizioni e riconoscerai che la mia proposta è tutt'altro che sciocca" insiste il Signor Kay. "L'unico modo per cambiare le cose e tornare a vivere in superficie è cercare di instaurare dei buoni rapporti con la gente di Alexandria. Solo così potremo sperare di convivere pacificamente. Usando la violenza, non otterremo che altra violenza: e, credimi, non siamo noi ad avere l'arsenale migliore."

Il suo tono calmo, ragionevole, rischia di farmi saltare i nervi. "E dove sta la giustizia, in tutto ciò?" ringhio, sporgendomi verso di lui. "Dopo l'Epidemia, loro sono arrivati dal cielo e hanno deciso che si sarebbero presi la città che i nostri fratelli avevano fondato. Noi eravamo su questo fottuto pianeta già da dieci anni, avevamo le nostre case, le nostre coltivazioni: con quale diritto si sono presi quello che era nostro?"

"Questo pianeta non è né loro né nostro" mi fa notare Kay. "Siamo tutti ospiti, qui."

"Ma sono stati loro a perseguitarci! Sono stati loro a imporci quella quarantena assurda!" mi ritrovo quasi a gridare. "Tu non eri neppure nato, all'epoca, ma io c'ero: e anche Ian c'era, e pure Cortés. Ce li avevamo anche noi, i medici e gli scienziati, sai? Non eravamo degli idioti: se siamo tornati ad Alexandria, era perché sapevamo che il morbo che ne aveva sterminato gli abitanti era scomparso. Loro non volevano evitare una seconda epidemia: volevano soltanto cacciarci dalla nostra città! E adesso non ci è nemmeno più concesso risalire in superficie e cercare una nuova terra in cui vivere: ci cacciano come animali."

Il ragazzo china il capo per qualche secondo, riflettendo sulle mie parole. "Sono stati commessi degli errori, in passato, e io non giustifico gli assassini che hanno condotto quella che può essere a tutti gli effetti considerata una pulizia etnica" ammette, poi. "Ma ora le cose sono cambiate anche in superficie. La gente là sopra vuole la pace, vuole rimediare..."

"Rimedieranno solo quando ci renderanno ciò che è nostro e se ne andranno" lo interrompo. "Noi abbiamo occupato questa terra per dieci anni e loro..."

"... e loro la occupano da venti, Signora Suarez" mi fa notare il ragazzo. C'è un che di strano, adesso, sul suo volto: è qualcosa di morbido e un po' triste. È qualcosa che mi fa male e mi fa venire voglia di urlare, perché assomiglia tanto alla compassione.

"Non mi interessa" sbotto. "Ho avuto più tempo di te per meditare su questa faccenda, ragazzo, e non sarai certo tu a farmi cambiare idea."

Per me la questione è chiusa qui, ma intorno a tavolo regna un silenzio di tomba. Rendendomi conto solo in questo istante di quanto poco abbiano parlato i miei compagni, mi guardo attorno e vedo che mi stanno fissando con dei volti gravi.

"Medea", sospira la piccola Shanti, "credo che dovresti ascoltare quello che abbiamo da dire anche noi."

***

E così, alla fine abbiamo fatto come ha voluto lui. Mi sento tradita, non posso negarlo: non so quali parole abbia usato per convincere i miei compagni, quali lusinghe e quali minacce, ma ieri sera si sono schierati compatti contro di me. Chi con apatia, come il Corvo, chi con dispiacere, come Shanti e Cortés, chi con spavalda allegria, come Angela e Ian.

È proprio il gigante dai capelli rossi a serrarmi amichevolmente una spalla con una mano enorme. "E dai, Comandante" mi sprona. "Non fare quella faccia lì: non stiamo mica andando in guerra!"

Siamo appostati in un vicolo buio a metà strada tra il cuore e la periferia estrema di Alexandria: se alziamo gli occhi, però, vediamo il baluginio delle stelle e tanto basta per farci nascere nell'animo un senso di grandiosa quiete.

Siamo soli. Davanti a noi si apre una strada ampia, illuminata dalla luce dei lampioni. Pochi metri più in là rispetto allo sbocco del vicolo in cui ci troviamo, sulla sinistra, c'è un immenso palazzo dalla facciata scura, decorato con dei simboli istituzionali: tre stelle che fanno da corona a un albero stilizzato. Pochi minuti fa, il Signor Kay è scomparso oltre la porta di metallo posta al centro della facciata, scortato da due uomini in divisa: da quando se n'è andato, tutto è immobile e silenzioso. Il trasmettitore con cui dovrebbe avvertirci in caso di pericolo non ha dato cenni di vita. La notte è quieta, eppure sento un'inspiegabile tensione stringermi lo stomaco, come il presagio di qualcosa che sta per compiersi.

Nemmeno il tempo di formulare il pensiero, che Shanti sussurra: "Arriva qualcuno!" E ha ragione. Silenziosa come un cacciatore in cerca di prede, un'automobile scura, con i fari spenti, si avvicina al vicolo in cui siamo appostati, senza pero imboccarlo. Si ferma invece davanti alla porta dietro la quale è sparito Kay e da essa scendono tre persone. Quando passano sotto il lampione posto davanti alla porta d'ingresso, il sangue mi si ghiaccia nelle vene.

Accanto a me, Shanti trattiene il fiato e lan si volta verso di me, guardandomi preoccupato. "No, Medea" mi dice. Non lo sento nemmeno. I miei sensi sono tutti concentrati sul più anziano dei tre uomini fermi sotto il lampione. Non è esattamente come me lo ricordavo, i suoi capelli un tempo biondi sono ormai ingrigiti dal tempo, ma gli occhi sono gli stessi. Me li ricordo bene, quegli occhi grigi come coltelli. Riesco a vederli nonostante la distanza che ci separa, nonostante le ombre della notte che distorcono le forme e i colori. Quello è Simon Moi.

Mentre le mie mani si muovono come animate da volontà propria, i miei occhi rivedono scene di vent'anni fa. Rivedo il giardino, le poche piante che riuscivano a crescere nel clima ostile di quel pianeta alieno. Rivedo mia madre, accasciata a terra con mio fratello tra le braccia. C'è del sangue, sopra di loro, sangue sui loro volti, sul busto, sulle mani. Mio fratello ha gli occhi chiusi, ma mia madre no. E poi  rivedo mio padre, riverso sui tre gradini che separano il giardino dalla porta d'ingresso. Cerca di tamponare una ferita aperta all'altezza dello stomaco, ma le sue mani non possono nulla e il sangue scorre lento e inarrestabile, portandosi via le sue forze e la sua vita. Non dice nulla, non un lamento lascia le sue labbra, ma nei suoi occhi scuri e buoni c'è un'unica richiesta: vendicaci.

E io la leggo, nascosta come sono nel capanno degli attrezzi. La leggo a tredici anni e la leggo anche adesso, che di anni ne ho trentatré. E la legge anche lui, Simon Moi, che lo sa, che io sono lì, a pochi passi di distanza, sepolta da attrezzi agricoli che nessuno userà più. Potrebbe coprire i pochi metri che ci separano, spalancare l'anta di metallo e uccidermi esattamente come ha ucciso miei genitori e mio fratello.

Però non lo fa. Non per compassione, non per pietà nei confronti di un'adolescente che non ha mai visto, ma per il gusto della sfida. La vedo bene, l'eccitazione, in quegli occhi taglienti e freddi. Non ha voluto uccidermi per non uccidere insieme a me la frenesia della caccia, il gusto della sfida.

Ha voluto tenersi per il futuro un po' di quel piacere perverso che lo pervade quando punta il fucile contro qualcuno, e oggi pagherà per quella decisione. Oggi sarò io, a coprire quei pochi metri che ci separano.

Sollevo il mio fucile, protetta dall'oscurità del vicolo, e prendo la mira. Il Corvo piomba su di me, le sue mani forti mi stringono i polsi. "Non farlo" sibila, con un furore che non ho mai visto in lui, "Se spari, manderai tutto all'aria. Non ci sarà alcuna tregua, se lo uccidi."

Ma non mi interessa. Me lo scrollo di dosso, con una forza che nemmeno sospettavo di avere, punto e premo il grilletto. Odo uno scoppio silenziato e là, dall'altra parte della strada, Simon Moi cade a terra senza un lamento né un'esclamazione di sorpresa.

Per un attimo, nella mia mente regna il silenzio, poi penso che l'ho fatto. Ho esaudito la richiesta di mio padre.

Sulle prime non provo nulla, ma so che tra un istante arriveranno il sollievo, il trionfo e la gioia che sempre accompagnano il raggiungimento di un traguardo inseguito a lungo. Prima che io possa realizzare appieno quello che è accaduto, però, prima che possa rendermi conto che è veramente finita, dall'altra parte della strada giunge uno schiocco e un bagliore e una pioggia di proiettili cade su di noi.

Shanti urla e si accascia a terra, ripiegandosi con un gemito di dolore sulla gamba ferita. Il Corvo impreca e si china su di lei, aiutandola a rialzarsi e a reggersi in piedi. Per una frazione di secondo, restiamo tutti immobili, incapaci di decidere se convenga fuggire o attaccare, poi una nuova scarica di colpi prende la decisione al nostro posto.

Con un grido di rabbia e di disperazione, Ian, Angela e io ci gettiamo in avanti, mentre Cortés esita ancora per un istante, indeciso se unirsi a noi o se restare nell'ombra con il Corvo e con Shanti, prendendosi cura di loro.

Ai due uomini che accompagnavano Simon Moi si sono aggiunte altre persone, ombre scure uscite dalle strade vicine. Saranno in nove o in dieci e, anche se cerchiamo di colpirne quanti più possibile, sono comunque troppi. Uno o due corpi senza volto cadono a terra, ma poi Angela singhiozza e crolla e resta immobile. Abbassando lo sguardo su di lei, vedo che c'è un liquido scuro tra i suoi capelli rosa.

Non c'è il tempo di piangere, non c'è il tempo di bestemmiare, perché lan si getta su di me e mi mette al riparo da un proiettile che mi avrebbe certamente colpita. "Stai attenta, Comandante" riesce comunque a sorridere, disteso di traverso sopra alla mia schiena.

Provo un inaspettato moto di affetto nei suoi confronti, poi guardo davanti a me e incrocio gli occhi della persona che ha cercato di uccidermi. È una donna piccola, minuta, con i capelli colorati d'azzurro come quelli di un'adolescente ribelle. Alla luce del lampione che la illumina, però, il suo viso non è quello di una ragazzina: è un volto da animale selvatico, con le labbra tirate in un ringhio e gli occhi folli da rapace.

Mentre siamo a terra, la donna solleva di nuovo il fucile. Una frazione di secondo più tardi, il corpo di lan ha uno spasmo e io sento qualcosa di terribile riempirmi i polmoni e il cuore. La ragazza dai capelli azzurri prende di nuovo la mira, ma Cortés sbuca dal nulla e si getta su di lei, costringendola a lasciare il fucile e a difendersi.

Mi rigiro su me stessa, afferro le spalle di lan e lo spingo sulla schiena, avvicinandomi al suo volto per avvertirne il respiro. "Ian" lo chiamo, con una voce che nemmeno mi sembra la mia. "Ian, mi senti?"

Ma lui non mi sente, credo. Per un secondo infinito, i suoi occhi chiari incontrano i miei come per dirmi qualcosa. Ed è così, che sono testimone dell'istante preciso in cui quegli occhi smettono per sempre di vedere.

Non so cosa provo. Non lo so, ma punto i piedi e mi metto sulle ginocchia, mi alzo e imbraccio il fucile, alla ricerca della donna con gli occhi da sparviero. Non la trovo, ma qualcuno trova me.

È un dolore lancinante, quello che mi attraversa il petto, il fianco, la spalla. Tutto intorno a me, i fucili continuano a sparare. Non so contro chi, non so se Cortés stia continuando a combattere, né se il Corvo abbia deciso di unirsi finalmente a lui. Io sono sola, sempre più sola con quel dolore che so che nessuna medicina potrà mai guarire.

Poi, lentamente, arrivano la quiete, il silenzio e una spossatezza che mi pare quasi una benedizione. Mentre i confini del mondo svaniscono, non penso alla vendetta o al corpo di Simon Moi che cade a terra, ma solo alle grida, agli occhi vuoti di lan e al sangue tra i capelli di Angela.




   
 
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