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Autore: Alexis Laufeyson    26/07/2019    0 recensioni
Da che la Tirannia ha preso potere, Snarja -l'Ingannatrice- è diventata il covo preferito dei mostri che in una città normale striscerebbero nell'ombra; tra le sue mura di cinta, il quarto quadrante, il peggior quartiere di periferia, sorge dietro lo scheletro della Barricata, l'unica testimonianza della ribellione che, anni fa, ha tentato invano di riportare la Repubblica al suo antico splendore.
Tutti la temono, eppure andarsene è impossibile.
La chiamano l'Ingannatrice, perché tra le sue mura di nera e solida pietra non si è mai davvero al sicuro.
E questo, Soley lo sa fin troppo bene.
Genere: Drammatico, Slice of life, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Violenza
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Danse Macabre
 

 




 
And I will show you something different from either
Your shadow at morning striding behind you
Or your shadow at evening rising to meet you;
I will show you fear in a handful of dust.”  
― T.S. Eliot, The Waste Land





 
L'Ingannatrice si ergeva lungo il corso del fiume, su una piana di campi vasti ma poveri di grano; sulle alte mura di cinta, quattro porte, una per ogni punto cardinale, inghiottivano altrettante strade lastricate e crepate dal tempo, strade che, in passato, avevano portato dentro la città merci da ogni parte della nazione, e oltre.

Una vita fa, L'Ingannatrice era stata la capitale dell'unica Repubblica del continente, i cui domini erano stati tra i più vasti, l'economia tra le più avanzate, il governo tra i più equilibrati -un mondo dorato e perfetto che nessuno aveva mai osato infrangere.

C'era stato un tempo in cui la avevano chiamata "Snarja", un tempo in cui le sue vie avevano sfoggiato vasi di fiori ad ogni angolo, e le piazze avevano ospitato il mercato tre volte a settimana, e in cui le guardie venivano scelte tra cittadini onorevoli e fedeli alla sacralità della legge; un tempo in cui la ricchezza era sembrata infinita e la criminalità solo l'ombra dell'ombra di un'ombra, nascosta, segreta, sconosciuta, perché erano poche le persone perbene che l'avevano incontrata e perché i bordelli erano stati un lusso riconosciuto dal Senato, un tempo.

Poi era giunta la Tirannia, e quel tempo era svanito.

La Tirannia aveva viziato la città, favorito la scalata degli avari e il declino degli onesti, si era mangiata ogni moneto e aveva inseguito impossibili fantasie sulle spalle della povera gente, così che, nel giro di qualche anno, l'equilibrio sociale che era stato il vanto dell'ormai andata Repubblica era crollato, e con esso l'economia. Snarja aveva perso se stessa ed era diventata l'Ingannatrice, perché tra quelle mura di nera e solida pietra non si era più davvero al sicuro: "Sicurezza" era una parola conosciuta solo in astratto, o non conosciuta affatto.

Da dietro il vetro sporco della finestra, Soley guardava la pioggia cadere dal cielo, e non pensava a ciò che sarebbe potuto essere senza la Tirannia -erano domande, quelle, che a Snarja non erano concesse.

No, lei non pensava ad un passato che non aveva mai vissuto: teneva solamente gli occhi fissi sulla strada, pregando perché suo fratello tornasse prima del tramontare del sole, come faceva ogni sera e come era suo dovere.

Se solo

No, a Snarja non erano permesse neanche le ipotesi, ma lei quelle se le concedeva lo stesso. Se solo fossi nata uomo, a quest'ora potremmo essere già via. Ultimamente era un pensiero che la sfiorava spesso, andarsene, fuggire da quella zona della città dove era nata e cresciuta e che pure le faceva sempre più paura, giorno dopo giorno, anno dopo anno; la zona che non le offriva una vita, che la relegava all'interno di un'anonima casa fatiscente in attesa che qualcuno la venisse a prendere e la portasse in un'altra fatiscente anonima casa per proteggerla dai pericoli che nessuno, al di là della Barricata, nella zona d'ombra, poteva eludere.

Oltre la Barricata il gioco non valeva la candela: si tirava a dadi col destino e con Snarja stessa e si finiva comunque col perdere; a che pro, allora, sedersi a tavola?

Dipendenza. Dopotutto, il gioco d'azzardo porta ad un'unica strada.

Sua sorella stava giocando con una bambola di pezza che suo padre aveva rimediato nella parte ricca della città, tra i rifiuti di qualche mocciosa viziata, e sembrava la bambina più felice del mondo, nonostante tutto, nonostante la fame la facesse piangere la notte; Soley si voltò un attimo a guardarla, e nell'azzurro limpido dei suoi occhi scorse la spensieratezza e l'innocenza per la quale si sforzava di andare avanti -tutto ciò che bastava a darle fiducia nel domani.

«Allora, a che cosa stai giocando?» Le domandò, alzandosi dal proprio posto accanto alla finestra e arrendendosi dall'aspettare un fratello che stava semplicemente ritardando -come sempre… sì, lo spero. Mentre le si sedeva accanto con la lunga gonna di un verde stinto che si apriva come un fiore sul pavimento, Eselin le rivolse un sorriso sdentato: «La mia Lady Bambola si sta provando un vestito nuovo!» Annunciò, orgogliosa.

Soley accolse la solita fitta al cuore come una vecchia amica­: Quanto ancora dovrà aspettarlo lei un vestito nuovo? Questo è troppo vecchio, l'orlo le supera le caviglie di un dito buono; è quasi inverno, ormai, e la piccola avrà freddo presto…

«O davvero? E di che colore?»

«Blu! Blu come i miei occhi!» Le sue iridi brillavano di meraviglia al pensiero, e non mancò di avvicinarsi la bambola al viso per farle vedere l'abito che non c'era: «Non credi che sia un bel colore, sorella? A me piacerebbe tanto un vestito blu, credi che mamma e papà me lo comprerebbero?»

Soley si produsse in un sorriso forzato di condiscendenza: «Non lo so, tesoro, il blu è un colore che costa oggigiorno e non credo che possiamo permettercelo.»

«Oh…» Eselin abbassò lo sguardo, un poco delusa: «Allora non glielo chiederò, va bene?»

«Credo sia una buona idea.» Soley le pizzicò affettuosamente il naso, poi si chinò per sussurrarle qualcosa all'orecchio con complicità: «Però, che rimanga tra noi, il giallo non è poi così caro.» Era un suggerimento povero, eppure bastò perché sua sorella si illuminasse di nuovo e perché cambiasse idea sul nuovo abito di "Lady Bambola" -il giallo, a detta sua, era mooooolto meglio del blu, e le sarebbe tanto piaciuto poter avere gli occhi gialli come il sole.

Come cambia idea in fretta. Pensò, ridacchiando: «Gli occhi gialli ce li hanno solo le fate, tesoro.»

«E perché solo loro? Non è giusto così!»

«Be', in qualche modo dovranno pur distinguersi da noi umani, no?»

Eselin dischiuse le labbra in una "o" perfetta: «Ho capito, sorella. Ma… cosa sono le fate?»

«Fate? Quali Fate?» La voce di Issaìl, accompagnata dal cigolio della porta sui cardini e dallo scrosciare della pioggia, distrasse entrambe dall'argomento, ponendo fine ad una conversazione fin troppo bizzarra. Loro fratello, gocciolante sull'uscio, sembrava aver appena affrontato l'ira degli Déi, ma aveva comunque un sorriso sornione stampato in faccia, e non l'abbandonò neanche quando la mano di Soley decise di lasciare il calco sulla sua guancia lentigginosa: «Buonasera anche a te, sorella.»

«In nome di tutte le sacrosante divinità di questo mondo, ti sembra questa l'ora di rientrare a casa, sconsiderato che non sei altro?» Soley gli puntò il dito contro, avvicinandosi fino a che non ci fu meno di un pollice a separare i loro nasi.

Issaìl alzò le spalle coperte da una giacca logora e ormai zuppa: «Non è colpa mia se le sacrosante divinità hanno deciso di far piovere e di far venire la notte tutt'assieme. Piuttosto, sai dove sono nostra madre e nostro padre?» Le rivolse la domanda distrattamente, mentre sollevava da terra una sorellina particolarmente entusiasta del suo ritorno -Eselin lo adorava sin da quando era nella culla, e quello non era un mistero.

«Nostro padre dorme, ha avuto una giornata pesante. Nostra madre, invece, è in cucina, ma non credo ti abbia sentito arrivare.»

«Sta peggiorando, vero?»

Questa volta fu il turno di Soley di alzare le spalle: «Il tempo passa anche per lei.»

«Fratello, fratello!» Eselin lo afferrò per il colletto della camicia, richiamando la sua attenzione: «Soley dice che mamma e papà mi compreranno un vestito giallo tutto nuovo!»

«Piano, piano, non ho detto questo!» Si affrettò a precisare l'interessata, le mani severamente poggiate sui fianchi, ma anche se Issaìl la sentì, non le diede retta. «Davvero? E perché proprio giallo? Credevo che il tuo colore preferito fosse il blu.» Ammiccò, appellandosi nuovamente al sorriso sornione con cui era entrato, poi, sempre ignorando l'occhiata sbieca della sorella e con Eselin tra le braccia, si diresse nel piccolo angolo di casa che chiamavano 'cucina', dove una donna mescolava la zuppa in una piccola pentola.

Meyahel era invecchiata presto, e i suoi quarantatre anni sembravano sessanta, ma nel suo aspetto c'era ancora molto deidei figli: i capelli rossi di Issaìl (sebbene striati d bianco) e gli occhi verdi di Soley ne erano l'esempio lampante. Non lo sentì arrivare, eppure accolse il suo bacio sulla fronte senza sussultare: «Figlio mio, ero in pensiero.» Gli carezzò la guancia con dolcezza, e sul suo volto il rimprovero lasciò presto il posto ad una leggera apprensione materna.

«Lo so, lo so.» Issaìl si scusò, addossando la colpa al maltempo e alla scarsa illuminazione di quella zona della città, blaterando e blaterando, e così facendo prendeva tempo intanto che, dopo aver fatto scendere Eselin nuovamente a terra, tirava fuori da una tasca interna della giacca una piccola borsa di cuoio e la metteva fra le mani di Meyahel: «E poi, sai, il Maestro mi ha trattenuto un po' in bottega… credo che non resterò apprendista a lungo.» La frase gli morì in gola, tuttavia, perché le braccia di sua madre lo strinsero a tal punto che rischiarono di soffocarlo e perché il grido di stupore di Soley -che aveva silenziosamente osservato la scena- sovrastò qualsiasi altro suono.

Solo Eselin sembrò non capire nulla della faccenda, e puntò su di lui le iridi chiare con estrema curiosità: «Che significa, fratello?»

Fu Soley a rispondere, circondandola in un abbraccio entusiasta: «Significa che potremmo comprarti un nuovo abito, piccola mia.»

Miracolo.

«Giallo o blu?»

«Blu, tesoro, blu come i tuoi occhi.»




 
***



 
La chiamavano Ingannatrice perché tra quelle mura di nera e solida pietra non si era mai davvero al sicuro, non di giorno, non di notte, non vagando per le sue strade -non nella periferia ad ovest della Barricata, covo della feccia più nera che, silente, si annidava tra i vicoli umidi e ammuffiti- eppure per giungere alla "zona salva", quella dove un giorno alla settimana si teneva il mercato del popolo (scarno e povero, ma ancora abbastanza vivo da dare l'illusione di un tempo passato), be', per giungere a quella parte bisognava rischiare.

Quel giorno era un Giorno Sacro, e per questo la piazza del quarto quadrante era obbligata ad ospitare i banchi dei contadini più poveri e dei bottegai che vivevano a nord-ovest della città -il terzo quadrante non era troppo lontano, d'altra parte, e neanche troppo ricco da potersi permettere di non far circolare il denaro oltre i propri confini- e Soley sperava davvero di poter trovare un trancio di carne abbastanza abbordabile per festeggiare.

Accanto a lei, Eselin camminava lesta, quasi correndo sulle corte gambe di bambina cinquenne, ed era assolutamente estasiata all'idea di una gita fuori porta: uscire era qualcosa di talmente raro per lei che non faceva altro che canticchiare e fantasticare su tutte le cose buone che avrebbero potuto comprare una volta giunte al mercato. Vedremo qualche cavallo, sorella? Anche solo una pecora sarebbe bellissimo! Era una delle esclamazioni più ricorrenti.

Soley le teneva saldamente la mano come se ne andasse della propria vita, e cercava invano di condividere il suo entusiasmo. Guardava in alto verso il cielo plumbeo per non vedere la decadenza di quella strada lastricata a metà, o il gruppo di bambini vestiti di stracci che si nascondevano in un angolo, o il corpo di una prostituta morta di freddo nella notte; voleva non pensare che al loro posto avrebbero potuto esserci loro due, che ora invece tenevano in tasca due monete d'argento come solo pochi in quella zona potevano vantare.

«Sorella, sorella, cosa compreremo con tutti questi soldi?»

La domanda giunse inaspettata e innocente, ma Soley abbassò la testa per guardarsi intorno, furtiva. Che l'avesse sentita qualcuno? Si domandò, mentre cercava volti sospetti tra quelli anonimi delle poche persone in strada: vide solamente un mendicante ubriaco che alzava una bottiglia vuota nella loro direzione, il volto rubicondo e lo sguardo velato dai fumi dell'alcool.

Si voltò verso Eselin e le rivolse uno sguardo di rimprovero: «Che cosa ti ho detto al riguardo, Eselin?»

La bambina abbassò gli occhi e il labbro le tremò involontariamente in un moto di pianto: «Scusa…» Mormorò, la voce piccola piccola e l'atteggiamento di chi è stato appena sorpreso a rubare i dolcetti dal banco delle paste: «Non ci stavo pensando. Ti sei arrabbiata?»

Soley le carezzò il dorso della mano: «No, non mi sono arrabbiata, ma devi promettermi di essere prudente. Questo non è un bel posto, lo sai bene.» Sospirò: « Promettimelo.»

Eselin promise solennemente come solo i bambini sanno fare, e poi tornò a crogiolarsi nel proprio entusiasmo, mentre, lentamente, lo scenario attorno a loro cambiava per far spazio all'ombra e al terrore che la Barricata gettava in terra: un enorme muro di macerie vecchio di vent'anni e più, fatto di legno e ferro e mattoni rubati che si innalzavano per nove piedi e che era lungo quanto un quarto della città; i Rivoluzionari, al tempo, aveva distrutto case per poterlo ergere, ed ora eccolo lì, silente scheletro di ciò che era stato, di una guerra persa, muta testimone delle settanta esecuzioni che si erano svolte dopo in nome della libertà e della Repubblica.

Era terrorizzante, lei, e la bocca nera che era stata fatta scavare per permettere il passaggio.

Si fecero inghiottire da quella cavità, l'una in religioso silenzio e l'altra con insolita allegria Il canto di Eselin rimbombava macabro, e quei tre piedi che le separavano dalla luce sembrarono trecento; Soley poteva sentire nelle orecchie gli echi della lontana ribellione, le grida, gli ultimi respiri, e nelle narici era forte l'odore della polvere da sparo -un odore nauseante che le dava alla testa- e quello più dolciastro e lontano della decomposizione.

Quando uscirono dall'altra parte, dopo secondi che parvero ore, la luce del debole sole l'accecò. Solo un paio di vicoli le separavano dal mercato, e li percorsero a passo di marcia -non avrebbe sopportato di essere così vicina alla Barricata ancora al lungo, quel posto maledetto dove suo padre aveva combattuto e perso.

Ma lui è riuscito a fuggire. Gli altri, tuttavia…

«Sorella, guarda là!» Eselin la strattonò e prese a correre, puntando il dito verso il capannello di persone che, radunate al centro del mercato, assistevano all'ipnotica danza di una fanciulla dalla pelle d'ebano e gli occhi di carbone che si accompagnava con un tamburello; la lunga gonna scarlatta e brillante frusciava attorno alle sue gambe, scoprendo i piedi nudi e le caviglie circondate da cerchi dorati come quelli che le pendevano dalle orecchie.

Soley tirò un sospiro di sollievo: paradossalmente, quando gli zingari venivano in città erano tutti più al sicuro, e così finì persino col cedere alle suppliche della sorellina, ed insieme si mescolarono alla piccola folla.

«Sorella, è forse una fata?»

Lei scoppiò a ridere, e distolse un attimo lo sguardo dalla danzatrice per dare un buffetto sul naso di Eselin: «Certo che no! È solo una zingara!» Spiegò: «Non vedi che ha la pelle nera?»

Eselin emise un'esclamazione stupita: «È vero! Ma perché?» Domandò, ma Soley si vide costretta ad alzare le spalle: non conosceva una risposta e, d'altra parte, non le interessava saperlo. Quello degli zingari era un popolo strano che non conosceva posa, e, per quanto potessero affascinarla, non l'attirava l'idea di approfondire la conoscenza di gente tanto incostante; certo, erano un bagliore di luce a Snarja, ma andavano sempre via in fretta.

Attesero che finisse la danza (qualcuno lanciò delle monetine di bronzo, ma fu davvero un guadagno misero) poi tornarono al proprio dovere e iniziarono a girare tra i banchi spogli alla ricerca delle offerte migliori. Più volte dovette trattenere Eselin dall'allungare troppo le mani o dal correre per la piazza, e più volte si vide costretta ad alzare la voce per contrattare i prezzi e per rispondere alle viscide insinuazioni di alcuni mercanti che osavano guardarla troppo, ma infine riuscì a comprare persino della frutta e ad ottenere un pollo intero per una sola moneta d'argento, quando di solito ne sarebbe costato tre: era una bestia pelle e ossa ed ancora da spennare, ma si accontentò, già pregustando la cena di quella sera.

Nel giro di un paio d'ore, il cesto sgangherato che portava sotto il braccio era diventato pesante e, col sole che era uscito da dietro le nubi e la meridiana che segnava il mezzogiorno, Soley decise che era giunto il momento di tornare a casa, e si voltò verso Eselin.

Fu un attimo, un battito di ciglia: il suo cuore si fermò, un grido le morì in gola e le gambe presero a tremare quando al suo fianco trovò solo il vuoto. Eselin… dov'era? Déi vi supplico, non mia sorella, non mia sorella…

Si fece largo tra la gente con lo sguardo che saettava da angolo ad angolo e la paura che la prendeva alla gola, minacciando di soffocarla; la cercò in mezzo alla folla che ancora guardava la danzatrice, oltre i banchi, persino nella bottega del macellaio in fondo alla piazza, eppure alla domanda "avete visto una bambina dai capelli rossi e gli occhi blu?" nessuno sapeva dare una risposta.

E poi la vide, più vicina di quanto avesse immaginato, in piedi davanti ad uno zingaro che, accovacciato in un angolo, leggeva le carte.

«Eselin!» Le afferrò il braccio e la voltò verso di sé con poca grazia: «Cosa ti salta in mente? Ti rendi conto di quello che hai fatto? Di quello che ti sarebbe potuto succedere? Ti rendi conto?» Sibilò, livida per la rabbia e la preoccupazione che ancora non voleva scemare.

A risponderle, tuttavia, fu lo zingaro indovino: «La bambina era solo curiosa.» La difese: «Non dovresti essere così dura con lei.»

«Voi non avete idea…»

Lui la interruppe con un sorriso: «Perdonami, ma se hai paura di perderla non dovresti portarla con te in primo luogo.» C'era una punta di scherno nella sua voce, mentre mescolava distrattamente il proprio mazzo di carte dal dorso violetto e alzava su di lei gli occhi di un caldo color nocciola -erano coperti da una frangia lunga e scarmigliata, eppure non sembrava losco, anzi, aveva un'aria di gioviale e gentile.

Soley socchiuse le palpebre in un moto di stizza: «Solete sempre immischiarvi negli affari altrui, signor…»

«Latvias-Illusouk, o Iku, se preferisci» L'altro si porto due dita alla testa a mo' di saluto: «E per rispondere alla tua domanda, no: mi immischio solo negli affari delle belle fanciulle e delle loro adorabili sorelle.»

«Mi stava leggendo le carte…» confessò Eselin, con una voce flebilissima e il volto basso: «Scusa…»

Soley puntò nuovamente lo sguardo verso sua sorella, incredula per la terza volta in quella lunga mattina, e si domandò quanto le avrebbe chiesto quel giovane vagabondo per un simile "gioco"; le restavano ancora sette monete di bronzo, ma sua madre non avrebbe approvato che le desse via a quella maniera -lei stessa non aveva intenzione di farlo.

Come se le avesse letto nel pensiero -o più probabilmente riconoscendo il panico nel suo sguardo- Latvias-Illusouk la rassicurò: «Sta' tranquilla, non faccio mai pagare i bambini. E poi…» Ammiccò, tendendo la mano per invitarla a sedersi di fronte a lui e regalandole un sorriso malizioso: «Non hai alcun desiderio di conoscere il futuro?»

«No, io…»

«Offro io…» Iku si portò il dito alle labbra scure -aveva un cerchio dorato proprio nel mezzo, si ritrovò a notare, e uno strano calore le salì verso le guance. Lo osservò posare in terra le carte con precisione meticolosa, in una piramide spuntata, e poi le venne chiesto di sceglierne una. "Ma rifletti prima di farlo, loro sentono se non ci credi."

E così, Soley voltò l'immagine di una luna avvolta da un nastro di nero buio che sembrava mangiarsi tutta la luce.




 
***



 
Quando la campana sulle mura batté la seconda ora, Soley si raggomitolò sotto le coperte e alzò lo sguardo su suo fratello, il quale, a differenza sua, dormiva come un sasso: i capelli rossi erano sparpagliati sul materasso e un filo di saliva scendeva giù dalle sue labbra mentre russava rumorosamente.

In casa aleggiava ancora l'odore vago del pollo che avevano mangiato per cena -era stato un gran successo, per la prima volta dopo mesi. Una sera d'incanto, eppure ora, nel buio della notte, i pensieri non volevano abbandonarla, e il tempo aveva smesso di scorrere, intrappolandola nell'inquietudine che l'aveva perseguitata da che avevano oltrepassato la Barricata: una bolla senz'aria, piena di buio e paura.

Paura perché, poi? Perché uno zingaro non aveva saputo -no, voluto- continuare a predirle il futuro?

Credere alle carte era assurdità, follia, eppure lo sgomento che aveva letto nelle iridi di Latvias-Illousuk era sembrato così reale

Un sorriso nervoso le incurvò le labbra; si raggomitolò ancora di più per sentire il calore che Issaìl emanava, ma nonostante ciò il freddo degli ultimi giorni d'autunno continuò ad entrarle nelle ossa. Desiderò che Eselin fosse rimasta a dormire assieme a loro piuttosto che rifugiarsi nel letto dei loro genitori, desiderò poterla stringere a sé, e sentirla respirare nell'attesa che il sonno cogliesse anche lei.

Passarono dieci minuti che sembrarono dieci anni, in cui Soley si ritrovò a pensare a come quella giornata sembrasse effettivamente fuori dal tempo. Fuori, la pioggia aveva iniziato a battere sul vetro, e il vento ululava ed entrava dallo spiraglio sotto la porta, dagli spazi tra il legno delle pareti congelando la stanza e la casa -premonizioni, tutte quante.

Improvvisamente, sentì un cigolio provenire dalla stanza dei loro genitori, e poi un gemito soffocato seguito da un immediato pesante silenzio. Scosse Issaìl, cercando di essere il più discreta possibile, e quando questi aprì gli occhi gli coprì la bocca con una mano, facendogli cenno di tacere: indicò la porta e il minuscolo corridoio che separava le due camere, mimando con le labbra un "resta qui" che non ammetteva repliche. Suo fratello l'afferrò per il braccio prima che potesse voltarsi, e scosse la testa con vigore, la lunga frangia rossa che gli sferzava la fronte.

Soley preferì non ascoltarlo e si alzò da letto in religioso silenzio, camminando in punta di piedi; casa era preda del freddo più tremendo, tutto sembrava intrappolato in un sogno, negli attimi che precedono l'incubo peggiore, dove la calma regna sovrana e tutto è assolutamente vuoto e privo di senso.

Non un suono proveniva da oltre la porta della camera dei loro genitori, ma i raggi fiochi della luna che filtravano dalla finestra tradivano un'ombra sottile che non riusciva a riconoscere. Lentamente, tirò verso di sé il pomello di ferro arrugginito, mentre dalle dita una strana sensazione andava propagandosi per tutto il suo corpo, e una volta che i suoi occhi si furono abituati alla luce, vide.

Suo padre e sua madre giacevano placidamente sul letto, le gole squarciate da parte a parte da crateri che vomitavano sangue -sangue nero e viscoso che ne macchiava i volti, e le coperte, e i cuscini, e la parete e che gorgogliava, in cento, mille bolle scarlatte. Sua madre fissava il soffitto con occhi terrorizzati e un grido muto a spalancarle la bocca, e sussultava ancora, lottando invano per poter respirare -sopra di lei, una figura ammantata di nero si voltò a guardarla con un gesto fluido della testa, la lama grondante di un coltello tra le mani.

«Merda…»

Un movimento alla sua sinistra costrinse Soley a voltare lo sguardo verso una seconda figura, e le sue mani corsero a soffocare l'urlo che premeva per uscirle dalle labbra, mentre osservava sua sorella, a diversi centimetri da terra, scalciare e tendere le braccia verso di lei in una disperata richiesta d'aiuto; l'uomo la teneva ferma per la vita, e con l'altra mano le serrava la bocca. Entrambi erano leggermente voltati verso la parete, quasi lui l'avesse afferrata mentre cercava di scappare.

Era di Eselin, allora, il gemito che aveva sentito poco prima.

Dolce, piccola Eselin…

Il primo uomo si alzò strisciando dal letto, i movimenti sinuosi come quelli di un serpente, e fece roteare la lama tra le dita per poter avere una presa migliore.

Un passo, due…

 Soley lo guardava avvicinarsi al compagno senza riuscire a fare nulla, la mente annebbiata, gli occhi che si rifiutavano di chiudersi e di risparmiarla dall'orrore che stava vivendo.

Tre passi, e il coltello brillò ai raggi della luna.

Quattro passi, e il cappuccio dell'uomo cadde all'indietro, rivelando un sorriso spietato e un volto giovane, sul quale erano incastonati due gelidi occhi grigi.

Cinque passi, e senza esitazione egli recise la carotide di Eselin con un gesto secco, privo di misericordia; il sangue della bambina schizzò fuori dalla ferita e dipinse il suo viso e il pavimento di rosso vermiglio, mentre il piccolo corpicino inerme veniva fatto incurantemente cadere con un tonfo secco.

Issaìl non emise neanche un suono quando spuntò dal nulla per pararsi davanti a lei, ma Soley vide comunque il suo terrore e la sua disperazione, nonostante cercasse di nasconderli: lacrime calde striavano le sue guance lentigginose, ma lui non diede loro peso: «Scappa, Soley.» Le ordinò con un sibilo tremante, e lei lo fece.

Destino crudele, ritrovò la forza di muoversi che le era mancata sino a quel momento, e col cuore che le batteva all'impazzata nel petto corse in cucina, dove le posate sporche di quella sera ancora attendevano di essere lavate. Afferrò il coltello più grande, il più affilato, puntandolo davanti a sé.

L'uomo che aveva tenuto ferma Eselin ora svettava sull'uscio e le bloccava il passaggio: «Non lo farei, se fossi in te.» La ammonì con voce piatta, priva di qualsiasi emozione.

In risposta, Soley sollevò ancora di più il coltello: «Perché?» Fu ciò che riuscì a dire -no, rantolare- in un unico sprazzo di lucidità. Ha solo cinque anni, la mia sorellina, perché? Che cosa può averti mai fatto lei?

«Non lo so.» L'uomo fece scivolare uno stiletto da sotto la manica: «Eseguo solamente gli ordini.»

Si lanciò su di lei senza preavviso, ma qualcosa nella sua mente le fece alzare il braccio, e Soley si vide affondare il coltello al centro del suo petto, come se quello non fosse il suo corpo. La carne squarciata produsse un suono stridulo, qualcosa di liquido e caldo la bagnò la pelle.

Barcollò all'indietro mentre l'altro si accasciava morto a terra e lasciava andare la presa sullo stiletto con cui le aveva penetrato il fianco.

Soley abbassò lo sguardo, scorgendo il manico d'osso sporgerle fuori dalle carni, ma, stranamente, non provò nulla, né sorpresa, né paura. Mosse passi incerti in avanti nonostante ogni centimetro del suo corpo urlasse di dolore, e in qualche modo riuscì a raggiungere l'ingresso, ancora incontaminato da tutto quell'orrore: il letto sfatto era bianco, l'odore di Issaìl continuava ad aleggiare nell'aria.

«L'hai ucciso

L'assassino di Eselin, proprio lì al centro della stanza, la guardava con incredulità.

Soley scoppiò a ridergli in faccia.









Note dell'autrice: Questo è il prologo di una vecchia storia che ho vergognosamente estrapolato perché non mi andava di lasciarlo a marcire nei meandri del pc. Non chiedetemi se continuerò -non ho intenzione di farlo, mi tentereste e basta. Forse un giorno ci rimetterò mano, per il momento prendetela come una triste storia a sé.
Spero l'abbiate apprezzata, comunque.
-Alexis

 
   
 
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