Dal capitolo precedente:
"«Ben
io... io non riesco a respirare...» fece Semir, cessando di
urlare
e parlando invece a bassissima voce «Mi sveglio ogni mattina
e... non respiro.
Provo a convincermi che sia stato tutto un incubo, ma poi accanto al
letto vedo
la sedia a rotelle e crolla tutto, ogni giorno.».
Ben posò all’amico una mano sulla spalla,
invitandolo a continuare. Avrebbe
così tanto voluto aiutarlo davvero.
«Io non riesco a entrare nella camera delle bambine. Non
riesco a vedere quel
letto vuoto e a pensare che... che...».
Si interruppe. Aveva gli occhi asciutti, ma la disperazione nel volto e
nella
voce.
Ben, seduto accanto a lui, sospirò piano.
«Devi ricominciare a vivere, Semir...».
«Mi dispiace. L’ultima cosa che
Keller mi ha detto è stata mi dispiace...»"
Il momento giusto
10 GIORNI DOPO – GIORNO 100.
Il giovane ispettore scese
dalla Mercedes che aveva appena
parcheggiato e chiuse la portiera con forza, selezionando poi sul
telecomando
l’opzione di chiusura. L’ondata di vento gelido che
lo investì non appena fu
uscito dalla vettura, lo lasciò come sempre interdetto: non
era mai abbastanza
pronto ad affrontare quel freddo.
La strada era deserta a quell’ora e il buio cominciava a
incombere attorno a
lui, mentre qualche fiocco di neve, cautamente, scendeva a terra.
Stringendosi
nelle spalle e infilandosi le mani in tasca perché si
riscaldassero, si diresse
verso il muretto dall’altra parte della strada e vi si
sedette, senza nemmeno
comprendere bene la ragione del proprio gesto.
Il suo fiato provocava una nuvola di fumo leggero che si dissolveva in
un
attimo nell’aria della sera.
Non sapeva che cosa esattamente stesse aspettando, ma il silenzio che
lo circondava,
dopo un’intera giornata trascorsa tra le caotiche autostrade
di Colonia, lo
indusse a rimanere lì seduto per un po’.
Cento giorni.
Ben sospirò piano, appoggiato a quel muretto, fissando come
in trance la
villetta che sorgeva dall’altra parte della strada.
Cento giorni, gli sembrava impossibile. Per la prima volta, cento
giorni prima,
il collega gli aveva raccontato che cosa stesse succedendo tra lui e la
moglie.
E poi, solo due giorni dopo, come se tra le due situazioni ci fosse
stato un
filo diretto, ecco che il notiziario aveva annunciato la fuga di quell’uomo. E tutto,
lentamente, era
andato precipitando.
Cento giorni, più di tre mesi, e ancora l’aria non
aveva smesso di essere
spessa, pesante, irrespirabile.
Era il 12 febbraio, e a Colonia il freddo era ancora pungente.
Ben tirò su col naso e si strinse più nelle
spalle, chiedendosi quando si
sarebbe deciso a entrare.
Stava quasi per alzarsi, quando qualcuno da dietro lo sfiorò.
Ma l’ispettore era talmente immerso nei propri pensieri che
nemmeno vi fece
caso.
«Che cosa fa qui tutto solo, giovanotto?»
esordì la voce alle sue spalle, in
tono bonario.
«Vado a trovare un amico.» rispose Ben, in un
sussurro, più rivolto a se stesso
che al suo nuovo interlocutore, mentre sentiva che l’uomo che
gli aveva parlato
stava aggirando il muretto per avvicinarsi a lui. Non si
curò di voltarsi,
aspettò che il signore gli si sedette accanto.
«Lei che cosa ci fa qua?» domandò poi,
non appena scorse il profilo familiare a
pochi centimetri da lui.
L’anziano signore alzò le spalle, iniziando
meccanicamente ad accarezzarsi gli
ordinati baffi bianchi e passandosi poi la mano destra sulla folta
barba,
anch’essa candida come la neve.
«Passavo, giovanotto. Il suo amico vive qui? È il
suo collega, non è vero?».
Ben guardò quell’uomo negli occhi, sorridendo per
un attimo al suo accento
inglese.
«Lo era.» commentò poi, distogliendo lo
sguardo.
Il vecchio poggiò una mano sulla sua spalla, rifilandogli
qualche leggero
colpetto di incoraggiamento.
«Fossi in lei sorriderei un po’ più
spesso, giovanotto. Da quando l’ho
conosciuta lo ha fatto sempre troppo poco. Solo alla mia età
si comprende
quanto sorridere sia importante... forza, ragazzo.».
«Non è facile sorridere sempre. Non quando davanti
agli occhi hai la vita
rovinata di una persona a cui vuoi bene.».
L’anziano signore annuì teatralmente. Poi,
appoggiandosi al proprio bastone, si
alzò, staccandosi dal muretto e rimanendo per qualche
istante fermo, in piedi
di fronte al poliziotto.
«Ti do un compito, giovanotto. Oggi sorridi. Va
bene?».
Ben alzò lo sguardo su di lui.
L’uomo indossava un berretto di lana decorato a quadri rosso
e verdone e
un’ingombrante sciarpa dello stesso colore. Non un
abbigliamento troppo comune,
per quello che lui aveva definito un angelo custode.
Il sorriso, osservandolo, gli spuntò spontaneo sulle labbra.
«Bravissimo, così.» fece compiaciuto il
vecchio.
Poi si voltò per andarsene, ma tornò a guardare
Ben dopo aver fatto solo
qualche passo.
«Dimenticavo, giovanotto.» aggiunse, sorridendo
sotto ai baffi curati, prima di
allontanarsi «Usi quella scatolina che ha in tasca.
L’ho vista, sa? Vedrà, la renderà
felice.».
L’ispettore strinse la piccola scatola di velluto
all’interno della tasca della
giacca, chiedendosi come quell’uomo avesse potuto notarla, ma
quando risollevò
lo sguardo per rispondere, lui era già sparito.
Volatilizzato.
Con un sospiro, Ben attraversò la strada e suonò
alla porta di casa Gerkhan.
Ad aprire giunse Margaret.
Stretta nel suo maglione a collo alto, sorridente e con gli occhi verdi
che le
scintillavano sul viso, lo accolse con un abbraccio.
«Amore, sei arrivato presto!» esclamò,
facendolo entrare, senza smettere di
guardarlo.
«Ciao amore mio.» sussurrò lui,
guardandola a sua volta, inebriandosi
dell’odore dei capelli di lei «Da quanto sei
qua?».
«Poco, ho finito mezz’ora fa con l’ultimo
paziente, ho pensato di venire a
trovare Andrea e Semir e di aspettarti qui. Immaginavo che saresti
passato.» rispose
la ragazza, richiudendo la porta di casa e avviandosi con il nuovo
arrivato
verso il salotto.
L’atmosfera era calda, nonostante tutto. Nella sala il clima
faceva dimenticare
in fretta il freddo pungente dell’inverno che soffiava fuori
dalla porta e in
una rientranza nel muro il caminetto acceso che i padroni di casa
avevano fatto
installare l’inverno precedente donava alla stanza un pizzico
di magia.
Eppure, dalla cucina provenivano voci concitate. Una discussione,
ancora.
«Stanno litigando?» chiese stancamente Ben,
sedendosi sul divano.
Maggie annuì, sedendosi di fronte a lui «Stavano
litigando già prima che
arrivassi.».
«Finirà mai questa storia?».
La ragazza rimase in silenzio. Non lo sapeva.
«Non si sono nemmeno accorti che sono entrato.»
mormorò l’ispettore,
accorgendosi in quell’esatto istante che le voci si erano
spente e che Semir
era appena apparso sulla soglia.
«In realtà ce ne siamo accorti.» fece il
turco, accostandosi con la sedia al
divano, vicino al caminetto acceso «Ma stavamo finendo di
parlare di una cosa,
adesso Andrea arriva. Ben, non devi passare da qui sempre.».
«Un semplice ciao sarebbe
bastato,
socio.».
«Sì, hai ragione, scusami.» rispose
semplicemente Semir, abbassando lo sguardo
«Mi dispiace soltanto che tu e Maggie perdiate tempo per
noi.».
«Sono passata perché mi faceva piacere, non siete
affatto una perdita di
tempo.» si intromise Margaret, con un sorriso «Aida
c’è?».
«Sì, è su in camera sua, sta finendo i
compiti.».
«Allora vado a salutarla dopo, altrimenti mi dite che diventa
una pessima
studentessa a causa mia.» rise Ben, lasciando che la tensione
iniziale si
sciogliesse almeno un po’.
In quell’istante Maggie si alzò, allontanandosi
dal divano «Vado a dare una
mano ad Andrea, aveva dei biscotti in forno.» disse,
dirigendosi verso la
cucina.
Quando ormai aveva raggiunto il piccolo corridoio che la separava
dall’altra
stanza, però, sentì che qualcuno la tratteneva
per un braccio e udì Ben
chiederle di fermarsi.
«Ben, che cosa c’è?».
«Maggie, io ti devo parlare.» fece il giovane
poliziotto, negli occhi un’ansia
strana, diversa da quella che lei gli aveva letto in viso negli ultimi
mesi.
«Non possiamo parlare dopo?» domandò la
ragazza, lanciando un’occhiata alla
cucina nella quale si intravvedeva Andrea che tirava fuori qualcosa dal
forno e
un’occhiata dall’altra parte, al salotto, nel quale
Semir era rimasto solo,
rivolto con la sedia a rotelle verso il caminetto.
«No, non possiamo parlare dopo.».
«Proprio qui, in questo corridoio?».
«Proprio qui...» confermò lui,
abbassando la voce.
«Ben, mi stai facendo preoccupare, che cosa
c’è?» fece Margaret, con un
sospiro, rassegnandosi all’idea di dover rimanere ferma in
quello stretto
corridoio semibuio.
Ben aprì la bocca per parlare, ma rimase in silenzio.
Dalla cucina giungevano i singhiozzi sommessi di Andrea, dal salotto il
crepitìo
del fuoco acceso.
Era decisamente il momento sbagliato. Il momento sbagliato, il luogo
sbagliato,
tutto sbagliato. Ma improvvisamente aveva sentito che non avrebbe
potuto
attendere un minuto di più.
«Allora, Ben? Che cosa c’è?».
«C’è che io ti amo, Maggie.» mormorò
infine il poliziotto, incatenando i suoi occhi agli occhi verdi di lei.
E quegli occhi gli sorrisero.
«Anche io ti amo, ma adesso dovremmo...».
«No, no, ascoltami, io ti amo.» ripeté
Ben, quasi supplicando «E lo so, non è
il momento, siamo in un corridoio stretto e buio in casa loro, da una
parte c’è
Andrea che piange e dall’altra Semir che non riesce a darsi
pace e hanno perso
Lily e sono mesi terribili e saranno ancora mesi terribili
e...».
«Ehi...» lo interruppe la ragazza, guardandolo
negli occhi e posandogli una
mano sul petto «Respira, okay? Prendi fiato.».
«È che io ti amo, Margaret, e non voglio
più aspettare che sia il momento
giusto, o il luogo giusto, o l’atmosfera giusta.»
riprese lui, portando la mano
destra alla tasca della giacca «Per cui proprio qui, in
questo corridoio, in
questa casa, io... io vorrei chiederti una cosa.».
Maggie allargò il sorriso che già si era dipinto
sulle sue labbra. Gli occhi le
brillavano.
«Ben io non... non...».
«Non aspetterò che questa storia sia finita,
Maggie...».
«Ben...».
«Margaret Maier, mi vuoi sposare?».
Maggie chiuse gli occhi e li
riaprì in un istante, come per
convincersi che quella scena surreale fosse vera. Come per avere la
prova che
quella piccola scatolina di velluto nero aperta sotto ai suoi occhi
esistesse
davvero.
Posò lo sguardo sull’anello che luccicava tra le
mani del poliziotto e poi lo
spostò nei suoi occhi, senza riuscire a pronunciare nemmeno
una parola.
Aprì la bocca per rispondere ma, non appena ebbe trovato le
parole giuste, si
bloccò.
«Il momento giusto...» mormorò fra
sé, senza distogliere lo sguardo dagli occhi
di Ben, che invece cominciò a preoccuparsi.
«Che cosa?».
«Il momento giusto... ma certo!» esclamò
allora lei, questa volta ad alta voce
«Ben, devo fare una cosa.» aggiunse poi,
dirigendosi in fretta verso la cucina,
lasciando il ragazzo interdetto, immobile, ancora con la scatolina
aperta tra
le mani e con una domanda a cui ancora lei non aveva dato risposta.
Il cuore
dell’ispettore cominciò a
battere all’impazzata, mentre l’idea
di aver
appena rovinato tutto si faceva sempre più concreta nella
sua mente e
cominciava seriamente a terrorizzarlo.
Devo fare una cosa.
Rimase immobile, seguendo con lo sguardo Maggie che si
allontanava e non
capendo per quale motivo lei dovesse fare
una cosa prima di dargli una risposta.
La vide oltrepassare la soglia della cucina, raggiungere Andrea,
porgerle un
fazzoletto perché si asciugasse le lacrime dovute
all’ennesima litigata che la
donna aveva avuto con il marito poco prima. La vide mentre la
abbracciava e la
faceva sorridere, poi mentre la aiutava a sfornare i biscotti, il cui
profumo
inebriante invase in un attimo tutta la casa. La vide dirle ancora
qualche
parola, poi tornare verso di lui, sorridente.
Ben provò ad aprir bocca per parlare, per chiederle che cosa
stesse aspettando
per rispondergli, ma non ne ebbe il tempo: Maggie gli passò
davanti attraversando
il corridoio
velocemente, senza degnarlo
di uno sguardo, per dirigersi questa volta verso il salotto.
Ancora una volta, Ben
la spiò fermo
sulla soglia, ancora con la piccola scatola in velluto aperta tra le
mani.
La vide rovistare nella propria borsa che aveva abbandonato sul divano
ed
estrarne quel plico di fogli dalla copertina nera che lui aveva
già visto più
di una volta.
Poi, la vide sedersi accanto a Semir, di fronte al caminetto acceso, e
cominciare a parlargli.
«Semir, ti devo
confessare una cosa.» esordì la ragazza,
sedendosi accanto a lui davanti al caminetto, socchiudendo gli occhi al
calore
della fiamma scoppiettante.
Il turco distolse lo sguardo dal fuoco per lanciarle
un’occhiata interrogativa.
«Se è per lo psicologo puoi anche lasciar perdere,
Maggie, non fate altro che
ripetermi tutti che dovrei tornarci, ma io non...».
«No no no, ascoltami.» lo interruppe lei, con un
sorriso «Non voglio parlarti
dello psicologo, affatto. Sono sicura che capirai da solo quando
sarà il
momento e ci tornerai. Sono psicologa anche io, so come funziona.
Volevo
parlarti di un’altra cosa.».
«Sarebbe?».
«Io ho scritto un libro, Semir.».
L’uomo tornò a posare lo sguardo sul fuoco, senza
capire di che natura fosse
quella conversazione.
«Sì, Ben mi aveva detto che lo avresti fatto. Ma
cosa...».
«Quel libro è su di te.»
sparò lei, a bruciapelo.
Per un attimo, Semir smise di respirare.
«Scusa?».
«Su di te, su di voi. Su... questa storia.»
spiegò lei, senza perdere il
sorriso, provando a immaginare quale potesse essere la reazione
dell’amico.
L’ex poliziotto tornò a guardarla, senza essere
sicuro di aver capito del tutto
a che cosa quella ragazza si riferisse.
«Qui c’è... c’è
tutto, Semir.» continuò Margaret, porgendo a lui
il plico
rilegato e accarezzandone piano la copertina nera.
Semir lo prese, lo toccò, ma non sollevò il
cartoncino che copriva la prima
pagina. Avrebbe voluto chiedere qualcosa, ma non riuscì a
formulare nessun tipo
di domanda.
«C’è tutto, ma... ecco, io ho scritto la
parola fine a questo romanzo il
giorno della vigilia di Natale, ma ho
aspettato tutto questo tempo a parlartene perché io... non
lo so, forse mi
sentivo in colpa per essermi appropriata di questa storia, forse
credevo di non
averne il diritto, forse aspettavo il momento giusto.»
spiegò Maggie, a bassa
voce, sempre con il sorriso sulle labbra «Questi mesi, da
quando Keller vi ha
rapito, sono stati terribili. C’è chi affronta le
difficoltà parlando, chi
piange, chi ascolta solo il silenzio... io scrivo. L’ho
sempre fatto, mi è
venuto naturale scrivere questa storia e l’ho fatto senza
riflettere, senza
pensare, ho solo scritto basandomi su quello che ho visto, sul poco che
tu hai
raccontato, su quello che sapevo di Keller e di voi. Quando ho iniziato
non
sapevo dove sarei arrivata, non sapevo se lo avrei mai concluso e,
soprattutto,
quando l’ho iniziato avevo saputo solo delle liti tra te e
Andrea, ma Keller
ancora non aveva fatto nulla... solo dopo che siete stati rapiti ho
capito che
dovevo portare avanti questo lavoro, terminarlo, ma non ne conoscevo
ancora la
ragione.».
La psicologa fece una pausa.
Le mani di Semir tracciavano il profilo di quella copertina, senza
osare
sollevarla.
«E ora... ora la ragione la conosci?» chiese in un
sussurro, temendo la
risposta.
«Aprilo, Semir.».
E lui lo aprì.
Sollevò quel cartoncino nero come se pesasse una tonnellata.
Sotto di esso trovò una pagina completamente bianca a
eccezione del titolo, che
troneggiava in corsivo perfettamente centrato sul foglio.
Sopravviviamo.
Senza che nemmeno se ne rendesse conto, gli occhi gli divennero lucidi.
Sollevò lo sguardo sulla ragazza, provando con tutte le sue
forze a tenere a
bada il nodo che gli si era creato nella gola.
«Qual è la ragione?» domandò,
ancora, con la voce spezzata.
Maggie si morse il labbro, lanciò un’occhiata
decisa al fuoco che crepitava di
fronte a loro e poi al plico di fogli appoggiato sulle ginocchia
dell’ex
ispettore.
Quindi alzò lo sguardo su di lui, fissandolo negli occhi.
«Brucialo.».
Semir ricambiò lo sguardo, corrugando appena la fronte.
«Come...».
«Brucialo, Semir.» lo interruppe lei, mentre anche
i suoi occhi cominciavano a
brillare «Dai fuoco a questa storia. Falla finita. Getta
Keller tra le fiamme,
riduci tutto quello che è successo in cenere. Fallo,
Semir.».
L’uomo scosse il capo, lentamente, muovendo lo sguardo dalla
ragazza che aveva
di fronte al titolo in corsivo del libro, chiedendosi per quale motivo
le
lacrime chiedessero di scendere con tanta insistenza.
«Brucialo, Semir. È il momento giusto.».
L’istante di silenzio che seguì fu lunghissimo. O
forse breve. Nessuno dei due
lo seppe mai.
Un attimo prima il libro era tra le mani di Semir, un attimo dopo
ardeva tra le
fiamme di quel caminetto acceso.
E si contorceva.
Si contorceva, ripiegandosi tra le fiamme, gridando agonizzante.
Non voleva morire.
Diventava cenere, ma sembrava quasi lottare contro il fuoco, contro il
quale
non avrebbe mai vinto.
Crepitava.
E poi cessava di esistere.
Con le lacrime agli occhi, Margaret si sporse verso Semir, lo
abbracciò con
forza.
Quando si staccò dall’abbraccio, il suo lavoro era
andato distrutto,
polverizzato, per sempre.
Erano mesi che non si sentiva così libera.
Ben rimase a bocca spalancata a
spiare l’intera scena,
mentre Andrea alle sue spalle, singhiozzando piano, faceva altrettanto.
Era tutto finito.
«Sì.».
«Come?».
Ben corrugò la fronte, senza capire a che cosa la ragazza si
stesse riferendo.
Erano appena usciti da casa Gerkhan, il freddo e la neve li avevano
subito avvolti
e si stavano avviando lentamente verso la macchina, stretti nelle loro
giacche
invernali.
«Sì.» ripeté Maggie,
mostrandogli uno dei più bei sorrisi che Ben ricordasse di
aver mai visto sulla faccia della terra.
«Sì?».
«Sì, certo che ti sposo, stupido!»
esclamò la ragazza, gettandogli
improvvisamente le braccia al collo.
«Sì?».
«Sì.».
«Ti amo.» sussurrò Ben sulle sue labbra,
baciandola senza smettere nemmeno per
un istante di stringerla forte a sé.
Anche sotto la neve, il freddo era improvvisamente scomparso.
«Ti amo.».
L’anziano signore si
accarezzò i baffi bianchi, compiaciuto,
osservando la scena.
«Amore non è Amore se
muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire
quando
l'altro s'allontana. Oh no! Amore è un faro sempre fisso che
sovrasta la tempesta
e non vacilla mai; è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto,
benché nota la distanza: se questo è errore e mi
sarà provato, Io non ho mai scritto,
e nessuno ha mai amato... * Gli
inglesi sono avanti, sempre
pensato io. Niente male, giovanotto!»
Poi si voltò e si incamminò sulla strada ormai
resa bianca dalla neve,
continuando a dialogare con se stesso.
A casa, sua nipote Lisa lo stava aspettando.
The End
* W.
Shakespeare
N.d.A.
Un
anno e sette mesi,
quaranta capitoli, la mia storia finisce qui.
Mi dispiace avervi fatto aspettare ancora tre mesi per leggere
quest’ultimo
capitolo, ma purtroppo non ho avuto molto tempo e la spunta
“completa” per questa
storia non poteva essere selezionata troppo in fretta.
Siamo tornati al prologo di quasi due anni fa, abbiamo incontrato di
nuovo
questo angelo custode dall’accento inglese, abbiamo capito
chi è davvero, una
figura marginale ma essenziale al tempo stesso.
Il ciclo si chiude, la vita ricomincia, nonostante tutto. La cenere
rimarrà in
quel camino, tutto il male che c’è stato non
potrà scomparire, ma la vita deve
vincere, comunque.
Grazie a chi mi ha seguito fino a qui, a chi ha commentato passo per
passo
questa storia non propriamente leggera, grazie Mary e grazie Rebecca,
davvero! Io
ci ho messo il cuore, più che in ogni altra storia.
Chissà che un giorno non mi rivediate tra queste pagine, per
ora chiudo così.
Grazie!
Sophie