Serie TV > Squadra Speciale Cobra 11
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Autore: sophie97    27/07/2019    1 recensioni
“Ho subìto un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... È la sopravvivenza che le rende tali... perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.” (Il danno, 1992)
14 Novembre, Colonia, un giorno grigio come tanti.
Una storia che comincia come una storia qualsiasi, con un istante di vita. Rapporti incrinati, il riemergere di un passato che fa paura, una serie di piccoli, fatali errori compiuti uno dopo l’altro, fino alla rovina. Fino a quando non si smette di vivere, per iniziare a sopravvivere.
Storia che nulla ha a che fare con la mia serie ancora in corso; storia triste e drammatica, ne sono consapevole. Ma mi piacerebbe ugualmente condividerla con voi.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andrea Schafer, Ben Jager, Nuovo personaggio, Semir Gerkan, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dal capitolo precedente:

"«Ben io... io non riesco a respirare...» fece Semir, cessando di urlare e parlando invece a bassissima voce «Mi sveglio ogni mattina e... non respiro. Provo a convincermi che sia stato tutto un incubo, ma poi accanto al letto vedo la sedia a rotelle e crolla tutto, ogni giorno.».
Ben posò all’amico una mano sulla spalla, invitandolo a continuare. Avrebbe così tanto voluto aiutarlo davvero.
«Io non riesco a entrare nella camera delle bambine. Non riesco a vedere quel letto vuoto e a pensare che... che...».
Si interruppe. Aveva gli occhi asciutti, ma la disperazione nel volto e nella voce.
Ben, seduto accanto a lui, sospirò piano.
«Devi ricominciare a vivere, Semir...».
«Mi dispiace. L’ultima cosa che Keller mi ha detto è stata mi dispiace...»"



Il momento giusto



10 GIORNI DOPO – GIORNO 100.

Il giovane ispettore scese dalla Mercedes che aveva appena parcheggiato e chiuse la portiera con forza, selezionando poi sul telecomando l’opzione di chiusura. L’ondata di vento gelido che lo investì non appena fu uscito dalla vettura, lo lasciò come sempre interdetto: non era mai abbastanza pronto ad affrontare quel freddo.
La strada era deserta a quell’ora e il buio cominciava a incombere attorno a lui, mentre qualche fiocco di neve, cautamente, scendeva a terra. Stringendosi nelle spalle e infilandosi le mani in tasca perché si riscaldassero, si diresse verso il muretto dall’altra parte della strada e vi si sedette, senza nemmeno comprendere bene la ragione del proprio gesto.
Il suo fiato provocava una nuvola di fumo leggero che si dissolveva in un attimo nell’aria della sera.
Non sapeva che cosa esattamente stesse aspettando, ma il silenzio che lo circondava, dopo un’intera giornata trascorsa tra le caotiche autostrade di Colonia, lo indusse a rimanere lì seduto per un po’.
Cento giorni.

Ben sospirò piano, appoggiato a quel muretto, fissando come in trance la villetta che sorgeva dall’altra parte della strada.
Cento giorni, gli sembrava impossibile. Per la prima volta, cento giorni prima, il collega gli aveva raccontato che cosa stesse succedendo tra lui e la moglie. E poi, solo due giorni dopo, come se tra le due situazioni ci fosse stato un filo diretto, ecco che il notiziario aveva annunciato la fuga di quell’uomo. E tutto, lentamente, era andato precipitando.
Cento giorni, più di tre mesi, e ancora l’aria non aveva smesso di essere spessa, pesante, irrespirabile.
Era il 12 febbraio, e a Colonia il freddo era ancora pungente.
Ben tirò su col naso e si strinse più nelle spalle, chiedendosi quando si sarebbe deciso a entrare.
Stava quasi per alzarsi, quando qualcuno da dietro lo sfiorò.
Ma l’ispettore era talmente immerso nei propri pensieri che nemmeno vi fece caso.
«Che cosa fa qui tutto solo, giovanotto?» esordì la voce alle sue spalle, in tono bonario.
«Vado a trovare un amico.» rispose Ben, in un sussurro, più rivolto a se stesso che al suo nuovo interlocutore, mentre sentiva che l’uomo che gli aveva parlato stava aggirando il muretto per avvicinarsi a lui. Non si curò di voltarsi, aspettò che il signore gli si sedette accanto.
«Lei che cosa ci fa qua?» domandò poi, non appena scorse il profilo familiare a pochi centimetri da lui.
L’anziano signore alzò le spalle, iniziando meccanicamente ad accarezzarsi gli ordinati baffi bianchi e passandosi poi la mano destra sulla folta barba, anch’essa candida come la neve.
«Passavo, giovanotto. Il suo amico vive qui? È il suo collega, non è vero?».
Ben guardò quell’uomo negli occhi, sorridendo per un attimo al suo accento inglese.
«Lo era.» commentò poi, distogliendo lo sguardo.
Il vecchio poggiò una mano sulla sua spalla, rifilandogli qualche leggero colpetto di incoraggiamento.
«Fossi in lei sorriderei un po’ più spesso, giovanotto. Da quando l’ho conosciuta lo ha fatto sempre troppo poco. Solo alla mia età si comprende quanto sorridere sia importante... forza, ragazzo.».
«Non è facile sorridere sempre. Non quando davanti agli occhi hai la vita rovinata di una persona a cui vuoi bene.».
L’anziano signore annuì teatralmente. Poi, appoggiandosi al proprio bastone, si alzò, staccandosi dal muretto e rimanendo per qualche istante fermo, in piedi di fronte al poliziotto.
«Ti do un compito, giovanotto. Oggi sorridi. Va bene?».
Ben alzò lo sguardo su di lui.
L’uomo indossava un berretto di lana decorato a quadri rosso e verdone e un’ingombrante sciarpa dello stesso colore. Non un abbigliamento troppo comune, per quello che lui aveva definito un angelo custode.
Il sorriso, osservandolo, gli spuntò spontaneo sulle labbra.
«Bravissimo, così.» fece compiaciuto il vecchio.
Poi si voltò per andarsene, ma tornò a guardare Ben dopo aver fatto solo qualche passo.
«Dimenticavo, giovanotto.» aggiunse, sorridendo sotto ai baffi curati, prima di allontanarsi «Usi quella scatolina che ha in tasca. L’ho vista, sa? Vedrà, la renderà felice.».
L’ispettore strinse la piccola scatola di velluto all’interno della tasca della giacca, chiedendosi come quell’uomo avesse potuto notarla, ma quando risollevò lo sguardo per rispondere, lui era già sparito. Volatilizzato.
Con un sospiro, Ben attraversò la strada e suonò alla porta di casa Gerkhan.

Ad aprire giunse Margaret.
Stretta nel suo maglione a collo alto, sorridente e con gli occhi verdi che le scintillavano sul viso, lo accolse con un abbraccio.
«Amore, sei arrivato presto!» esclamò, facendolo entrare, senza smettere di guardarlo.
«Ciao amore mio.» sussurrò lui, guardandola a sua volta, inebriandosi dell’odore dei capelli di lei «Da quanto sei qua?».
«Poco, ho finito mezz’ora fa con l’ultimo paziente, ho pensato di venire a trovare Andrea e Semir e di aspettarti qui. Immaginavo che saresti passato.» rispose la ragazza, richiudendo la porta di casa e avviandosi con il nuovo arrivato verso il salotto.
L’atmosfera era calda, nonostante tutto. Nella sala il clima faceva dimenticare in fretta il freddo pungente dell’inverno che soffiava fuori dalla porta e in una rientranza nel muro il caminetto acceso che i padroni di casa avevano fatto installare l’inverno precedente donava alla stanza un pizzico di magia.
Eppure, dalla cucina provenivano voci concitate. Una discussione, ancora.
«Stanno litigando?» chiese stancamente Ben, sedendosi sul divano.
Maggie annuì, sedendosi di fronte a lui «Stavano litigando già prima che arrivassi.».
«Finirà mai questa storia?».
La ragazza rimase in silenzio. Non lo sapeva.
«Non si sono nemmeno accorti che sono entrato.» mormorò l’ispettore, accorgendosi in quell’esatto istante che le voci si erano spente e che Semir era appena apparso sulla soglia.
«In realtà ce ne siamo accorti.» fece il turco, accostandosi con la sedia al divano, vicino al caminetto acceso «Ma stavamo finendo di parlare di una cosa, adesso Andrea arriva. Ben, non devi passare da qui sempre.».
«Un semplice ciao sarebbe bastato, socio.».
«Sì, hai ragione, scusami.» rispose semplicemente Semir, abbassando lo sguardo «Mi dispiace soltanto che tu e Maggie perdiate tempo per noi.».
«Sono passata perché mi faceva piacere, non siete affatto una perdita di tempo.» si intromise Margaret, con un sorriso «Aida c’è?».
«Sì, è su in camera sua, sta finendo i compiti.».
«Allora vado a salutarla dopo, altrimenti mi dite che diventa una pessima studentessa a causa mia.» rise Ben, lasciando che la tensione iniziale si sciogliesse almeno un po’.
In quell’istante Maggie si alzò, allontanandosi dal divano «Vado a dare una mano ad Andrea, aveva dei biscotti in forno.» disse, dirigendosi verso la cucina.
Quando ormai aveva raggiunto il piccolo corridoio che la separava dall’altra stanza, però, sentì che qualcuno la tratteneva per un braccio e udì Ben chiederle di fermarsi.
«Ben, che cosa c’è?».
«Maggie, io ti devo parlare.» fece il giovane poliziotto, negli occhi un’ansia strana, diversa da quella che lei gli aveva letto in viso negli ultimi mesi.
«Non possiamo parlare dopo?» domandò la ragazza, lanciando un’occhiata alla cucina nella quale si intravvedeva Andrea che tirava fuori qualcosa dal forno e un’occhiata dall’altra parte, al salotto, nel quale Semir era rimasto solo, rivolto con la sedia a rotelle verso il caminetto.
«No, non possiamo parlare dopo.».
«Proprio qui, in questo corridoio?».
«Proprio qui...» confermò lui, abbassando la voce.
«Ben, mi stai facendo preoccupare, che cosa c’è?» fece Margaret, con un sospiro, rassegnandosi all’idea di dover rimanere ferma in quello stretto corridoio semibuio.
Ben aprì la bocca per parlare, ma rimase in silenzio.
Dalla cucina giungevano i singhiozzi sommessi di Andrea, dal salotto il crepitìo del fuoco acceso.
Era decisamente il momento sbagliato. Il momento sbagliato, il luogo sbagliato, tutto sbagliato. Ma improvvisamente aveva sentito che non avrebbe potuto attendere un minuto di più.
«Allora, Ben? Che cosa c’è?».
«C’è che io ti amo, Maggie.»  mormorò infine il poliziotto, incatenando i suoi occhi agli occhi verdi di lei.
E quegli occhi gli sorrisero.
«Anche io ti amo, ma adesso dovremmo...».
«No, no, ascoltami, io ti amo.» ripeté Ben, quasi supplicando «E lo so, non è il momento, siamo in un corridoio stretto e buio in casa loro, da una parte c’è Andrea che piange e dall’altra Semir che non riesce a darsi pace e hanno perso Lily e sono mesi terribili e saranno ancora mesi terribili e...».
«Ehi...» lo interruppe la ragazza, guardandolo negli occhi e posandogli una mano sul petto «Respira, okay? Prendi fiato.».
«È che io ti amo, Margaret, e non voglio più aspettare che sia il momento giusto, o il luogo giusto, o l’atmosfera giusta.» riprese lui, portando la mano destra alla tasca della giacca «Per cui proprio qui, in questo corridoio, in questa casa, io... io vorrei chiederti una cosa.».
Maggie allargò il sorriso che già si era dipinto sulle sue labbra. Gli occhi le brillavano.
«Ben io non... non...».
«Non aspetterò che questa storia sia finita, Maggie...».
«Ben...».
«Margaret Maier, mi vuoi sposare?».

Maggie chiuse gli occhi e li riaprì in un istante, come per convincersi che quella scena surreale fosse vera. Come per avere la prova che quella piccola scatolina di velluto nero aperta sotto ai suoi occhi esistesse davvero.
Posò lo sguardo sull’anello che luccicava tra le mani del poliziotto e poi lo spostò nei suoi occhi, senza riuscire a pronunciare nemmeno una parola.
Aprì la bocca per rispondere ma, non appena ebbe trovato le parole giuste, si bloccò.
«Il momento giusto...» mormorò fra sé, senza distogliere lo sguardo dagli occhi di Ben, che invece cominciò a preoccuparsi.
«Che cosa?».
«Il momento giusto... ma certo!» esclamò allora lei, questa volta ad alta voce «Ben, devo fare una cosa.» aggiunse poi, dirigendosi in fretta verso la cucina, lasciando il ragazzo interdetto, immobile, ancora con la scatolina aperta tra le mani e con una domanda a cui ancora lei non aveva dato risposta.

Il cuore dell’ispettore cominciò a  battere all’impazzata, mentre l’idea di aver appena rovinato tutto si faceva sempre più concreta nella sua mente e cominciava seriamente a terrorizzarlo.
Devo fare una cosa.
Rimase immobile, seguendo con lo sguardo Maggie che si allontanava e non capendo per quale motivo lei dovesse fare una cosa prima di dargli una risposta.
La vide oltrepassare la soglia della cucina, raggiungere Andrea, porgerle un fazzoletto perché si asciugasse le lacrime dovute all’ennesima litigata che la donna aveva avuto con il marito poco prima. La vide mentre la abbracciava e la faceva sorridere, poi mentre la aiutava a sfornare i biscotti, il cui profumo inebriante invase in un attimo tutta la casa. La vide dirle ancora qualche parola, poi tornare verso di lui, sorridente.
Ben provò ad aprir bocca per parlare, per chiederle che cosa stesse aspettando per rispondergli, ma non ne ebbe il tempo: Maggie gli passò davanti attraversando il  corridoio velocemente, senza degnarlo di uno sguardo, per dirigersi questa volta verso il salotto.
Ancora una volta,  Ben la spiò fermo sulla soglia, ancora con la piccola scatola in velluto aperta tra le mani.
La vide rovistare nella propria borsa che aveva abbandonato sul divano ed estrarne quel plico di fogli dalla copertina nera che lui aveva già visto più di una volta.
Poi, la vide sedersi accanto a Semir, di fronte al caminetto acceso, e cominciare a parlargli.

«Semir, ti devo confessare una cosa.» esordì la ragazza, sedendosi accanto a lui davanti al caminetto, socchiudendo gli occhi al calore della fiamma scoppiettante.
Il turco distolse lo sguardo dal fuoco per lanciarle un’occhiata interrogativa.
«Se è per lo psicologo puoi anche lasciar perdere, Maggie, non fate altro che ripetermi tutti che dovrei tornarci, ma io non...».
«No no no, ascoltami.» lo interruppe lei, con un sorriso «Non voglio parlarti dello psicologo, affatto. Sono sicura che capirai da solo quando sarà il momento e ci tornerai. Sono psicologa anche io, so come funziona. Volevo parlarti di un’altra cosa.».
«Sarebbe?».
«Io ho scritto un libro, Semir.».
L’uomo tornò a posare lo sguardo sul fuoco, senza capire di che natura fosse quella conversazione.
«Sì, Ben mi aveva detto che lo avresti fatto. Ma cosa...».
«Quel libro è su di te.» sparò lei, a bruciapelo.
Per un attimo, Semir smise di respirare.
«Scusa?».
«Su di te, su di voi. Su... questa storia.» spiegò lei, senza perdere il sorriso, provando a immaginare quale potesse essere la reazione dell’amico.
L’ex poliziotto tornò a guardarla, senza essere sicuro di aver capito del tutto a che cosa quella ragazza si riferisse.
«Qui c’è... c’è tutto, Semir.» continuò Margaret, porgendo a lui il plico rilegato e accarezzandone piano la copertina nera.
Semir lo prese, lo toccò, ma non sollevò il cartoncino che copriva la prima pagina. Avrebbe voluto chiedere qualcosa, ma non riuscì a formulare nessun tipo di domanda.
«C’è tutto, ma... ecco, io ho scritto la parola fine a questo romanzo il giorno della vigilia di Natale, ma ho aspettato tutto questo tempo a parlartene perché io... non lo so, forse mi sentivo in colpa per essermi appropriata di questa storia, forse credevo di non averne il diritto, forse aspettavo il momento giusto.» spiegò Maggie, a bassa voce, sempre con il sorriso sulle labbra «Questi mesi, da quando Keller vi ha rapito, sono stati terribili. C’è chi affronta le difficoltà parlando, chi piange, chi ascolta solo il silenzio... io scrivo. L’ho sempre fatto, mi è venuto naturale scrivere questa storia e l’ho fatto senza riflettere, senza pensare, ho solo scritto basandomi su quello che ho visto, sul poco che tu hai raccontato, su quello che sapevo di Keller e di voi. Quando ho iniziato non sapevo dove sarei arrivata, non sapevo se lo avrei mai concluso e, soprattutto, quando l’ho iniziato avevo saputo solo delle liti tra te e Andrea, ma Keller ancora non aveva fatto nulla... solo dopo che siete stati rapiti ho capito che dovevo portare avanti questo lavoro, terminarlo, ma non ne conoscevo ancora la ragione.».
La psicologa fece una pausa.
Le mani di Semir tracciavano il profilo di quella copertina, senza osare sollevarla.
«E ora... ora la ragione la conosci?» chiese in un sussurro, temendo la risposta.
«Aprilo, Semir.».
E lui lo aprì.
Sollevò quel cartoncino nero come se pesasse una tonnellata.
Sotto di esso trovò una pagina completamente bianca a eccezione del titolo, che troneggiava in corsivo perfettamente centrato sul foglio.
Sopravviviamo.
Senza che nemmeno se ne rendesse conto, gli occhi gli divennero lucidi.
Sollevò lo sguardo sulla ragazza, provando con tutte le sue forze a tenere a bada il nodo che gli si era creato nella gola.
«Qual è la ragione?» domandò, ancora, con la voce spezzata.
Maggie si morse il labbro, lanciò un’occhiata decisa al fuoco che crepitava di fronte a loro e poi al plico di fogli appoggiato sulle ginocchia dell’ex ispettore.
Quindi alzò lo sguardo su di lui, fissandolo negli occhi.
«Brucialo.».
Semir ricambiò lo sguardo, corrugando appena la fronte.
«Come...».
«Brucialo, Semir.» lo interruppe lei, mentre anche i suoi occhi cominciavano a brillare «Dai fuoco a questa storia. Falla finita. Getta Keller tra le fiamme, riduci tutto quello che è successo in cenere. Fallo, Semir.».
L’uomo scosse il capo, lentamente, muovendo lo sguardo dalla ragazza che aveva di fronte al titolo in corsivo del libro, chiedendosi per quale motivo le lacrime chiedessero di scendere con tanta insistenza.
«Brucialo, Semir. È il momento giusto.».
L’istante di silenzio che seguì fu lunghissimo. O forse breve. Nessuno dei due lo seppe mai.
Un attimo prima il libro era tra le mani di Semir, un attimo dopo ardeva tra le fiamme di quel caminetto acceso.
E si contorceva.
Si contorceva, ripiegandosi tra le fiamme, gridando agonizzante.
Non voleva morire.
Diventava cenere, ma sembrava quasi lottare contro il fuoco, contro il quale non avrebbe mai vinto.
Crepitava.
E poi cessava di esistere.
Con le lacrime agli occhi, Margaret si sporse verso Semir, lo abbracciò con forza.
Quando si staccò dall’abbraccio, il suo lavoro era andato distrutto, polverizzato, per sempre.
Erano mesi che non si sentiva così libera.

Ben rimase a bocca spalancata a spiare l’intera scena, mentre Andrea alle sue spalle, singhiozzando piano, faceva altrettanto.
Era tutto finito.


«Sì.».
«Come?».
Ben corrugò la fronte, senza capire a che cosa la ragazza si stesse riferendo.
Erano appena usciti da casa Gerkhan, il freddo e la neve li avevano subito avvolti e si stavano avviando lentamente verso la macchina, stretti nelle loro giacche invernali.
«Sì.» ripeté Maggie, mostrandogli uno dei più bei sorrisi che Ben ricordasse di aver mai visto sulla faccia della terra.
«Sì?».
«Sì, certo che ti sposo, stupido!» esclamò la ragazza, gettandogli improvvisamente le braccia al collo.
«Sì?».
«Sì.».
«Ti amo.» sussurrò Ben sulle sue labbra, baciandola senza smettere nemmeno per un istante di stringerla forte a sé.
Anche sotto la neve, il freddo era improvvisamente scomparso.
«Ti amo.».

L’anziano signore si accarezzò i baffi bianchi, compiaciuto, osservando la scena.
«Amore non è Amore se muta quando scopre un mutamento o tende a svanire quando l'altro s'allontana. Oh no! Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai; è la stella-guida di ogni sperduta barca, il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza: se questo è errore e mi sarà provato, Io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato... * Gli inglesi sono avanti, sempre pensato io. Niente male, giovanotto!»
Poi si voltò e si incamminò sulla strada ormai resa bianca dalla neve, continuando a dialogare con se stesso.
A casa, sua nipote Lisa lo stava aspettando.

 

The End

* W. Shakespeare

 

 

N.d.A.

 

Un anno e sette mesi, quaranta capitoli, la mia storia finisce qui.
Mi dispiace avervi fatto aspettare ancora tre mesi per leggere quest’ultimo capitolo, ma purtroppo non ho avuto molto tempo e la spunta “completa” per questa storia non poteva essere selezionata troppo in fretta.
Siamo tornati al prologo di quasi due anni fa, abbiamo incontrato di nuovo questo angelo custode dall’accento inglese, abbiamo capito chi è davvero, una figura marginale ma essenziale al tempo stesso.
Il ciclo si chiude, la vita ricomincia, nonostante tutto. La cenere rimarrà in quel camino, tutto il male che c’è stato non potrà scomparire, ma la vita deve vincere, comunque.
Grazie a chi mi ha seguito fino a qui, a chi ha commentato passo per passo questa storia non propriamente leggera, grazie Mary e grazie Rebecca, davvero! Io ci ho messo il cuore, più che in ogni altra storia.
Chissà che un giorno non mi rivediate tra queste pagine, per ora chiudo così.
Grazie!

 

Sophie

  
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