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Autore: Old Fashioned    29/07/2019    20 recensioni
Un cavaliere teutonico abbandona i fasti della sede veneziana dell'Ordine per prendere parte alla crociata in Livonia. Laggiù verrà in contatto con un nuovo nemico, che non ha intenzione di accettare la conversione e che osteggia con tutte le sue forze la presenza dell'Ordine.
Un atto di generosità nei confronti di un mendicante sarà ciò che al momento del bisogno gli salverà la vita.
Prima classificata al Contest "A zonzo nel tempo!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP.
Genere: Azione, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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Gente mia, anche questo mappazzone è finito. L’episodio è concluso in sé, è vero, ma nulla vieta di farne l’inizio di una long, appena l’ispirazione si degnerà di assistermi.
Ringrazio moltissimo tutti quelli che mi hanno seguito e mi hanno fatto sapere il loro parere.





Terza parte



Fratello Reinhardt ritirò la testa fra le spalle sotto una raffica di vento particolarmente violenta, carica di un nevischio che pungeva come una manciata di aghi.
Si strinse al collo la pesante cappa di montone.
Quando il drappiere gliel'aveva consegnata, sulle prime era rimasto stupito: né a Starkenberg né in Italia aveva mai avuto bisogno di indumenti del genere, e sulle prime era stato quasi tentato di rifiutarla, perché indossata sopra il manto bianco dell'Ordine era brutta da vedere, ma soprattutto intralciava nei movimenti.
Per fortuna come al solito era arrivato fratello Ulrich, a soccorrerlo con la sua maggiore esperienza di quei luoghi, e lui l'aveva accettata.
Di nuovo si piegò per evitare una sventagliata di nevischio ghiacciato.
Se si guardava intorno, non riusciva quasi a riconoscere le campagne che aveva visto appena giunto in Livonia: non c'era più nulla del rosso, del porpora, dell'oro che l'avevano accolto al suo arrivo. Ora c'era solo bianco ovunque, tanto che riusciva difficile credere che in quelle lande vi fosse mai stato qualcosa di diverso da ghiaccio e neve.
Freddo, eh?” gli disse fratello Ulrich, che cavalcava al suo fianco avvolto nel mantello di montone come chi è abituato a portarlo da una vita.
Già,” brontolò Reinhardt.
Sei fortunato, non è neanche uno degli inverni più rigidi.”
Stai scherzando?” protestò l’altro, al solito piegandosi per offrire la minore superficie possibile al vento ghiacciato.
Un anno venne un tale freddo che nella foresta trovammo un cervo maschio, con un palco di corna largo come due uomini a braccia aperte uno di fianco all’altro, completamente congelato, duro come la pietra.”
Un cervo?” ripeté incredulo fratello Reinhardt.
Rendemmo grazie a Sant’Uberto,” fu la risposta. “Scarseggiava la carne, e con quello mangiammo per più di una settimana.”
Dopo quell’aneddoto, per un po’ proseguirono in silenzio. La strada che conduceva al piccolo villaggio con la chiesa diroccata era coperta di neve e i cavalli avanzavano lenti, alzando le zampe con precauzione. Il vento faceva schioccare le gualdrappe come bandiere.
Quando l’agglomerato di capanne apparve in lontananza, più che altro come una sagoma scura che emergeva dalla foschia, Reinhardt si voltò verso il confratello e chiese: “Padre Emelrich vuole dire messa anche con questo tempo?”
Non vedo perché non dovrebbe,” rispose l’altro. “La parola di Dio si porta solo col bel tempo adesso?”
No, ma...”
Cosa vuoi che sia un po’ di neve? Ti ho detto che abbiamo visto di peggio da queste parti.”
Reinhardt, impegnato a proteggersi dall’ennesima sventagliata di nevischio gelido, non rispose.

Il villaggio sembrava più che mai abbandonato, e forse in parte lo era anche. Alcune capanne erano buie, con lingue di neve che dalla porta dilagavano all'interno. Le altre avevano gli ingressi serrati da stuoie e tavole.
Le poche impronte che si vedevano in giro erano mezze coperte dal manto ghiacciato, segno che a prescindere dalla presenza dei cavalieri tedeschi, la gente se ne stava ben tappata in casa. Le rovine della chiesa erano più basse rispetto all'ultima volta che Reinhardt le aveva viste, un muro mancava del tutto, la porta penzolante era stata portata via, forse per farne legna da ardere.
A ridosso dell'unico angolo più o meno intero, sotto una specie di riparo costruito con assi e rami, baluginava un piccolo fuoco.
Il cavaliere si volse stupito verso il confratello, che in risposta alzò le spalle perplesso.
Osservò con più attenzione e colse mani tremanti, parzialmente fasciate di stracci, che si tendevano sulle esili fiamme.
Smontò da cavallo. Fratello Ulrich fece per dirgli qualcosa, ma lui si limitò a zittirlo con un cenno, e tenendo l'animale per le redini si avvicinò incuriosito.
Si chinò per scrutare all'interno del miserabile rifugio.
Rannicchiato in un viluppo di cenci, c'era il Curo. Gli parve ancora più magro di come lo ricordava, più pallido. Con gli stracci rattoppati che aveva addosso tremava verga a verga, tuttavia non mancò di rivolgergli un lieve sorriso. “Cavallo... forte,” gli ricordò.
Reinhardt sorrise a sua volta. “Sì, il mio cavallo è molto forte,” assentì.
Il ragazzo annuì in un modo che sembrava imitare il suo. Di nuovo gli rivolse un timido sorriso, poi però si rannicchiò scosso da un brivido. Il cavaliere notò che la sua pelle, laddove era esposta al gelo, aveva ormai il colore di quella dei morti.
D’impulso si tolse dalle spalle il pesante mantello di montone e glielo tese.
A quel movimento, il ragazzo scattò in piedi, poi arretrò e rimase a guardarlo incerto, facendo saettare gli occhi da lui all'indumento.
Prendilo, è per te,” gli disse allora. Ripeté il gesto di porgerglielo, provocando un suo nuovo, precipitoso arretramento. “Ulrich, puoi digli che voglio darlo a lui?” chiese allora, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo tremante.
Sei matto?” giunse in risposta la voce del confratello. “Vuoi rifare la pantomima dell'altra volta?”
Senza girarsi, in tono duro fratello Reinhardt rispose: “No, questa volta passerò a fil di spada chiunque osi percuotere questo giovane, o portargli via ciò che è suo. E ora diglielo, per favore.”
L'altro emise un sospiro come di esasperazione, quindi proferì qualcosa nella lingua dei pagani. Il ragazzo alzò gli occhi su di lui come se non si capacitasse di ciò che aveva appena udito. Egli ripeté la frase.
Il Curo volse allora lo sguardo al mantello. Non era certo un indumento pregiato, ma era ampio e morbido, in grado di proteggere dal vento e dalla neve. L'esterno era di pelle quasi grezza, ma l'interno era un vello così folto che ci si poteva affondare dentro.
Prendilo,” ripeté fratello Reinhardt. Si protese a deporglielo fra le mani.

Hai freddo?” chiese fratello Ulrich. Il vento era così forte che il cavaliere doveva alzare la voce per farsi sentire.
Fratello Reinhardt strinse le labbra e cercando di mantenere la voce ferma rispose: “No.”
Ulrich fece una breve risata e replicò: “Ringrazia il Cielo che stiamo per arrivare a Segewold, almeno riuscirò a metterti davanti al camino prima che tu faccia la fine del cervo.” Fece una pausa, quindi perplesso chiese: “Ma di' un po', cosa ti è venuto in mente di dare al Curo il tuo mantello?”
Aveva freddo. Non aveva di che coprirsi, in quel tugurio miserabile.”
Lo sai, vero, che alla prima occasione ripagherà la tua generosità cercando di tagliarti la gola?”
Reinhardt scosse la testa. “Non credo che sia come dici tu.” Ingobbì le spalle, cercando di proteggersi da una raffica particolarmente violenta, quindi soggiunse: “Tu sei qui da più tempo di me e conosci i pagani, ma io ho visto gli occhi di quel ragazzo, e gli occhi non mentono. Vedrai che non farà mai nulla contro di noi. Anzi, io penso che troverà il modo di sdebitarsi.”
E come vuoi che faccia a sdebitarsi quel povero pezzente? È il servo di qualcuno, vive di avanzi, non è neppure padrone degli stracci che ha addosso.”
Fratello Reinhardt non replicò. Nonostante la camicia, il gambeson e la cotta d'arme, senza il mantello di montone si sentiva gelare. Non più trattenuto dal pesante indumento, il manto bianco dell'Ordine gli svolazzava intorno furiosamente, spinto dalle raffiche. La cotta di maglia era talmente gelata che vi si era formato sopra un sottile strato di brina. Se per sbaglio la sfiorava con la pelle nuda, sentiva una fitta di dolore. Pur protette dai guanti, le dita gli si stavano intorpidendo.
In ogni caso, ne aveva più bisogno di me,” disse dopo un po'.
Voglio proprio vederti, quando spiegherai a fratello Manfred perché non hai più il mantello di montone.”
Gli dirò che ho fatto un’opera di bene,” rispose Reinhardt piccato. “Portare la parola di Dio ai pagani significa anche insegnare loro cosa sono la carità e il sacrificio di sé, o sbaglio?”
Poi diede di sprone al destriero distaccando il confratello di alcune lunghezze.
Digli che te l’ha strappato un lupo,” consigliò fratello Ulrich alle sue spalle, alzando la voce per coprire l’ululato del vento.
Fratello Reinhardt fermò il destriero. “Ho fatto un’opera di bene,” insisté serio quando l’altro l’ebbe raggiunto. “Non vedo perché dovrei mentire.”
Andiamo, dai,” lo esortò l’altro per tutta risposta. “Se sto morendo di freddo io, non oso immaginare te.”

Ormai era pomeriggio inoltrato e tutti i cavalieri che non erano impegnati in qualche compito erano nella sala comune, dove in un grande camino ardeva un tronco di quercia. Nell’aria c’era il brusio di conversazioni a bassa voce.
Un paio di confratelli erano impegnati in una partita a scacchi; un altro, nell’angolo accanto al camino, con la schiena appoggiata alla parete, stava leggendo assorto.
Quando fratello Ulrich e fratello Reinhardt si presentarono sulla soglia, calò di colpo un gran silenzio, nel quale si udì distintamente il rumore di un pezzo degli scacchi che cadeva e rotolava via.
Infine fratello Waldemar si alzò lentamente in piedi e a passi misurati li raggiunse. Dedicò a Reinhardt una lunga occhiata dal basso verso l’alto, quindi aggrottò le sopracciglia e gli chiese: “Che hai fatto, fratello? Dal colore della tua faccia si direbbe che ti abbiano ripescato da un lago.”
Sto bene,” gli assicurò il più giovane per tutta risposta, ma non riuscì a impedirsi di balbettare per il freddo.
L’altro lo fissò critico. “Dov’è il tuo mantello di montone?” gli chiese poi. “Non sarai uscito senza, spero.”
Veramente no, fratello.”
E allora dov’è finito, l’hai perso?”
Reinhardt chinò appena la testa. “Ecco, io… ho compiuto un’opera di carità.”
Di nuovo fratello Waldemar aggrottò le sopracciglia. “Sarebbe a dire?”
Intervenne a quel punto fratello Ulrich, che mise una mano sulla spalla di Reinhardt e disse: “Hai presente San Martino, Waldemar?”
Si avvicinò anche fratello Friedrich, che stava seguendo lo scambio incuriosito. “San Martino ha dato il suo mantello a un mendicante,” considerò. “Tu hai fatto lo stesso?”
Reinhardt annuì. Ritirò appena la testa fra le spalle aspettandosi una rampogna, ma l’altro scoppiò in una risata. “Ora nell’Ordine c’è un santo,” esclamò. “San Martino di Livonia!”
Altri cavalieri, che nel frattempo si erano avvicinati, scoppiarono a loro volta in una risata.
Si fece avanti fratello Gunnar, che fissò tutti con occhi di fuoco e in tono duro ammonì: “Questa è blasfemia!”
Nessuno parve impressionarsi particolarmente. Fratello Mathias scosse anzi la testa e disse: “È solo un modo per scherzare un po'.”
È blasfemia!” insisté il primo imperterrito. “Smettetela subito, o dovrò informare il Komtur.”
Così si farà una risata anche lui,” rispose Mathias, che subito dopo si rivolse a fratello Friedrich dicendo: “Va' a chiamare fratello Manfred, Fritz. Digli che qui c'è San Martino di Livonia, se vuole venire a rendergli omaggio.”
Subito!” il cavaliere si allontanò ridacchiando.
Sopraffatto dall'ilarità generale, Reinhardt non sapeva bene se unirsi all'allegria dei confratelli o protestare sdegnato. Si voltò verso Ulrich come in cerca di ispirazione, ma il cavaliere fece a sua volta una risata e rivolto agli altri disse: “E lo sapete quale sarà il miracolo più grande del nostro San Martino di Livonia? Convincere il drappiere a dargli un altro mantello!”
Se ci riesce sarà veramente un santo miracoloso,” replicò Siegfried. “Per me, dopo un prodigio del genere arriverà la gente in pellegrinaggio a Segewold!”
I pagani convertiti, magari!” rincarò Luitpold.
Fratello Reinhardt chinò la testa senza dire nulla. Nonostante il piacevole tepore del fuoco, decise che degli scherzi dei confratelli ne aveva avuto abbastanza. “Io ho fatto un’opera di carità,” ripeté in tono duro. Si diresse poi deciso verso la porta, e sulla soglia incrociò il Komtur che gli disse: “E dunque abbiamo qui un nuovo santo? San Martino di Livonia che regala mantelli ai pagani?”



In piedi sugli spalti, fratello Reinhardt lasciava vagare lo sguardo sulle colline ancora coperte di neve. Il sole ormai s’era fatto più caldo e dappertutto si udiva il gocciare e gorgogliare dei mille rivoli che il disgelo produceva.
Si allentò il mantello sul petto: la temperatura si era fatta più mite e non richiedeva più di indossare un vello di montone; il gambeson, la cotta d’arme e il manto bianco dell’Ordine erano più che sufficienti.
Ripensò al ragazzo: non l’aveva più rivisto, quindi non aveva modo di sapere se fosse riuscito a sopravvivere a quella tormenta o no. Si chiese se davvero stesse solo aspettando l’occasione buona per approfittarsi della sua fiducia e colpirlo a tradimento, e ancora una volta l’ipotesi gli parve inverosimile.
Guardò di nuovo oltre la merlatura: cielo azzurro, senza una nuvola. Come aveva imparato a riconoscere l’odore della neve quando era giunto in Livonia, così ora coglieva nell’aria quello della primavera in arrivo: un misto di limo, erba giovane e resina dei boschi.
Passò in volo un trampoliere bianco e grigio. I rami ancora spogli delle betulle ondeggiarono appena, spinti da un refolo d’aria che sapeva di fumo e cucina.
Il cavaliere si voltò verso il cortile. Sulla soglia di un magazzino c’era una donna con un neonato in braccio, che con la mano libera rimestava una pentola appesa su un fuoco improvvisato e intanto diceva qualcosa a due bambini intenti a rincorrersi. Un vecchio venerabile, con la barba bianca che gli arrivava fino al petto, sedeva su una panca a lato della porta, le mani poggiate una sull’altra sul pomo del bastone. Di un’altra donna si coglieva nel silenzio il pianto sommesso.
Erano arrivati poco prima dell’alba. Le sentinelle avevano visto delle fiaccole che erravano sulla pianura come fuochi fatui e avevano dato l’allarme, pensando che fossero i Samogizi che tentavano un attacco. Solo dopo avevano capito che in realtà era un gruppo di contadini in fuga da una fattoria distrutta.
Reinhardt abbandonò gli spalti e scese nel cortile. In un angolo un po’ discosto, il Komtur stava parlando con un uomo di circa trent’anni, biondo, con un braccio al collo. Riconobbe sul suo volto segnato l’espressione tesa di chi è appena sfuggito a qualcosa di orribile.
Si avvicinò incuriosito e sentì l’uomo dire: “Sono arrivati al calare della notte. Ce ne siamo accorti quando la casa era già in fiamme.”
Fratello Manfred annuì grave.
Hanno portato via gli animali, rubato il grano,” proseguì l’uomo, “e poi...” dovette interrompersi.
Il Komtur gli fece cenno che aveva udito abbastanza. Gli posò una mano sulla spalla, ma l’uomo balbettò: “Helga...” La voce era incrinata dal pianto. “I bambini...”
Faremo dire una messa per loro,” gli assicurò il cavaliere.
Sono riuscito a salvare solo mio padre, mia sorella e mia cognata coi figli. Gli altri sono tutti morti.”
Quant’è vero Dio, li vendicheremo,” promise il Komtur.
In quel momento si udirono le sentinelle dare una voce. Reinhardt corse verso gli spalti. “Cosa c’è?” chiese.
Dall’alto, un soldato gli rispose: “Sta arrivando un uomo a cavallo.”
Un cavaliere?”
La sentinella diede un altro sguardo all’esterno, quindi rispose: “Monta a pelo, sta galoppando come se avesse il diavolo alle calcagna.”
A quelle parole, Reinhardt si voltò verso il Komtur, che in risposta ordinò: “Aprite la porta.”
Quello che entrò, in groppa a un cavallo schiumante e letteralmente impazzito di paura, era a malapena un ragazzo. Vestiva abiti da contadino ed era pallido come un morto. Aveva una mano serrata su un ciuffo di criniera, mentre l’altra stringeva quel che restava di redini da tiro scorciate con mezzi di fortuna.
Per amor di Dio, aiutatemi!” esalò non appena vide Reinhardt farglisi incontro. Fece per scendere da cavallo, ma le gambe non lo ressero e si accasciò al suolo tremante. “Per l’amor di Dio,” ripeté. Grosse lacrime cominciarono a scendergli lungo le guance.
Cosa c’è, sei ferito?” gli chiese il cavaliere, chinandosi accanto a lui.
Il ragazzo lo fissò con occhi che il terrore rendeva enormi. “Hanno ucciso tutti,” balbettò. “Tutti. Tutti morti.” Il pianto divenne un singhiozzare convulso.
Rienhardt lo prese per le spalle. “Chi ha ucciso tutti?” gli chiese, anche se immaginava già quello che il ragazzo gli avrebbe risposto.

Nella sala comune il clima era cupo. Nonostante le ampie finestre fossero attraversate dal sole del primo pomeriggio, l’aria sembrava aver conservato il gelo dell’inverno.
Fratello Reinhardt sedette su una delle panche che correvano lungo la parete. Per una volta era solo, perché fratello Ulrich era impegnato nella riunione del Capitolo assieme ai cavalieri con maggiore anzianità di servizio e al Capitolo del castello di Treyden.
Fratello Siegfried, che sedeva presso il lungo tavolo di quercia che attraversava la sala, fece girare uno sguardo torvo e ringhiò: “Prima la fattoria di Odo, poi Peltes. Adesso Heilige Magdalene, Osterrade e Wulfsfelde. Le stanno distruggendo tutte.” Fece una pausa, quindi aggiunse: “Dobbiamo forse aspettare che quei pagani senza Dio radano al suolo anche l’ultima? Che uccidano tutti i coloni tedeschi?”
Fratello Luitpold rincarò la dose: “È necessario agire subito, i pagani devono capire con chi hanno a che fare.”
Pensi che non lo sappiano?” lo rimbeccò fratello Mathias. “Proprio perché sanno chi siamo e come combattiamo, se ne sono stati tranquilli per tutto l’inverno e adesso che c’è il disgelo vogliono spingerci ad agire.”
E quindi cosa dovremmo fare, secondo te?” lo provocò l’altro, “Stare a guardare mentre quelli fanno ciò che vogliono? I cavalieri teutonici, garanti di pace e ordine, lasceranno che quattro pagani puzzolenti mettano a ferro e fuoco la Livonia?”
Se combattessimo adesso faremmo esattamente il loro gioco.”
Ma se non combattiamo, la nostra gente morirà, o nel migliore dei casi perderà tutto quello che possiede.” Fratello Luitpold fece un gesto iroso verso le finestre che davano sul cortile, come per invitare il confratello ad affacciarvisi. “Li hai visti anche tu i poveretti che si sono rifugiati qui: gente che si è vista uccidere i figli o i genitori sotto gli occhi, che si è vista andare a fuoco la casa che aveva costruito in anni di sacrifici. Cosa diremo a costoro, che ci dispiace tanto ma c’è il disgelo?”
Fratello Reinhardt seguiva quegli scambi in silenzio. Sentiva di trovarsi in Livonia da troppo poco tempo per esprimere un parere sulla questione: non aveva mai visto un disgelo da quelle parti, non conosceva ancora l’ubicazione di tutte le fattorie. Una cosa però gli era chiara: se i Samogizi erano tutti come quelli che aveva incontrato il suo primo giorno a Segewold, non intervenire avrebbe significato condannare a morte ogni colono dei dintorni.
Gli tornò in mente quello che aveva visto presso la fattoria di Peltes e dovette chiudere gli occhi mentre un brivido di orrore gli percorreva le membra.
Di nuovo prese la parola fratello Siegfried: “Se non interveniamo, la rivolta si estenderà come il fuoco sulle stoppie.”
Intervenire adesso significa finire impantanati nel fango,” intervenne fratello Friedrich.
Ci sono i soldati a piedi e i sergenti, e non è tutta palude. C'è anche terreno solido.”
Col disgelo? Appena esci dalle strade battute è solo pantano.”
E loro come fanno? Anche loro hanno i cavalli, no?”
Combattono anche a piedi. E poi qui ci sono nati, e dove noi non vediamo altro che fango, essi sanno trovare con facilità abbastanza terreno solido per muoversi.”
Io dico che dobbiamo dare loro una lezione esemplare,” intervenne fratello Luitpold. “Devono rimpiangere il momento in cui hanno deciso di levare le armi contro l'Ordine.”
Fratello Mathias stava per replicare quando la porta del capitolo si aprì e sulla soglia comparve fratello Manfred.
Nella sala calò immediatamente il silenzio, tutti volsero nella sua direzione sguardi carichi di aspettativa.



Reinhardt lanciò un'occhiata alla fattoria: muri bianchi, tetto di paglia rifatto da poco, recinti di legno, meli e susini carichi di gemme. Una generale impressione di pulizia e ordine, di lavoro operoso che dà i suoi frutti. In giro però non si vedeva nessuno, persino gli animali da cortile dovevano essere stati chiusi da qualche parte.
Si voltò verso Ulrich, che cavalcava al suo fianco, e gli chiese: “Tu pensi che funzionerà?”
Nella zona sono rimaste solo due fattorie,” disse il confratello per tutta risposta, “quindi attaccheranno o questa o l'altra. Qui ci siamo noi, nell'altra quelli di Treyden.”
E se non attaccassero?”
Avremmo comunque ottenuto lo scopo di proteggere i contadini.”
Renhardt non rispose. Gli era chiaro che un assalto in campo aperto non poteva essere portato avanti in quella stagione, il terreno molle non avrebbe retto il peso dei cavalli da guerra, pertanto era necessario adeguarsi alle modalità di combattimento dei Samogizi: imboscate, piccoli scontri, rapide ritirate. Più danni possibile nel minor tempo possibile, con la differenza che laddove le fattorie non potevano essere né abbandonate né spostate, i pagani avevano tutta la foresta e tutte le paludi a loro disposizione, ed erano in grado di far sorgere o scomparire rifugi sicuri nel breve arco di una notte.
Quindi resteremo qui di guardia?” chiese.
Fratello Ulrich annuì serio. “È il nostro dovere.”
Per quanto tempo?”
Per tutto il tempo che sarà necessario.”

Il sole stava scomparendo dietro le alture quando cominciarono a suonare i tamburi di guerra. Sulle colline che circondavano i campi, già nere nella luce che andava scemando, comparivano e scomparivano dei bagliori, e roche grida si soprapponevano a un rullare cupo e monotono, che sembrava far tremare la terra stessa.
Reinhardt fece girare lo sguardo tutt'intorno. Con il manto bianco sulle spalle, nel crepuscolo i confratelli sembravano fantasmi; la fattoria era una silente sagoma scura contro il cielo color indaco.
Attaccheranno?” chiese.
Fratello Ulrich fissò a sua volta le alture, quindi rispose: “Non è detto, può anche darsi che vadano avanti così tutta la notte per snervarci. Poi magari attaccheranno all'alba, o non attaccheranno affatto e domani sera ricominceranno con i tamburi e le urla.” Scosse la testa con un sospiro. “Questa gente è imprevedibile.”
Di nuovo Reinhardt fece girare lo sguardo sulla mole sinistra delle colline. “Non potremmo andare a cercarli?” propose.
Col buio, in mezzo agli alberi? Impossibile. L'importante è mantenere la calma, i pagani non si avvicineranno se noi siamo qui.” Fece una pausa, quindi in tono vagamente rassicurante soggiunse: “E lo sanno che siamo qui, i manti bianchi li vedono anche al buio.”
L'altro si limitò ad annuire, ma più passava il tempo, più si faceva strada in lui la consapevolezza che le cose non fossero affatto come le descriveva fratello Ulrich. Proprio dietro la casa c'erano le pendici di una collina, ed era da lì che provenivano i clamori più forti. I suoni erano sfrontati, incalzanti, carichi di una ferocia primordiale. Come già aveva notato in occasione della battaglia campale di pochi mesi prima, sembrava la voce della terra stessa, degli alberi, dei torrenti che rombando si riversavano a valle.

Passarono le ore, e mentre la notte avanzava e si faceva più cupa e fredda, il suono dei tamburi, sempre più intenso e profondo, continuava a far vibrare l’aria e il suolo.
A un tratto, a Reinhardt parve di vedere nuovi e più vividi bagliori brillare nel fianco nero della collina.
Ulrich...” cominciò, ma non fece in tempo a finire la frase. L'oscurità fu squarciata da un improvviso fulgore aranciato e quella che sembrava un'enorme palla di fuoco scese rimbalzando lungo le pendici della collina.
Balle di paglia incendiate!” udì gridare alle sue spalle.
Il globo fiammeggiante nel frattempo aveva raggiunto la casa. Si abbatté sul tetto e vi appiccò il fuoco, che prese ad ardere con violenza. Assieme a quello della paglia bruciata, nell'aria c'era odore di resina e catrame.
Si udirono qua e là dei richiami, il nitrito di qualche cavallo. Reinhardt vide passare un confratello già in sella. “Che cosa succede?” esclamò.
Un'imboscata!” rispose qualcuno.
Altre palle di fuoco arrivarono, rimbalzando lungo le pendici della collina. Un covone di fieno si incendiò e prese ad ardere come una torcia.
Nella luce sanguigna, Reinhardt vide fratello Ulrich montare in groppa al destriero. “Indietro!” lo sentì urlare, “state indietro!”
Passò fratello Friedrich a cavallo. L'animale fu colpito in pieno da una balla incendiata, la gualdrappa prese fuoco ed esso si impennò pazzo di terrore, nitrendo e schiumando, per poi lanciarsi in un galoppo sfrenato. Più correva, più ovviamente il fuoco prendeva vigore, e a nulla valevano i tentativi del cavaliere di ricondurlo all'obbedienza.
Sotto lo sguardo inorridito di Reinhardt il confratello, impotente ad aiutare l'animale, si lasciò cadere di sella. Il destriero fuggì nitrendo fino a che non venne inghiottito dal buio.
La voce di Ulrich lo riscosse: “Indietro!”
Abbandonarono la fattoria, che ormai ardeva a fiamma chiara illuminando quasi a giorno i dintorni, e per sottrarsi ai proiettili incendiati arretrarono verso una spianata ancora coperta delle ultime nevi.
Appena fuori dalla zona battuta, Reinhardt sentì il cavallo affondare nella mota fino ai nodelli. “Ulrich!” esclamò preoccupato. Ragionò in un lampo che quella grande spianata fra le colline era come un catino naturale, che accoglieva tutta l'acqua di disgelo proveniente dalle alture.
Non ti fermare!” gli raccomandò l'altro. Una balla incendiata passò fra loro spargendo nugoli di scintille, quindi scomparve alle loro spalle ed esaurì la propria corsa sfrigolando in una pozza fangosa.
Ulrich, ci stanno spingendo nel pantano!”
O questo o bruciare vivi, scegli tu!”
Le urla di guerra si fecero incalzanti mentre le scie di fuoco delle frecce incendiarie tagliavano l'oscurità. Un cavallo emise un nitrito di dolore, qualcuno imprecò. I cavalieri arretrarono ulteriormente, piantandosi man mano in un acquitrino che sembrava non avere fondo. Impastate di fango, le gualdrappe si avviluppavano intorno alle zampe dei cavalli, si impigliavano nei rami morti impedendo loro ulteriormente i movimenti.
Una salva di frecce passò sibilando. Si udì un grido di dolore, e subito dopo il rumore di un corpo che cadeva. Un cavallo nitrì, si udì il risucchio acquoso delle zampe che frenetiche cercavano di liberasi dal pantano.

Così come erano cominciati, i clamori cessarono bruscamente e nel buio non si udirono altro che il tintinnio lieve delle cotte di maglia e lo stronfiare di qualche destriero nervoso.
La sensazione non era quella di solitudine, tuttavia. Vi era anzi l'angosciosa consapevolezza che tutt'intorno vi fossero presenze silenti ma attente, malevole, che non staccavano loro gli occhi di dosso.
Chi è caduto?” chiese una voce nel buio.
Zitto!” intervenne brusca una seconda voce.
Un cavallo emise un basso nitrito, si udì il pesticciare degli zoccoli nella mota. Nell'oscurità appena rischiarata da qualche stella, si udì la domanda: “Dove sono?”
Come in risposta a essa, un dardo sibilò. Si udì un urlo di dolore.
Fratello Siegfried!” esclamò Ulrich. “Sei ferito?”
Ma la risposta non fece in tempo a giungere, perché una nuova salva di frecce li investì. Si udirono urla di dolore, un cavallo rovinò a terra con un lungo gemito. Gli altri arretrarono, affondando ulteriormente nel fango.
Reinhardt vide una sagoma bianca arrancare, percepì il tinnire di una cotta di maglia. “Qui, aggrappati al mio cavallo,” disse, senza nemmeno sapere chi fosse il cavaliere che era rimasto appiedato.
Grazie,” ansò fratello Waldemar.
Dov'è Siegfried?”
Non lo so, non si vede niente.” Poi, dopo una pausa: “Non so come facciano a vedere, quei pagani senza Dio.”
Vedono i mantelli bianchi,” replicò Reinhardt. Spronò il cavallo, che prese ad avanzare faticosamente, con le zampe piantate nel pantano. Al suo fianco, aggrappato all'arcione, Waldemar faceva del suo meglio per non inciampare. “Quei maledetti non si avvicinano,” ringhiò, “se ne stanno al sicuro e intanto ci massacrano di frecce.”
Arrivarono altri proietti. D'un tratto, una fitta atroce strappò a Reinhardt un gemito di dolore e lo obbligò ad accasciarsi sulla sella.
Che succede?” chiese preoccupato fratello Waldemar, ma il più giovane non riusciva nemmeno a raccogliere il fiato sufficiente per rispondergli. Si aggrappò alla criniera del cavallo mentre i clamori della battaglia si trasformavano lentamente in un rombo indistinto, come suoni percepiti attraverso l'acqua. Aveva la sensazione che nel fianco gli fosse entrata una sbarra incandescente, che ad ogni movimento gli straziava maggiormente le carni.
Reinhardt!”
Il cavaliere si riscosse a fatica, accorgendosi di avere una mano serrata sull'arcione con tale forza che tutto il braccio gli si era intorpidito.
Reinhardt, rispondi!”
Sentì che il cavallo si stava muovendo. Ancora una volta cercò di raccogliere il fiato per dire qualcosa, ma il dolore gli impediva qualsiasi movimento. Nell'aria c'era odore di limo, sangue e sudore di cavallo. Voci e nitriti risuonavano ovunque, ma gli arrivavano stranamente ovattati...

Reinhardt sbatté gli occhi. Cercò di deglutire, ma aveva la gola talmente secca che gli sembrava di aver inghiottito un pugno di sabbia.
Tutt'intorno c'era un vago chiarore, più vivido a oriente. La superficie della palude, costellata di erbe e alberi morti, era coperta da uno strato di nebbia che pur nella scarsa luce sembrava emanare una debole fosforescenza. Si udivano solo gli innumerevoli rumori delle creature selvatiche: frinire, gracidare, il lontano lamento di un gufo.
Che cosa...” mormorò con voce appena percettibile.
Non parlare, hai una freccia nel fianco.”
Io...”
Zitto. È già un miracolo che tu non sia caduto dal cavallo.” Ci fu una pausa, poi fratello Waldemar proseguì: “Se tu fossi caduto, adesso saresti morto.”
Non che questo rischio sia scongiurato,” intervenne qualcun altro in tono cupo.
A Reinhardt parve di riconoscere la voce. “Ulrich?” mormorò.
Dà retta a Waldemar, non parlare,” fu la risposta, ma Reinhardt insisté: “Dove siamo?”
Nel mezzo di questo schifoso pantano,” brontolò Ulrich. “Abbiamo perso parecchia gente, ammazzati dai pagani o affogati, e molti altri sono feriti o hanno perso i cavalli. Quelli là stanno aspettando che crolliamo dalla fatica per venire a finirci.”
Reinhardt si guardò intorno: a perdita d’occhio, solo una pianura costellata di piante marcescenti. Al suolo vi era un fango tenace, gelido, che sembrava avvinghiarsi alle zampe dei cavalli come se avesse voluto risucchiare le bestie fino al centro della terra. Per quanto lo sguardo poteva spaziare, non si vedeva nulla che suggerisse una presenza umana: né case, né strade, né campi coltivati.
Dove siamo?” ripeté a fatica.
All’inferno,” brontolò fratello Siegfried. È tutta la notte che quegli schifosi ci spingono verso l'interno della palude.” Fece una pausa che utilizzò per far scorrere lo sguardo sulla desolazione che li circondava, quindi soggiunse: “Mi chiedo cosa aspettino a finirci.”
A tentare di finirci,” lo corresse fratello Ulrich.
Come in risposta a quella muta domanda, in lontananza cominciarono a rullare i tamburi di guerra.
I cavalieri si scambiarono muti sguardi. Nessuno di loro ormai era illeso, alcuni procedevano a piedi, arrancando in un'acqua fangosa che nel migliore dei casi arrivava fin sopra il ginocchio. Presto si sarebbero trovati per l'ennesima volta a far da bersaglio a frecce scagliate da lontano, senza neppure la possibilità di difendersi.
E sapete cosa succede a chi viene preso vivo,” disse fratello Waldemar in tono ammonitore.
La frase fu seguita da un consapevole silenzio.
Cominciarono i canti di guerra, anche se nella nebbia non si vedeva ancora nessuno.
Reinhardt strinse gli occhi, cercando di mantenere una lucidità che sempre più si ostinava a sfuggirgli. Il dolore al fianco era un pulsare sordo, aveva freddo e si sentiva la gola in fiamme. Vide una figura esile uscire dalla nebbia e muoversi sicura nella loro direzione. Un raggio del sole nascente la illuminò, facendo brillare una zazzera scomposta di capelli biondi, ed egli ebbe di colpo l’impressione di trovarsi sotto la cupola di San Marco, con i mosaici d’oro che brillavano così tanto da fargli male agli occhi.
Si passò una mano sulla fronte, vacillò e sentì qualcuno afferrarlo. Fratello Ulrich disse: “È il ragazzo del mantello. Guarda, ce l'ha ancora addosso.”
Non fategli del male,” riuscì a balbettare Reinhardt, con una voce così fioca che quasi si perse nel rullo incalzante dei tamburi.
Il ragazzo si fermò di fronte a lui. Gli rivolse un lungo sguardo carico di consapevolezza, quindi allungò una mano e prese le redini del suo destriero. “Cavallo… vieni,” disse in tono gentile. “Vieni. Io ti aiuto.”
L’esausto animale, spaventato, schiumante, incrostato di fango da capo a piedi, sotto la sua sollecitazione mosse un cauto passo.
Vieni,” ripeté il ragazzo.

Aggrappato all’arcione, Reinhardt sussultava di dolore ogni volta che il ragazzo convinceva il suo cavallo a fare un passo. Dopo i primi attimi aveva dovuto smettere di guardarlo, perché i raggi del sole sui suoi capelli trasfiguravano nell’oro dei mosaici di San Marco e la cosa lo disorientava così tanto da dargli una specie di vertigine.
Abbassò lo sguardo sul proprio fianco, nel quale era ancora conficcata la freccia. Strinse gli occhi mentre l’immagine perdeva nitidezza e udì la voce del ragazzo che premurosamente gli assicurava: “Presto siamo arrivati.”
La frase suonò come un presagio. Presto sarebbe morto? Guardò intorno a sé: annebbiati, vaghi come fantasmi, c'erano i suoi confratelli. Si chiese se fossero già ombre, se quello che stava conducendo il suo cavallo per le redini fosse il Curo cui aveva donato il mantello o magari qualche Santo, uscito dal paradiso per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio.
Sia lodato Dio!” disse a un tratto qualcuno al suo fianco. Reinhardt si riscosse appena dal torpore in cui era scivolato e si accorse che era ricomparso il rumore degli zoccoli sul terreno solido.
Quel suono, così familiare, rassicurante, gli trasmise una sensazione di calore che quasi riuscì ad alleviare il gelo profondo che lo attanagliava.
È bello,” mormorò.
Qualcuno, forse fratello Ulrich, gli chiese: “Che cosa è bello, Reinhardt?”
Questo posto... ” Poi il buio l'avvolse.



L'ultima neve si era sciolta da poco, le betulle cominciavano a mettere le foglie. Dopo la luce cupa dell'inverno, che aveva stemperato ogni colore in un soffuso alternarsi di grigio e bianco, il sole primaverile conferiva al castello di Segewold un nitore adamantino.
La fortezza si ergeva superba; investite dai raggi dorati, le bandiere dell'Ordine splendevano come metallo polito.
Fratello Reinhardt tirò le redini e per un po' rimase a contemplarla assorto, mentre un refolo di vento gli agitava appena le falde del mantello e scompigliava la criniera corvina del suo destriero.
Fratello Ulrich lo raggiunse. “Perché ti sei fermato?” gli chiese. Si guardò intorno con l'aria di cercare eventuali ostacoli.
Il primo alzò le spalle. Inspirò a occhi socchiusi, ancora una volta riconoscendo e catalogando tutti gli odori di cui l'aria della Livonia era carica: resina, boschi, un lontano sentore di fumo di legna, l'aroma dolce del miele. Ferro e cuoio ingrassato.
Di nuovo fissò il castello, e i mosaici d'oro di Venezia gli parvero pacchiana ostentazione, paragonati al marziale rigore di quel poderoso edificio.
Guardavo,” rispose semplicemente, quindi mise il cavallo al passo e si diresse verso il ponte di legno che conduceva alla porta.
Lo superò beandosi del rumore sordo e ritmico degli zoccoli sul rovere, attraversò il barbacane ed entrò nel cortile.
Un ragazzo gli corse incontro con tale impeto che il suo nervoso destriero mise lo orecchie indietro e arretrò di un paio di passi, rischiando di finire contro quello di fratello Ulrich.
Sta' attento,” gli raccomandò questi, facendo spostare di lato il proprio cavallo.
Reinhardt smontò di sella. “Non così in fretta, Martin,” disse in tono di affettuoso rimprovero, “quante volte te lo devo ripetere?”
Il ragazzo assunse un'espressione contrita. “Scusa, signore,” disse, ma un attimo dopo la sua attenzione era nuovamente rivolta al destriero.
Reinhardt scosse appena la testa. Gli consegnò le redini e gli disse: “Dagli da mangiare e striglialo bene.”
L'altro sorrise come se il cavaliere gli avesse appena proposto di fare la cosa più bella del mondo. “Sì, signore!” esclamò felice, poi si allontanò rapido, conducendo con sé il cavallo.
Al fianco del confratello, Ulrich lanciò un'occhiata al ragazzo, che camminava a passo svelto parlando sommessamente al destriero, e disse: “Un po' più in carne, con i capelli corti e vestito come un cristiano quasi non si riconosce.”
Reinhardt pensò alla prima volta che l'aveva visto: un ragnetto sparuto, con gli occhi enormi e le giunture troppo grosse per le sue membra sottili. “Adesso sta bene,” rispose.
Ulrich di nuovo lo fissò fugace, poi chiese: “Ha rinunciato ai suoi idoli?”
Fratello Reinhardt alzò le spalle. “Non credo. Forse lo farà col tempo. Si è lasciato battezzare, questo sì, ma più che altro per fare un piacere a me.” Sorrise scuotendo appena la testa. “In quanto al resto, credo continui a venerare il mio cavallo.”
Se non altro, ha buon occhio.”
I due cavalieri si incamminarono fianco a fianco, i mantelli bianchi che ondeggiavano appena, le cotte di maglia che tinnivano lievi.
Nel cortile di Segewold ferveva l'attività: un fabbro stava battendo un pezzo di metallo incandescente sull'incudine, e a ogni colpo nugoli di scintille schizzavano via e finivano a rimbalzare sul selciato. Il sellaio stava cucendo dei finimenti, una lunga fila di mezzi fratelli stava portando sacchi ricolmi nel granaio. Dappertutto ordine, pulizia, disciplina.
Intravidero il ragazzo che strigliava con impegno il morello: cantava una canzone nella sua lingua e di tanto in tanto si interrompeva per dire qualcosa all'animale. Quando si accorse di loro alzò il braccio in un gesto di saluto, poi tornò con entusiasmo al lavoro.
Sai,” disse fratello Ulrich con un sorriso, “io credo che in fondo San Martino di Livonia un miracolo l'abbia compiuto davvero: far capire a un pagano il valore di ciò che stiamo portando in questa terra.”
   
 
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