Storie originali > Fantascienza
Ricorda la storia  |      
Autore: Pareidolia    30/07/2019    1 recensioni
Una macchia rossa in lontananza, appena visibile, segna il confine tra vita e morte. Osserva in silenzio, attenta, dopo aver messo all'angolo la propria preda.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

In un precoce mattino nella metropoli di Akumu, quando ancora l'alba era solo un accenno di bagliori all'orizzonte, una sfida mortale si stava svolgendo.

Sporgendo anche solo di poco lo sguardo oltre la propria copertura, un muro non ancora completato in un cantiere che stava sulla cima d'un palazzo, poteva vederla chiaramente. Vedeva gli edifici alti settanta piani, su ognuno dei quali giacevano, dritte, centinaia di impalcature; vedeva le strade che poco a poco si riempivano dei clacson delle automobili e del brusio delle persone e vedeva anche il cielo ancora vagamente nero che, verso la sua destra, sfumava in un sempre più chiaro grigio. Spesse scie chimiche si estendevano tra la luna e il sole, bianche e colme di punti più scuri. In mezzo a tutto questo poteva vederla chiaramente, la macchia rossa. Proprio davanti a lui, distante centinaia di metri.

Sapeva che la macchia lo stava osservando, che lo aspettava.

Ritirò lo sguardo e strinse un'imprecazione tra i denti. Accanto a lui, dalla scala impolverata che portava ai piani sottostanti, un leggero mugolio di dolore giunse alle sue orecchie.

-Non preoccuparti, va tutto bene. Quando ce ne andremo da qui starai meglio. Credimi. Per favore, abbi fiducia in me, d'accordo?- La bambina che gli stava accanto annuì debolmente. Il suo sguardo fissava il vuoto; il buio che ingoiava le scale e il mondo all'esterno.

Non sentiva più le voci degli operai fuggiti dal cantiere non appena lo avevano visto. A spaventarli era stato il grosso fucile che lui si portava in spalla e, probabilmente, anche la ferita al fianco della bimba aveva giocato la sua parte. Se ne sono andati, si disse. Molto meglio così.

Gettò nuovamente un'occhiata oltre il muro, sporgendosi solo di qualche centimetro e sperando che la macchia non se ne accorgesse. Era ancora là, immobile, in attesa e consapevole che, prima o poi, lui si sarebbe spazientito. Si sarebbe stancato di aspettare e avrebbe fatto una mossa falsa. Avrebbe cercato di spararle da quello stesso punto oppure sarebbe tornato giù, costretto a passare nuovamente dalla finestra che, poco prima, si era rotta in mille pezzi sotto il peso e la velocità del proiettile che la macchia aveva sparato e che era andato a ficcarsi nel fianco della bambina che lui si portava dietro.

Non aveva scampo. Qualsiasi cosa avesse fatto non sarebbe sopravvissuto. Davanti a lui scorreva rapidamente, scandito dal cambiamento del cielo, il tempo.

Le pubblicità olografiche sparse per tutta Akumu sputavano nell'aria slogan ammiccanti. Voci femminili quasi lussuriose che non facevano altro se non ripetere all'infinito pubblicità di qualsiasi prodotto. Anche i loro volti erano tra il bianco e il nero, come ogni altra cosa nella metropoli che inglobava tanto il cielo quanto la terra, sempre più alta e vasta. In quel luogo i colori erano rari e trascinavano con sé una parvenza di mistero, qualcosa di incomprensibile quanto indescrivibile. Per questo la macchia lo spaventava così tanto.

Ma a spaventarlo era solo quella qualità della macchia? Era davvero solo il fatto che fosse rossa o era anche la consapevolezza che ormai la sua vita fosse finita fra le sue mani? Se lo domandò più volte, questo, ma non riuscì a giungere a nessuna risposta. Non riusciva più a comprendere come si sentisse.

Un altro mugolio di dolore si sparse nell'aria fredda dalla bocca della bambina e lui la strinse ancor più a sé. Credi in me, le aveva detto, ma era sicuro, lui, di poterla proteggere? Era certo di poterla portar via da lì ancora in vita?

Forse, pensò, da solo potrei farcela. Forse se la abbandonassi qui e me ne andassi potrei salvarmi e poi potrei mandare qualcuno a prenderla. Ce la farebbe, ne sono certo. Eppure non era in grado di lasciarla e di precipitarsi giù per le scale, verso un'insicura salvezza. No, la macchia l'avrebbe comunque preso. Per quanto lui potesse correre, un proiettile lo avrebbe sicuramente raggiunto prima che riuscisse ad allontanarsi abbastanza. Non sarebbe riuscito a raggiungere l'ascensore e ad andarsene in tempo. E poi aveva fatto una promessa. Proprio non poteva abbandonarla lì.

Ansimando si passò una mano sulla fronte. Una ferita vicino all'attaccatura dei capelli scuri perdeva sangue nero misto a plastica sciolta. Era stato colpito di striscio poco prima, quando per la prima volta aveva gettato incautamente lo sguardo oltre il muro. Sentiva i processori installati nella sua testa non funzionare più così bene come al solito. Forse era soltanto una sua impressione ma aveva la forte sensazione che non fossero più rapidi come erano sempre stati. Faticava a pensare, a concentrarsi e dava la colpa di tutto ciò a quella ferita che, a suo parere, aveva decisamente rovinato i processori.

Impaziente si sporse ancora. La macchia era ancora là, fissa nello stesso punto ormai da chissà quanto tempo. Non sembrava essersi stancata neanche minimamente. Forse, invece, si stava divertendo.

Spostò gli occhi sul proprio fucile di precisione, riflettendo il più attentamente possibile su cosa fare.

Sentiva il calore svanire sempre più dal corpo che il suo braccio sinistro stringeva e, in proporzione a ciò, la sua tensione aumentava. Lente gocce di sudore gelido iniziarono a colargli sulla fronte mentre il corpo veniva debolmente scosso da brividi.

All'improvviso, forse evocato dal sentore di morte che gli pervadeva il corpo, il volto di sua moglie gli apparve dal buio. Sorrideva, un'espressione stanca e sudata, devastata dall'influsso dei sogni artificiali delle neuro-droghe. Un'overdose, si era persa in quel turbinio meccanico e fasullo dei sogni e non ne era mai più uscita. Forse ancora adesso stava sognando, chissà. Lui le aveva fatto una promessa che, forse, non avrebbe dovuto fare. Proteggerò nostra figlia, te lo prometto. Quelle parole echeggiarono più volte nella sua mente stanca e dai processori rallentati, e insieme ad esse si spargeva piano lungo tutto il corpo la consapevolezza di non esserci riuscito.

Era stato stupido. Talmente tanto da spingersi a un furto che non andava per niente fatto, solo per poter crescere quella bambina fragile e minuta che ora si faceva sempre più piccola nella sua stretta, sofferente sotto il peso della ferita che perdeva copiosamente sangue e plastica.

La preoccupazione dell'uomo si concentrò proprio su lei, di colpo. Si maledì per non avere nulla con cui fasciare quel foro, nulla con cui estrarre il proiettile e farla sentire meglio. Più ci pensava e più si sentiva incapace, inutile.

Socchiuse gli occhi e, ansimando stancamente, alzò la testa al cielo. Cosa faccio? Cosa diavolo posso fare adesso? La voce della donna nella sua mente sussurrò qualcosa. Una voce flebile e quasi inudibile. Lui riuscì a cogliere poche parole ma comprese.

Strinse il fucile e si affacciò leggermente. Sentì il mirino su di sé e per questo si ritirò subito. Guardò la lunga canna dell'arma, leggermente erosa dal tempo. Inserì un proiettile, accorgendosi che gliene rimanevano altri quattro. Sospirò ancora e strinse le mani ancor più forte sul ferro, sentendone il freddo scaldarsi poco a poco.

Soffi di vento ululavano per il cantiere mentre le luci del quartiere di Akutagawa, una delle zone più povere della metropoli, si facevano via via più sveglie. La città si stava rapidamente svegliando, invasa dai suoi neon e i rumori. Le strade cominciarono ad animarsi di gente e voci, il cielo a schiarirsi mentre le scie chimiche cambiavano lentamente forma, allargandosi.

Si domandò se i suoi processori funzionassero abbastanza bene da aiutarlo a prendere la mira. Non era mai stato un grande cecchino prima che glieli impiantassero ma ora che li aveva, come molti altri nel suo stesso campo, lo era diventato. Buffo che io senza queste modifiche al corpo non sia altro che un incapace. Un pensiero che nacque spontaneo.

Un altro mugolio di dolore. La strinse ancora e avvicinò la propria testa alla sua, sussurrandole in un orecchio.

-Resisti ancora un po'. Quando potremo andarcene da qui, fra poco, ti porterò a fare l'operazione. Starai meglio, vedrai. Staremo meglio entrambi.- Lo sperava davvero. Quelle parole le pronunciò per rassicurare entrambi e, in qualche modo, ci riuscì.

Era riuscito a fuggire da casa propria appena prima che le squadre della yakuza mandate per eliminarlo riuscissero a circondarne il perimetro, era riuscito a far perdere le proprie tracce durante l'inseguimento avvenuto fra le strade strette e scure dell'intero quartiere rifugiandosi in quell'edificio e ora era là, imprigionato dalla macchia rossa. Inizialmente tutto stava andando bene ma nel giro di poche ore la sua vita era stata inevitabilmente devastata e giunta a un bivio che si stava rivelando essere soltanto un vicolo cieco.

Mentre le immagini di tutto ciò che era successo durante quella notte scorrevano fra i suoi pensieri le mani ebbero un misterioso fremito. Era il momento. Ormai ne era consapevole.

Uscì allo scoperto stringendo il fucile fra le mani. Lo puntò verso le macchia, pronto a premere il grilletto.

 

Pochi secondi. Le bastarono pochi secondi per vedere i due apparire davanti alle enormi finestre dell'ultimo piano e per prendere la mira. Fissando un punto poco davanti a loro sparò e il proiettile, infrangendo una delle finestre, si piantò nel fianco della bambina. Uno schizzo di sangue scuro e plastica sciolta fuoriuscì dalla ferita.

Fece una smorfia, insoddisfatta di quel colpo ma consapevole che i due, ormai, erano in trappola. Una trappola in cui si erano stupidamente gettati da soli.

Alzando lo sguardo aveva ora davanti il cantiere coi suoi teli di plastica nera mossi dal vento, i pali d'acciaio a sostenere le impalcature, il vuoto che si dilungava oltre i muri non ancora terminati. Vide gli operai voltarsi e fuggire non appena i due si affacciarono oltre le scale che conducevano lì. Incautamente i due uscirono allo scoperto, tentando di trovare riparo nel cantiere ma abbandonarono subito l'idea. A quel punto tornarono verso le scale, riparandosi dietro al muro incompleto che le circondava.

Attese in silenzio, non era ancora il momento giusto. Bisognava aspettare, trovare un'occasione migliore, molto più calma. Nel mentre il programma installato nei suoi occhi analizzava rapidamente la situazione e tutti gli elementi che apparivano nel mirino. Attorno le voci delle pubblicità olografiche, i clacson delle auto e il brusio simile a uno sciame di vespe salivano dalla strada.

Non c'è alcuna fretta, si disse, posso aspettarti quanto vuoi. Era fortemente consapevole che l'uomo poteva vederla. La sua tuta rossa, scelta come presagio di morte per i suoi obbiettivi, risaltava con forza nel bianco e nel nero della città.

Tentò di ignorare la distesa di uomini e donne dai corpi biochimicamente modificati che si estendeva settanta piani sotto di lei. Tutte quelle persone che normalmente si credevano importanti per la vacua società di Akumu ma che, in fondo, non erano altro che migliaia di piccoli insetti della stessa misura, tutti uguali se visti da quell'altezza. Esseri umani senza più umanità, questo era per lei ciò che componeva la maggior parte della società della metropoli. Pallide imitazioni di ideali e di canoni di bellezza che nemmeno dovevano esistere ma che la chirurgia biochimica aveva permesso, fantasmi di un futuro fin troppo perfettamente idealizzato ma che di perfetto avevano solo il corpo. Le loro menti, invece, erano molto più chiuse e retrograde degli esseri umani del secolo precedente. Ecco, si disse, ci sto pensando di nuovo.

-Kisō, sei lì? Mi senti?- La mia voce risuonò con qualche vago disturbo negli auricolari installati in entrambi i suoi timpani.

-Sì Ghost, ci sono.-

-Non li hai ancora eliminati?-

-Si ostinano a voler sopravvivere ma li ho nel mirino. Una se ne andrà fra poco, l'altro non si decide a uscire allo scoperto. Probabilmente spera che io mi stanchi e vada via.-

-Capisco. Il cliente ha chiesto espressamente e più volte di eliminarli in fretta. Più tempo ci impieghi e peggio è, dice lui. Continua a ripetermelo come se fossi stupido e non c'è verso di farlo smettere.-

-Digli che mi spiace per lui ma non posso ancora fare i miracoli. Morirà quando uscirà allo scoperto. Presto ma non subito.-

-D'accordo, cerco di farlo stare calmo allora.-

-E digli che non è colpa mia se non è riuscito ad occuparsi da sé dell'uomo che gli ha rubato i soldi ed è fuggito. Sono stufa di questi clienti così incapaci. Digli che la prossima volta, invece di fare il tiranno con noi dopo averci assoldati, farà meglio ad arrangiarsi da solo o non ci metterà molto a finire pure lui sulla lista.- Il suo tono era freddo, schietto. Ancora teneva lo sguardo fisso sul muro, aspettando che l'uomo uscisse allo scoperto. Proprio in quel momento lo vide muoversi. Parte della sua faccia si allungò oltre la superficie grigia e lei premette il grilletto. Gli sfiorò appena la fronte, senza ferirlo gravemente. Va bene comunque, che ti serva da avvertimento. Muoviti a uscire o ti faccio soffrire ancora di più.

Il vento continuava a soffiare, muovendole lentamente i capelli neri lunghi fino alla base del collo.

Il tempo sembrava immobile nonostante il mondo continuasse a muoversi rapido, confuso. Tutta Akumu scorreva, ignara di quegli istanti. Mentre il suo occhio destro osservava lo spazio all'interno del mirino sentiva il peso dei secondi passarle sopra al corpo, sfiorarle la pelle e scivolare via nel brusio, verso il suo obbiettivo. Portava morte, il tempo. Avvicinava sempre più il momento in cui lei avrebbe premuto il grilletto, il momento in cui il proiettile avrebbe danzato nell'aria e quello in cui l'uomo sarebbe caduto a terra senza vita.

Ci fu una folata di vento ancor più forte e tutto parve fermarsi all'istante. Un movimento rapido, improvviso. Premette il grilletto.

 

Cadde a terra subito. Il fucile volò in aria scivolando nel vuoto, verso la strada sottostante. Nel frattempo la bambina era ormai lontana, persa in un'oscurità ben più fitta di quella che ingoiava le scale su cui era stesa. Le stesse tenebre in cui anche lui stava per finire.

Era finita per entrambi nel giro di un secondo. Una fine accompagnata da una folata di vento e un proiettile in fronte. Una scia di sangue nerastro e plastica grigia schizzò nell'aria mattutina, mentre l'alba si estendeva sempre più verso le strisce bianche stese in cielo. Intanto la vita nella metropoli continuava a scorrere, immersa nell'alta tecnologia del nuovo secolo, piena di persone che da un giorno all'altro cambiavano volto, corpo e sentimenti.

Persino in un mondo così, però, la morte non era altro che un avvenimento breve. Un secondo, accompagnato da un proiettile. La fine di una vita, dei suoi pensieri, del suo passato si perdevano completamente nel vuoto e nel silenzio di quell'unico secondo.

Kisō, la macchia rossa, osservava quell'avvenimento senza muoversi, ancora immobile e in attesa che il corpo cadesse a terra. Vide le braccia dell'uomo levarsi verso il cielo, gli occhi divennero vuoti, la bocca contratta. Un solo colpo era bastato a spazzarne via l'esistenza mentre tutta la plastica che aveva in corpo si perdeva nel vento come polvere vecchia e secca dopo che si è aperta una finestra. A cosa ti è servito tutto questo? Ne è veramente valsa la pena?

La domanda echeggiò nella mente dell'assassina per qualche secondo, girando a vuoto come un disco rotto.

Ora di quell'uomo e della bambina non restava altro che un triste e ignorato silenzio.

Negli ultimi istanti di coscienza, lui vide il volto stanco di sua moglie mentre si sforzava in un sorriso, leggermente distorto dai sogni delle neuro-droghe. Il ricordo dell'ultimo bacio sferzò la sua mente.

Stiamo arrivando, aspettaci. E tutto si spense.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: Pareidolia