Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ode To Joy    02/08/2019    4 recensioni
[Erwin x Levi]
[Kenny x Uri] [Jean x Eren]
”L’Umanità si divide in due categorie: quelli che vogliono cambiare il mondo e quelli con il potere di farlo.”
Paradis, 850.
Il Muro Maria è stato riconquistato ma a caro prezzo: solo otto soldati hanno fatto ritorno da Shiganshina.
Levi ed Eren non sono tra loro.
Erwin è sopravvissuto a costo della sua umanità e non si ritiene più degno di guidare le Ali della Libertà.
Marley.
Prigioniero sotto la custodia di Zeke Jeager, Levi cerca di tenere in vita se stesso ed Eren con la certezza che Erwin sia morto e che nessuno stia venendo a salvarli. Manipolare il fratello minore per renderlo suo complice, però, è solo una parte del piano di Zeke.
“Ora hai sia la volontà che il potere. Smettila di piangerti addosso, vinci questa guerra e riprenditi ciò che è tuo.”
Mytras, 819.
Catturato dopo aver cercato di uccidere il re, a Kenny Ackerman viene risparmiata la vita e promessa la libertà in cambio di qualcosa che lo legherà a doppio filo al principe Uri Reiss.
[Canon-Divergence] [Omegaverse]
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Erwin Smith, Jean Kirshtein, Kenny Ackerman, Levi Ackerman
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Prima Parte
Architetti Della Propria Distruzione


Season, they will change
Life will make you grow
Death can make you hard, hard, hard
Everything is temporary
Everything will slide
Love will never die, die, die.

- Birds, Imagine Dragons -


1
Jean


In quel mondo confinato dietro alte mura di pietra, in cui la popolazione veniva divisa per due sessi alla nascita e, successivamente, in altri tre generi con l’arrivo della pubertà, Jean Kirshtein ebbe la fortuna di nascere nella categoria vincente: Alpha.

Secondo l’opinione popolare, nascere Alpha era come avere un asso nella manica da giocare nella folle partita della vita. Per definizione, un Alpha era destinato al successo, a primeggiare, a restare a testa alta sempre e comunque. La Polizia Militare li predilegeva quando si trattava di accettare nuove reclute, anche se non ne vantavano in grande numero. In percentuale, la categoria di genere più numerosa era quella neutra - detta Beta. Gli Alpha erano un’eccezione alla regola in positivo, un motivo di vanto per le famiglie che li mettevano al mondo indipendente dal loro status sociale.

La signora Kirshtein pianse di gioia quando il suo bambino raggiunse la pubertà e la riempì di orgoglio facendo assolutamente nulla perchè, essendo un Alpha, era scontato che Jean avrebbe fatto qualcosa di grande della sua vita.

Jean stesso se ne era convinto. Ancor prima di entrare nel corpo cadetti, non dubitò mai che sarebbe stato tra i primi dieci in graduatoria, non gli saltò per la testa di prendere in considerazione un piano B nel qual caso non fosse entrato nella Polizia Militare. 

Per un Alpha il concetto di piano B non esisteva. 

L’unica cosa che Jean doveva fare per arrivare dove voleva, era dare tutto se stesso per riuscirci. E tutto se stesso sarebbe stato più che sufficiente perché lui era un Alpha.

A dodici anni, Jean Kirshtein divenne cadetto con l’assoluta certezza che tutti i suoi sogni sarebbero divenuti realtà - compreso quello di conquistare il cuore della bella fanciulla dai capelli corvini e dai grandi occhi neri che era stata assegnata al suo stesso squadrone d’addestramento.

Jean Kirshtein era un Alpha e come tale era pronto a tutto. Anzi, era nato pronto.

Ma non lo fu abbastanza per Eren Jeager.



”È un peccato che le tue ali vadano sprecate.”
Non lo guardava. Quando i fuochi d’artificio esaurivano la loro luce e tornava il buio, i suoi occhi sembravano blu.
“Il vero peccato è che la tua vita vada sprecata.” 
Lo disse con lo scopo di fargli male, ma per riuscirci le sue parole avrebbero dovuto avere valore per lui.
“Non credo che combattere per la libertà equivalga a sprecare la mia vita.” 
Occhi stupendi, pericolosi. Gli piaceva credere di riuscire a reggere quello sguardo ardente senza battere ciglio, ma era una bugia.
“Non c’è nessuna libertà per cui combattere. È solo un tuo stupido delirio.”
Disprezzo. Delusione. 
“Non puoi capire.”
“No, sei tu che non vuoi capire! Sei il quinto in graduatoria! Sei un posto sopra di me, potresti avere un futuro che non grondi sangue!”
Non vide nemmeno l’ombra di un dubbio in quegli occhi dal colore impossibile.
“È troppo tardi, lo capisci?”
No, non lo capiva. Non poteva. Non ancora.




 
- 1 settimane dopo la battaglia di Shiganshina -




Nel suo primo anno nella Legione Esplorativa, Jean Kirshtein aveva fatto sua una triste lezione: era più facile ricordare il viso e il nome di un compagno caduto che quello del soldato che cavalcava al suo fianco. Dopo il colpo di stato che aveva reso Historia la nuova Regina delle Mura, in molti avevano lasciato il proprio corpo militare per trasferirsi nel loro. Portando alla luce gli intrighi della corona, anche a costo di venir etichettati come traditori e condannati a morte, i soldati della Legione Esplorativa avevano cambiato per sempre l'immagine che il popolo aveva di loro.

Con una reale della loro parte, le questioni politiche si erano fatte improvvisamente semplici ed Erwin Smith non si era dovuto prostrare ai piedi di nessuno per finanziare la missione di riconquista del Muro Maria. Al contrario, nelle settimane dedicate alla pianificazione, gente di tutti i ceti sociali si era fatta avanti per rendersi utile, per prendere parte alla più grande impresa che l'Umanità avesse mai compiuto.

La Legione Esplorativa aveva varcato i cancelli di Trost una mattina di primavera contando centinaia di giovani soldati determinati a cambiare la storia del mondo e a riconquistare la Libertà per tutta l'Umanità.

Di quei cuori impavidi - o troppo stupidi per il loro bene - solo otto erano tornati a casa.



Henry Wilburg.

Jean lesse il nome scritto sul retro della busta per la centesima volta. Era un nome che gli suonava familiare, forse si erano diplomati nello stesso anno ma in due squadroni diversi. Non ricordava il suo viso. Avevano cavalcato insieme fino a Shiganshina e avevano combattuto nella stessa battaglia. Henry era morto. Jean non riusciva a darsi pace per non riuscire ad associare un volto al suo nome.

O forse lo aveva visto. Forse era uno dei cadaveri ridotti a pezzi ma con ancora qualcosa di umano che avevano trovato lungo la strada, uscendo dai cancelli di Shiganshina. Se era così, Jean preferiva non ricordare nulla di lui. Non voleva che un altro compagno, anche se poco più che un estraneo, facesse la stessa di fine di Marco.

Al tempo, quando la notte di Trost era stata illuminata dalle pire funebri dei giovani caduti, qualcuno gli aveva suggerito: “ricordalo com’era quando era vivo.”

Jean, invece, non poteva pensare a Marco senza vedere di fronte a sé quel corpo masticato a metà, quella mascara ingrigita deformata in un’espressione che non era né di dolore né di paura. Nei suoi ricordi, il viso di Marco era divenuto quello della morte. Del suo sorriso, della sua ingenuità non era rimasto niente.

Da quel giorno in poi, per Jean era stato così per ogni morte a cui aveva dovuto assistere, per ogni corpo che si era sentito in dovere d’identificare.

Non aveva importanza quanta storia ci fosse tra lui e la persona morta che aveva di fronte, quell’ultima immagine era la sola che gli sarebbe rimasta di quell’essere umano.

Era una cosa che aveva detestato per mesi. 

Il bastardo era riuscito a essere la sua unica eccezione anche in quello.

”Jean…”

Sollevò lo sguardo e lo trovò lì, seduto di fronte a lui, con quell’insopportabile espressione da eroe tragico e quegli occhi dal colore impossibile.

”Non ricordarmi.” Disse con una nota arrogante, eppure sembrava triste. ”Dimenticati di me, Jean.”

“Jean!” Abbaiò Floch.

Il giovane Kirshtein si ricordò di colpo della sua presenza. “Hai detto qualcosa?”

"Quante ne mancano ancora?" Domandò Floch, scocciato. Si stava agitando sul suo lato della carrozza da un po' ma Jean era troppo occupato a duellare con i suoi pensieri per preoccuparsi dell'umore di una persona per cui non provava alcuna simpatia. Aveva una decina di lettere strette nella mano libera dalle fasciature. Hanji gli aveva detto il numero esatto quando gliele aveva consegnate e lui aveva tenuto il conto delle porte a cui avevano bussato fino ad allora per informare dei genitori, dei fratelli o delle persone amate che avevano perso qualcuno d'insostituibile sotto le mura di Shiganshina.

Tuttavia, non era necessario che Floch ricevesse una risposta gentile. "Saranno finite quando saranno finite," disse Jean, duro ma troppo stanco per butta lì anche la minaccia di prenderlo a pugni se non se ne fosse stato zitto.

Floch incrociò le braccia contro il petto e voltò lo sguardo verso il finestrino con insofferenza. "Sta per piovere," si lagnò.

"Sei sopravvissuto a una pioggia di pietra, puoi sopravvivere anche a un temporale," replicò Jean. Non gli importava se era crudele, se stava rigirando il coltello in una piaga che non si sarebbe mai rimarginata. Floch aveva fatto una cosa buona su quel campo di battaglia, una e nemmeno con le migliori intenzioni. A Jean pesava dovergli essere grato per qualcosa.

"Pensi di essere divertente?" Domandò Floch velenoso.

Jean si trattenne dall'aprire la portiera della carrozza e lanciarlo giù, in corsa. Stava per arrivare la scena madre tragica della giornata.

"Tu non eri lì fuori! Non hai cavalcato come un pazzo incontro a morte certa solo per seguire un piano di merda che è servito a niente!"

Hanji gli aveva detto di non fare sforzi fisici inutili per via del braccio fasciato, ma il fatto che Floch respirasse era uno spreco di aria e cibo a cui, in quei tempi duri, era doveroso rimediare. Jean gettò le lettere sul sedile e scattò in avanti, tenendo il suo insopportabile collega inchiodato alla parete della carrozza premendogli l’avambraccio sano contro la gola.

”È una mossa che ho imparato dal Capitano, non ti agitare o ti mancherà aria più in fretta," sibilò a pochi centimetri dal brutto muso di Floch. "Apri bene le orecchie, pezzo di merda: l'unica ragione per cui sei qui dopo aver dichiarato che stavi per finire il Comandante sul campo di battaglia è perché Hanji è stanca di firmare lettere di condoglianze per i suoi soldati. Tuttavia, possiamo risparmiarle l'incomodo se il tuo inutile cadavere viene ritrovato nei pressi della città sotterranea, che te ne pare?"

Un rivolo di saliva attraversò il mento di Floch. Si agitava, in panico ma non poteva nulla contro uno dei dieci soldati migliori dello squadrone 104. 

Jean sorrise come un pazzo. Aveva avuto paura di uccidere un altro uomo quando il suo dovere lo aveva richiesto, ma ora non gli importava più nulla. Il diavolo si sarebbe potuto prendere la sua anima e non avrebbe sofferto alcuna crisi di coscienza.

Erano tornati in otto da Shiganshina ma erano morti tutti sotto quelle mura. Tutti!

"Il Muro Maria è di nuovo territorio dell'Umanità," proseguì Jean, il viso di Floch cominciava a perdere colore. "Per questa vittoria abbiamo dovuto pagare con centinaia di vite. Per il tuo bene, Floch, evita di aprire quella tua bocca di merda e di ricordarmi che sarebbe stato molto meglio se tu fossi stato al posto di uno qualunque di loro!"

Lo lasciò andare e Floch cadde a terra tra i due sedili, una mano stretta alla gola. Jean non gli diede il tempo di riprendersi dai colpi di tosse che batté due volte sul tetto della carrozza. “Fammi scendere!” Tuonò.

Mentre il cocchiere tirava le briglie dei cavalli e le ruote stridevano, Jean afferrò i capelli sulla nuca di Floch e lo costrinse a guardare le buste da lettera che erano finite in ogni angolo della carrozza durante la colluttazione. “Le consegnerai una a una,” ordinò. “Sarai gentile con loro, sarai addolorato per la loro perdita e non ti azzarderai a dire una parola che possa denigrare il sacrificio di questi soldati! Ci siamo capiti?”

Floch annuì, tremava da capo a piedi ma non mancò di rivolgergli un’occhiata colma di rancore quando allontanò la mano dai suoi capelli. “Quando Zoe lo verrà a sapere-“

Jean gli rise in faccia. “Le hai detto di aver quasi ucciso una delle persone più importanti della sua vita. Sii furbo e stalle il più lontano possibile!”

La carrozza si fermò. Jean scese senza degnare il cocchiere nemmeno di uno sguardo: Floch gli avrebbe detto dove andare, avrebbe gestito quella cosa da solo fino all’ultima lettera. 

In quanto a lui, c’era un posto in cui Hanji non gli aveva ordinato di andare e che, seppur non lo ammetteva, stavano evitando con le tutte le scuse a loro disposizione. C’era una persona alla capitale per cui non aveva alcuna lettera ma che aveva aspettato il loro ritorno con la stessa ansia di tutti quei genitori che non avrebbero più riabbracciato i loro figli. Qualcuno doveva averle detto che era stata una carneficina e qualcun altro doveva averla rassicurata del fatto che gli amici con cui era cresciuta erano tornati a casa. 

Nessuno, però, aveva potuto raccontare a Historia tutta la storia. I nomi degli otto sopravvissuti non erano stati resi noti - forse nemmeno che erano in otto - solo che la spedizione era stata un successo per l’Umanità e che il muro era stato riparato. Questo al popolo poteva bastare e anche alle famiglie che avevano pagato il prezzo di quella vittoria.

Non alla Regina. Non a una di loro.

Mentre le prima gocce di pioggia bagnavano le strade di Mytras, Jean si tirò il cappuccio verde sopra la testa e prese a camminare verso il palazzo reale.



Le guardie ai cancelli lo riconobbero. Jean non aveva idea di chi fossero ma, occhio e croce, dovevano avere la stessa età. 

“Siamo i vecchi compagni di Marlow!” Esclamò il ragazzino più basso. Aveva le lentiggini, i capelli a scodella e l’espressione di chi non ha mai dovuto guardare la morte in faccia. 

“Come sta?” Domandò l’altro. Biondino, altrettanto ingenuo. 

Jean ingoiò a vuoto: no, nessuno sapeva con esattezza in quanti avevano fatto ritorno. Tempo qualche giorno ancora e la gente avrebbe smesso di guardare i portatori delle Ali della Libertà con quegli occhi luminosi di speranza.

Speranza. Non ce ne era più, in nessuna forma ma l’Umanità ancora non lo sapeva.

“Allora ci avete salvati tutti!” Continuò con entusiasmo il ragazzino dai capelli a scodella. “Ho sempre sognato di essere uno di voi, ma mio padre era nella Polizia e mio nonno-“

“Devo vedere la Regina,” lo interruppe Jean. Non avrebbe interpretato la parte dell’eroe per intrattenere quei due soldati. Non era un eroe. “Dite che Jean Kirshtein vuole parlarle.”



Vi era più sicurezza ai cancelli di quel palazzo di quanta ce ne fosse al cancello di Trost. Fu necessario uno sfinente passa parola tra guardie per accordare a Jean il permesso di passare tutti i punti di blocco fino agli appartamenti reali.

Quando Jean si ritrovò nelle stanze di Historia, si sentì stanco come il giorno in cui era tornato da Shiganshina. 

Lo fecero accomodare in un salotto e si mise a sedere su uno dei divani dalla ridicola fantasia floreale, poco gli importò di bagnarne i cuscini. La stanza non assomigliava a nessuna in cui era mai stato: mobili decorati con intagli complicatissimi, finestre alte quanto il portone del quartier generale e tappeti… Tappeti ovunque.

La voce di Historia giunse alle sue orecchie dal corridoio. Chiamava il suo nome con insistenza e Jean si alzò in piedi un istante prima di trovarsela davanti. Aveva i capelli sciolti e indossava una vestaglia di seta con un’inutile strascico. Alle sue spalle vi erano due soldati e tre giovani donne con addosso abiti esageratamente gonfi. Dovevano essere le sue dame di compagnia, dedusse Jean, e dovevano averla seguita per ricordarle di dover essere presentabile di fronte a un ospite.

Jean, però, aveva visto quella giovane Regina versare in stati decisamente più pietosi di quello e il pensiero lo divertì e lo riempì di nostalgia allo stesso tempo. Sorrise. “Scusa il ritardo.”

Historia ricambiò l’espressione con gli occhi lucenti di lacrime e corse ad abbracciarlo come se fosse un fratello tornato a casa dopo tanto tempo. Jean rimase rigido per un po’, poi ricambiò la stretta. Non erano mai stati davvero amici. Con Reiner a farle il filo e Ymir sempre tra i piedi, Jean si era focalizzato su altro durante i giorni dell’addestramento. Dopo tutto quello che era successo, però, sentirsi legati gli uni agli altri era stato inevitabile per tutti loro. 

“Sono contenta che tu sia vivo,” disse Historia, facendosi indietro. Si voltò verso i due soldati e le giovani dame. “Lasciateci soli, per favore.”

“Ma Maestà-“ Tentò una delle guardie.

“È un amico,” lo interruppe la sovrana. “Non mi serve il permesso di nessuno per parlare con un amico.”

Il soldato piegò la testa e cedette. Fu il primo a farsi indietro e gli altri lo seguirono. 

Rimasti soli, Historia afferrò le mani di Jean e lo invitò a sedersi sul divano a fiori, accanto a lei. “Stavo cominciando a preoccuparmi,” disse. “Non appena ho saputo che eravate tornati ho inviato una lettera e Hanji mi ha risposto, ma mi ha solo informato che le mura sono di nuovo integre.”

Jean annuì. “Abbiamo di nuovo il Muro Maria.” Era la prima volta che lo diceva ad alta voce. “Il territorio dovrà essere ripulito dai Titani ma la breccia è chiusa. Ci siamo riusciti.”

Il sorriso di Historia si fece radioso, poi divenne triste di colpo. “Chi era a Trost ha detto che siete tornati in pochi.”

“Sono morti in molti.” Jean non poteva dirle che erano morti tutti. “Hanji sta scrivendo le lettere di condoglianze per le famiglie, per questo non è potuta venire.”

Historia annuì con lo sguardo basso, poi gli occhi azzurri si fissarono nei suoi. “Eren sta bene?” 

Jean sbatté le palpebre un paio di volte. “Come?” Aveva udito le parole di lei ma non le aveva comprese.

“Eren…” Ripeté Historia.

Tutto quello che il giovane Kirshtein udì fu il rombo di un tuono, oppure lo scoppio di un fuoco d’artificio? Non ne era sicuro.

“Sta bene?” 

Jean conosceva la risposta a quella domanda e non sarebbero state necessarie troppe parole per dare a Historia quello che voleva. Tuttavia, in quel momento, Jean non ricordava quello che era accaduto a Shiganshina. Nella sua mente non rivedeva la città distrutta, non udiva il silenzio dei cadaveri ridotti a pezzi e quella che indossava non era nemmeno la divisa di un soldato delle Ali della Libertà. Se avesse chiuso gli occhi, Jean si sarebbe ritrovato sotto il cielo di una notte d’estate illuminata dai fuochi d’artificio e avrebbe visto il ragazzo di cui Historia aveva pronunciato il nome accanto a lui. 

Era il ricordo di poco più di un anno prima.

Era uno degli ultimi frammenti di una vita distrutta.

La Regina inarcò le sopracciglia. “Jean?”

Il soldato prese un respiro profondo e si umettò le labbra. “Historia…” Disse con voce tremante. “Ti racconterò tutto ma potrò farlo solo una volta. Ti prego di non interrompermi e di ascoltarmi fino alla fine.”
 
***


Nile Dawk non era al palazzo reale quando Jean Kirshtein venne fatto accomodare negli appartamenti della Regina. Lo mancò per poco - a essere precisi, meno di mezz’ora. Varcò i cancelli dei giardini a bordo di una carrozza della Polizia Militare, borbottando qualcosa a proposito del tempo che sarebbe peggiorato per l’ora in cui avrebbe fatto ritorno a casa. Il cocchiere lo fece scendere a un paio di passi dalle logge del cortile interno per impedirgli di bagnarsi, qualcuno lo salutò mentre prendeva la via delle scale ma Nile non guardò in faccia nessuno.

Era esausto. Era stata una di quelle giornate tanto lunghe da fargli pentire di aver scelto quel mestiere. Non gli capitava spesso di doversi intrattenere alla prigione centrale, ma la Legione Esplorativa era arrivata anche a mettere bocca sulla sorte dei prigionieri di guerra. Fare da balia ai criminali non era mai stato un suo compito ma prigionieri speciali richiedevano attenzioni speciali. Il particolare caso per cui lo avevano fatto chiamare aveva passato gli ultimi tre giorni a lamentarsi della noia. All’inizio, gli avevano raccontato, il prigioniero aveva cominciato a importunare i ragazzini di guardia con discorsi che avrebbero spinto chiunque a strapparsi le orecchie. Non ottenendo il risultato sperato, aveva cominciato a fare domande sulla Legione Esplorativa e sulla missione di riconquista del Muro Maria. Ricevere il silenzio come risposta per la seconda volta lo aveva fatto andare su tutte le furie.

A nulla era servito l’intervento di Nile. 

“Non so nulla di quei folli della fottuta Legione Esplorativa!” Aveva urlato alla fine, esasperato. “Abbiamo vinto! La breccia è chiusa! Non ci sono altre notizie ufficiali da quei pazzi di merda!”

A quel punto, il prigioniero lo aveva guardato come se fosse stata la sua presenza a provocargli noia. “Barbetta, mi sai dire come fai a essere un Comandante e a non sapere mai un cazzo?” 

Nile lo aveva mandato al diavolo e se ne era andato sbattendo la porta.

Lì sarebbe dovuto finire il peggio della giornata. Lì, fuori dai cancelli della prigione centrale.

La sorte, però, aveva deciso di non essere gentile con lui in quel giorno di pioggia.

Nile Dawk venne a sapere che Jean Kirshtein era al palazzo reale mentre saliva le scale degli appartamenti reali. Fu una delle dame della Regina a informarlo e il tono preoccupato con cui esagerò il racconto dell’arrivo del giovane non gli piacque affatto.

Salì il resto della scalinata correndo e non perse tempo a riprendere fiato prima di bussare alla porta del salotto privato una, due, tre volte. Alla fine, allarmato, abbassò la maniglia senza chiedere il permesso ma non riuscì a fare più di un passo all’interno della stanza. 

Lo sguardo di Jean Kirshtein fu il primo che incontrò: era pallido e aveva gli occhi scavati di qualcuno che non riusciva a dormire da giorni. Il viso della sua Regina era nascosto contro il suo petto, le spalle tremavano: piangeva.

Historia impiegò un lungo istante a sollevare il viso. “Comandante Dawk?” Chiamò, come se non riuscisse a spiegarsi il perché della sua presenza lì. 

Nile passò lo sguardo da un giovane all’altro. “Che cosa succede, Maestà?”

Historia aprì e chiuse la bocca un paio di volte ma Jean non le diede il tempo di dire nulla. “Devo andare,” disse, alzandosi. “Non dovrei essere qui e si staranno chiedendo che fine ho fatto.”

Historia annuì, non tentò nemmeno di asciugarsi il viso madido di lacrime. Lasciò andare la mano del vecchio compagno di squadra. Jean si avvicinò alla porta evitando accuratamente gli occhi del superiore. Nile non gli concesse la grazia di essere comprensivo.

“Ehi!” Quasi tuonò, afferrando il giovane per il mantello. “Che cosa è successo a Shiganshina? Perché non esistono ancora rapporti ufficiali su quanto è accaduto? Perché tanto silenzio se abbiamo riparato la breccia?”

Jean sgranò gli occhi, poi abbassò lo sguardo: non aveva risposte da dare a quell’uomo, non era venuto lì per quello. 

“Lo lasci andare, Comandante,” ordinò Historia. “Jean mi ha raccontato tutto. Se ha domande da fare, le faccia a me e lo lasci in pace.”

Nile esitò, poi ricordò con amarezza che avevano per Regina una fanciulla che era stata una di loro. Fece scivolare via la mano dal mantello di Jean e questi se ne andò a testa bassa, come un ladro colto sul fatto e risparmiato da un atto di pietà.

Rimasti soli, Nile si fece più vicino alla giovane sovrana. “Mia Regina-“

“So che è tuo amico,” lo interruppe Historia. “Questa è la sola ragione per cui te ne parlerò, ma non una parola dovrà uscire dalla tua bocca, Nile.”



Nessuno accompagnò Jean fuori dal palazzo reale. Ne fu felice: non poteva rischiare di ritrovarsi vicino a una giovane guardia curiosa di conoscere i dettagli dell’impresa di Shiganshina, non nello stato in cui versava in quel momento.

Il suo buon senso dell’orientamento non lo tradì e riuscì a fare la strada a ritroso, fino alle porte che conducevano al cortile interno. Si arrestò sotto le logge solo un istante, il tempo necessario a tirarsi il cappuccio già madido sopra la testa. 

Nile Dawk gli afferrò con forza la spalla e gli impedì di uscire sotto la pioggia.

“È tutto vero?” Il Comandante della Polizia Militare era più pallido di poco prima e il suo viso era un maschera di terrore e confusione.

Di colpo, tutta la soggezione che Jean aveva provato nei confronti del superiore scomparve per lasciare il posto a qualcosa che non aveva mai sentito prima. Non era rabbia - Eren era quello bravo a scatenarla - ma bruciò con altrettanta intensità. 

“Perchè mi guarda in quel modo?” Domandò con aria sufficiente, sebbene il suo viso non tradisse alcuna espressione. 

Nile fu preso alla sprovvista da quel cambiamento e smise di toccarlo. “La Regina ha detto che-“

“Sì,” lo interruppe Jean, mentre la maschera di gelida calma che aveva indossato cominciava a incrinarsi. “So cosa le ha detto Historia. Non ho bisogno che mi ripeta una storia che ho raccontato io per primo.”

Il Comandante avrebbe potuto metterlo a tacere con poco, minacciarlo di richiamo per condotta arrogante nei confronti di un superiore. Jean questo lo sapeva bene ma non gliene importava. Aveva smesso di dare credito alle persone che credevano di poterlo comandare ma che non avevano la minima idea di che cosa volesse dire combattere una guerra.

Se tutto fosse andato secondo i piani, Nile Dawk sarebbe stato il suo Comandante e non Erwin Smith. Se le cose fossero andate come sempre se le era immaginate, anche lui sarebbe stato uno di quei soldati benedetti dall’ignoranza, troppo pigri e troppo codardi per provare ad affacciarsi oltre le mura e guardare l’orizzonte.

Certe volte, quando i pensieri più oscuri prendevano il sopravvento, Jean arrivava a pensare che era meglio che Marco fosse morto: lui nella Legione Esplorativa non sarebbe mai potuto sopravvivere, ma la Polizia Militare lo avrebbe ucciso in un altro modo.

Da parte sua, Nile Dawk era troppo scosso da quanto aveva appena appreso per ricordarsi del suo titolo o del fatto che stesse parlando con un ragazzino - anche se, dal modo in cui lo guardava, non lo sembrava affatto. “Che risposta sarebbe mai questa, moccioso?”

“E la sua che domanda è?” Ribatté Jean e lasciò andare una risatina isterica, anche se sentiva le lacrime pungere agli angoli degli occhi. “Perchè è tanto sorpreso? Le persone muoiono in guerra ogni giorno.”

Nile s’incupì. “Sono consapevole delle morti che la Legione Esplorativa ha provocato, ma-“

“Provocato?” Jean era a un passo da prendere quell’uomo e sbatterlo con violenza contro il muro. “Siamo in guerra, signore. È la guerra a provocare morte, non le persone che tentato di finirla una volta per tutte.”

Nile chiuse gli occhi e strinse la bocca. “Senti, ragazzino, questi discorsi non fanno per me. Alla tua età, ho mandato all’aria un’amicizia lunga una vita per queste stronzate.” Era proprio proprio quell’amicizia che lo aveva spinto a scendere le scale di corsa. “Ma la storia che hai raccontato a Historia è…” Non aveva parole per definirla.

Jean ingoiò a vuoto. “È stato un massacro, sono morte centinaia di persone. Questo è quello che ho detto.”

Nile lo fissò e un guizzo di pietà comparve in fondo al suo sguardo. “Non sono morte solo delle persone, ragazzino.”

Jean non poteva permettersi di pensarla diversamente. Non poteva dare a un Henry Wilburg, di cui nemmeno ricordava il viso, meno importanza che a un giovane con cui era cresciuto insieme, che aveva odiato al punto da essere divenuto il suo pensiero fisso, di cui aveva studiato le sfumature degli occhi per anni prima di riuscire a descriverle accuratamente. Non poteva o sarebbe ritornato a quella notte sotto i fuochi d’artificio a quel “dimenticami, Jean.” e sarebbe impazzito.

Nile Dawk, però, non era a conoscenza dei tumulti del suo animo. La ragione per cui lo aveva inseguito armato d’incredulità e di domande stupide era un’altra. “Come sta?”

Già… Domande stupide.

Jean avrebbe potuto rispondergli sinceramente e dirgli che al quartier generale stava avvenendo la distruzione completa di un uomo che non aveva mai piegato la testa. Non lo fece. “È ancora vivo.” Non ne era completamente certo: nessuno lo vedeva da giorni e aveva perso il conto delle volte che Hanji aveva urlato contro quella porta chiusa.

Nile alzò gli occhi al cielo. “Mi prendi in giro, ragazzino? Lo so che è vivo. La domanda che ti ho posto è un’altra.”

“E io non ho il potere di risponderle,” disse Jean senza esitare. 

Il Comandante non gli credette. “Ti accompagno al tuo quartier generale,” disse, fermo. “Voglio vedere con i miei occhi.”

“No,” ribatté Jean con più fermezza di lui. “Non c’è nulla per lei nella Legione Esplorativa. Non la riguarda.” 

Nile lo guardò come se volesse prenderlo a pugni. “Devi dire a Zoe che verrò a cercarlo. Deve smetterla di credere che tutti continueremo a giocare al suo gioco!”

A quale gioco si riferisse, Jean non ne aveva la minima idea ma intuì che si trattava di una storia che lo riguardava ancora meno. “Buona giornata, Comandante.”

Si allontanò camminando sotto la pioggia.



Quando Jean tornò al quartier generale era buio, aveva camminato per ore e i suoi vestiti erano tanto bagnati che, alla fine, aveva anche rinunciato al cappuccio perchè era divenuto solo un peso inutile sulla testa.

Notò che le finestre della sala comune erano illuminate e decise di passare dal retro, per salire dalle scale delle cucine. Se Floch era ancora sveglio, non avrebbe esitato a offrirgli su un piatto d’argento altre buone ragioni per pestarlo a sangue e non voleva dare a Hanji altri pensieri. Sasha e Connie non erano lì. Non restavano che Mikasa e Armin, ma Jean era troppo provato dalla giornata per condividere una notte insonne con loro.

Scivolò in cucina senza far rumore, ma il suo tentativo di essere furtivo andò in pezzi non appena fece capolino oltre la porta.

“Ehi…” Seduta in fondo al tavolo al centro della stanza, Hanji gli rivolse un sorriso stanco. Solo una candela tremula illuminava l’ambiente. Era stato impossibile per Jean notarla dalla finestra con la pioggia che continuava a battergli sul viso. “Ci hai messo un po’ ma devo ammettere che pensavo avresti impiegato più tempo a tornare.”

Il giovane soldato comprese che era rimasta lì, nella semi oscurità ad aspettare lui e si sentì terribilmente in colpa. “Mi dispiace,” disse con tono formale. “Ho fatto tardi.”

Hanji scrollò le spalle. “Stavo cominciando a pensare che non avrei sentito tue notizie per giorni. Mi sento sollevata a vederti. Siediti, ti faccio qualcosa di caldo, ti cambio quella fasciatura bagnata e mi spieghi cosa è successo.”

Jean sentì la gola farsi stretta a quella proposta: primo, vedere Hanji che si prendeva cura di lui con quel tono e quei modi pacati gli faceva venire voglia di urlare; secondo, lei era evidentemente stanca e lui era sul punto di crollare, non potevano rimandare la discussione al giorno dopo?

“Jean, non stare lì fermo, siediti,” insistette la Capo Squadra, mettendo un pentolino pieno d’acqua sul fuoco. “Avrai camminato per chilometri.”

Con un sospiro, Jean eseguì quell’ordine mascherato da invito e si sedette su una delle panche poste ai lati del lungo tavolo, dando le spalle al camino spento.

“Floch se ne è andato,” esordì Hanji qualche minuto più tardi, facendo scivolare un tazza di tè caldo sotto il naso del ragazzo. 

Jean non prestò molta attenzione all’offerta e guardò la sua superiore negli occhi.

Il sorriso di Hanji si fece divertito. “Non mi sembri sorpreso.”

“Se avessi ancora sensibilità alle gambe, salterei dalla gioia,” ammise Jean, bevendo un sorso del suo tè con entusiasmo. Troppo: il liquido scuro nella tazza aveva lo stesso sapore del catrame. Si guardò bene dal lamentarsi e ingoiò con le lacrime agli occhi.

Nella quasi totale oscurità, Hanji non le notò. “Penso che chiederà un trasferimento.”

Di colpo, Jean trovò la brodaglia nella sua bocca deliziosa. “Ti ha fatto problemi?” Domandò, sinceramente preoccupato. 

La Capo Squadra scrollò le spalle. “Ha urlato un po’ ed è seguito un piagnisteo insopportabile mentre faceva i bagagli ma siamo sopravvissuti.”

“Mi dispiace.”

“Non è vero.” 

Hanji non era arrabbiata, ma Jean aveva comunque disubbidito a un ordine lasciando Floch da solo con quelle lettere. “Almeno, ha fatto quel che doveva?”

Lei abbassò lo sguardo a annuì. “Mi spiace ma dovrò chiederti di farlo di nuovo per alcuni giorni.”

Jean prese un altro sorso di tè solo per coprire con il disgusto ciò che quella prospettiva provocava nel suo animo. “Non c’è problema.”

“Sì che c’è,” ribatté lei, appoggiando la schiena al bancone della cucina. “Non dovrebbe spettare a te.”

Jean fissò gli occhi in un punto qualunque dell’oscurità: disperazione, non voleva vedere che aspetto assumeva sul viso di lei. “Voglio aiutare.” Era vero. Consegnare le lettere alle famiglie dei caduti era un compito gravoso ma era sempre meglio che starsene nella sua stanza a non fare niente. I momenti di calma erano i peggiori, quelli che permettevano ai pensieri di andare a piede libero e ai ricordi di tornare di corsa. “Dove pensavi che fossi?” Domandò, solo per coprire il silenzio.

“Pensavo che fossi tornato da tua madre,” ammise Hanji. “Sarebbe stato comprensibile.”

In un’altra occasione, Jean avrebbe anche potuto dirle che sua madre era l’ultima persona che avrebbe cercato in quel momento della sua vita, ma non voleva suonare irrispettoso - non troppo. Quella donna aveva fatto del suo meglio per lui e gliene era grato, anche se non lo dimostrava praticamente mai. Tuttavia, non sarebbe mai corso da lei per piangere: non lo avrebbe capito e forse era meglio che non si sforzasse di farlo.

”Dovresti essere più gentile con tua madre, Jean-Bo!”

Poggiò la tazza sul tavolo con troppa violenza e Hanji se ne accorse. “Tutto bene?”

Jean si massaggiò la fronte. “Sì, scusami.”

“Allora mi vuoi dire dove sei andato in realtà?” 

Il giovane soldato esitò. Non aveva sperato di tenere il segreto con lei nemmeno per un istante. Tuttavia, quello che gli era sembrato giusto in prima battuta ora gli parve avventato. “Sono andato da Historia,” confessò.

L’aria si fece più tesa e Jean seppe di dover aggiungere qualcosa per allentarla. “Ho parlato solo con lei,” chiarì. “Le ho raccontato tutto da compagno di squadra, da amico forse. Non è stato un dialogo tra un soldato e una Regina, te lo assicuro.”

Hanji si avvicinò al tavolo lentamente, sedendosi accanto a lui. “Le hai raccontato tutto?”

Jean scosse la testa. “Non la parte che riguarda il Comandante.”

Hanji annuì due volte. “Bene…”

“Floch, però, era lì e se ne è andato.”

“Floch teme troppo per la sua vita per poter parlare,” lo rassicurò Hanji e, per un momento, Jean credette di rivedere la Capo Squadra un po’ pazza a cui era abituato. “Io e Mikasa siamo state brave a intimidirlo.”

Suo malgrado, Jean rise e questo lo portò ad abbassare la guardia. “Aspetta che lo sappia Eren!” Fu un momento, uno scivolone sul terreno bagnato dalla pioggia. Non si sarebbe mai tirato in piedi abbastanza in fretta. “Io… Io non-“

“Tranquillo, è normale.” Hanji gli afferrò la mano. “Ieri notte, alla fine, sono crollata sul letto con i vestiti a tutto. Ho aperto un occhio che il sole era già alto e, nel dormiveglia, ho pensato che non doveva essere così tardi se Levi non mi aveva ancora buttato giù dal letto a calci.” Il suo sorriso divenne da triste a tirato.

Jean avrebbe voluto sbattere la testa contro il muro. “Mi dispiace.”

Hanji scosse la testa. “Non devi,” gli disse. “Non voglio sentire nessuno di voi chiedere scusa per quello che provate. Non voglio punire Mikasa per aver cercato di salvare Eren, anche se lo ha fatto disubbidendo a un ordine. Non voglio biasimare Sasha e Connie per essersene voluti andare per un po’. E non voglio nemmeno essere arrabbiata con Levi perché mi ha dato il siero senza dirlo a nessuno. Provo qualcosa di brutto, che non ho mai provato ma non per voi.”

Jean pensò all’uomo barricato nella sua stanza al piano di sopra, pensò alla porta chiusa contro cui quella donna batteva i pugni almeno tre volte al giorno solo per non ottenere risposta. Levi e Hanji erano stati con loro abbastanza tempo perchè Jean potesse intuire la profondità del loro rapporto - e il dolore che doveva provare lei per quel che era accaduto a Shiganshina. Non poteva dire lo stesso del secondo e ultimo veterano che erano tornato vivo dalla missione. 

Vivo. Definirlo tale sembrava una blasfemia.

“Posso farti una domanda, Jean?” Aggiunse Hanji.

Lui annuì.

“Era il tuo compagno?”

Jean sbatté le palpebre un paio di volte. “Cosa?”

Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Hanji gli parve imbarazzata. “No, certo che non potevi essere il suo compagno. Avevo Eren sotto lente d’ingrandimento per tutto il tempo, me ne sarei accorta da sola. Quello che voglio dire è...” Alzò e abbassò le braccia un paio di volte, cercando le parole. “Tu sai che ho dovuto leggere le vostre cartelle quando siete entrati nella Legione, vero?”

Jean comprese dove voleva arrivare. “Anche Mikasa è un’Alpha,” si difese in anticipo, come se stesse aspettando un’accusa a bruciapelo.

Hanji accennò un sorriso. “No, lei non mi ha convinta dall’inizio.”

Perchè mai? Avrebbe voluto chiederle Jean. Era impossibile vedere Eren senza lei e Armin - e quest’ultimo non avrebbe destato sospetti neanche nella mente più paranoica.

“È stata una domanda idiota, scusami,” aggiunse Hanji. “Solo che… Non lo so, non posso permettermi di mancare un simile dettaglio dopo tutto quello che è successo. Non voglio che tu sia restio a chiedere aiuto se ne hai bisogno.”

Jean non aveva motivo di farlo, come non ne aveva uno per cercare rifugio tra le braccia di sua madre. Era un soldato sopravvissuto a un massacro, era un vittorioso che di quella vittoria non sentiva neanche l’eco. Questo era il suo problema. Questo e nessun altro.

Il fatto che continuasse a vedere il viso di Eren illuminato da quei fuochi d’artificio in una notte d’estate non era importante. 

”Come vuoi che ti ricordi quando finirai in bocca a un Titano non appena spiegherai le tue ali da suicida del cazzo?” Aveva sputato quelle parole con rabbia e con disprezzo. Era stata l’ultima volta che aveva tentato di fare i conti con la sua incomprensione verso i motivi che spingevano Eren a volare, e aveva fallito miseramente nel venirne a capo.

Quando Eren lo aveva guardato non aveva visto rabbia nei suoi occhi. Forse delusione, forse rassegnazione. Jean non ne era più sicuro. In quel momento, gli era parsa fredda indifferenza e lo aveva odiato.

”Non farlo,” aveva risposto Eren. ”Dimenticami di me, Jean.”

“Ehi…” Hanji gli strinse una spalla. “Stai tremando. Stai-?”

“Ho solo freddo,” la interruppe Jean. “Sto bene. Ho solo freddo.”



Quella notte d’estate il cielo era limpido. 
Con la nuca premuta contro il muro di pietra e una sigaretta spenta tra le mani, pensò a quanto le stelle erano lontane, indifferenti.
“Quella intendi fumarla?”

Avevano litigato fino a un istante prima ed erano anche stati puniti per quello, ma non erano mai stati bravi a essere coerenti.

“Domani potremmo morire tutti, pensavo di rendere indimenticabile questa ultima notte facendo qualcosa che non ho mai fatto prima.”

Fumare una sigaretta gli era sembrata l’opzione più pratica.

“Ne faresti una con me?”

Si guardarono. Gli occhi di lui erano sempre splendidi, decisi. I suoi erano uno specchio di insicurezze celate male.

“Me lo stai chiedendo davvero, idiota?”

Una scrollata di spalle, come se fosse una cosa da niente.

“Voglio sapere cosa si prova.”

“E perchè lo chiedi a me?”

“Sei il solo che ho baciato.”

Era una verità di cui non era stato a conoscenza prima di quel momento. Lui sorrise, bello, derisorio. 

Lasciò cadere la sigaretta a terra per toccargli il viso. Un bacio.

“Torna vivo e allora ti farò scoprire cosa si prova.”

Non gli disse che lo avrebbero scoperto insieme.




Jean entrò nella sua camera con un asciugamano sopra la testa. Hanji era corsa a prenderlo nella lavanderia, scusandosi per non averlo fatto prima. Era stata lei a strofinargli i capelli, gli aveva cambiato la medicazione al braccio e poi gli aveva ordinato di farsi una doccia calda e di andare a dormire.

Jean aveva deciso di saltare la parte della doccia calda: era troppo stanco.

Si liberò dei vestiti fradici percorrendo i due metri e mezzo che dividevano il suo letto dalla porta. Non si preoccupò di depositarli nel cesto del bucato - ve ne era uno in ogni camera dei soldati della squadra del Capitano - si limitò a lasciarli a terra. Una volta nudo, si lasciò cadere sul letto con un sospiro stanco. Per recuperare dei vestiti puliti si sarebbe dovuto alzare e l’armadio era dalla parte opposta della stanza. Emise un verso frustrato e scivolò sotto le coperte così come era. 

La pioggia batteva con insistenza contro la finestra. Era un suono che a Jean piaceva, lo trovava rilassante e gli riportava alla mente ricordi che un tempo erano stati piacevoli. Ora aveva paura di chiudere gli occhi perché sapeva che si sarebbero tramutati in incubi.

Bussarono alla porta. Sobbalzò.

“Chi è?” Domandò, mettendosi a sedere contro il cuscino.

La risposta arrivò flebile e tremula attraverso la porta: “sono Armin…”

Jean rilassò le spalle, si passò la mano sana tra i capelli umidi e duellò velocemente con l’idea di cacciarlo via. Non ne ebbe il coraggio. “Entra,” disse con poca convinzione.

Armin fece capolino dalla porta lentamente, guidato dalla debole luce di una candela. “Ti ho svegliato?” Domandò, abbassando lo sguardo sui vestiti sparsi sul pavimento.

Jean scosse la testa. “Calpestali pure.”

“C’è abbastanza spazio sul pavimento, posso evitarlo,” replicò Armin. Jean non aggiunse altro mentre l’amico attraversava la stanza e posava la candela sul comodino. “Posso sedermi?”

Un cenno di assenso con la testa.

Armin si accomodò sul bordo del letto. “Come… Come stai?”

Jean lo osservò con attenzione. Non si guardavano in faccia da almeno tre settimane, non davvero. I capelli biondi erano un po’ più lunghi, in disordine, il volto era pallido e gli occhi azzurri erano cerchiati.

Jean si chiese se anche lui versava in uno stato simile. “Da quanto tempo non dormi?” Domandò, preoccupato.

Armin sorrise tristemente. “Ho chiesto a Hanji di dare qualcosa a Mikasa per aiutarla con… Lo sai, gli incubi. Non possiamo gravare sulle risorse della Legione più del dovuto e lei ne ha più bisogno di me.”

“Attualmente siamo in cinque in questo castello. La Legione era preparata a sfamare centinaia di soldati dopo il colpo di stato, penso che Hanji sarebbe ben felice di rimediare qualcosa che faccia stare meglio anche te,” replicò Jean.

Armin portò gli occhi azzurri sulla finestra. “Non voglio farla preoccupare anche io.”

“Pensi che non sappia già che stiamo tutti di merda?” Jean scivolò un poco sotto le coperte, appoggiando la nuca alla testiera del letto. “Il modo migliore per non darle pensiero sarebbe andarsene, come hanno fatto Sasha e Connie.”

“Non voglio lasciarla da sola.”

“Nemmeno io.”

Armin si umettò le labbra. “Vorrei che ci fosse un modo per essere forti… Per sostenerci gli uni con gli altri…”

Jean storse la bocca in una smorfia. “Se trovi un modo per mettere in pausa il dolore, fammelo sapere,” disse, sarcastico. “E anche ammesso che ci riusciamo, Hanji non ci permetterebbe mai di essere quelli forti. Si sente responsabile per noi.”

Armin incrociò le gambe sulla coperta. “Hanno litigato anche oggi.” 

Jean non ne era sorpreso. “Parli al plurale perchè lui ha risposto?”

“No, la porta è rimasta chiusa e lui non ha detto nulla.”

“Per quanto può andare avanti?”

“Fisicamente?” Domandò Armin. “Può ucciderlo solo un’incisione alla nuca. Il suo stato mentale è una cosa un po’ più complicata.”

Un lampo illuminò a giorno la stanza per un istante. Il boato fu immediato, improvviso. Sobbalzarono entrambi, Armin di più.

“Pensi che fossero compagni?” Domandò Jean, trovando improvvisamente interessante il colore della sua coperta.

Armin non rispose subito. Boccheggiò, imbarazzato. “Dipende cosa intendi per compagni.”

Jean scrollò le spalle. “Scopavano e basta o erano qualcos’altro?”

Armin lo rimproverò con lo sguardo. “Stiamo parlando dei nostri superiori.”

“No, stiamo parlando dell’uomo più imperturbabile esistente che ha un crollo totale per la morte del suo braccio destro.”

“Anche Mikasa è crollata.”

“Armin, ti prego, Mikasa è tutto meno che imperturbabile,” disse Jean, annoiato. “Quando si tratta di Eren, diviene isterica per un nonnulla.”

Armin aggrottò la fronte. “Jean…” 

“Cosa?” Non era un comportamento da lui, lo sapeva bene. Tuttavia, Jean era stufo di gente che gli ripeteva quanto Mikasa soffriva per Eren. Hanji aveva tutte le ragioni di essere arrabbiata: non potevano permettersi di nascondersi dietro al dolore e lasciare fuori tutto il resto. “Era anche tuo fratello, no?” Aggiunse, arrabbiato. “E te ne stai qui a dire che lei ha più bisogno d’aiuto di te!” 

“Perché adesso sei arrabbiato con lei?”

“Perché soffre per qualcuno che nemmeno conosceva davvero!” Sbottò Jean. “E tu? Sei sul punto di crollare. Mikasa sta dormendo? Allora fallo anche tu! Ne abbiamo già due di pazzi, Hanji è tanto così dal diventarlo e non voglio che tu sia il prossimo!”

“Sono qui perchè sono preoccupato per te,” disse Armin con la sua solita gentilezza. “Perché sono giorni che non parliamo. Perché so come sta Mikasa ma non so come stai tu.”

Jean lo guardò come se fosse stato coinvolto in una questione che non lo riguardava. “Io?” 

Lo sguardo di Armin si fece duro. “Hai detto che Mikasa non lo conosceva davvero, ma la ragione per cui questo è vero sei tu.”

Jean batté la nuca contro la testiera del letto una, due, tre volte. “Lo sapevo che eri venuto qui a parlare di questo.”

“Quindi avevo ragione?” L’espressione di Armin si addolcì. “Mi hai evitato per non doverne parlare?”

Jean puntò l’indice verso la porta. “Te ne puoi andare? A differenza tua, vorrei dormire.” S’infilò sotto le coperte e diede le spalle al compagno di squadra.

Armin non si mosse. “Hai pianto, Jean?” 

Il rombo di un tuono segnò una pausa netta tra quella domanda e la risposta di Jean. “Non ho motivo per farlo.”

“Ne hai una lunga lista, invece.”

“Non piangerò per lui, Armin,” disse fermamente. “Forse lo farò perché ho visto il mio Comandante divorare uno dei miei compagni, anche se era un traditore. Forse piangerò perché con Reiner ho esitato e ho quasi fatto uccidere Hanji nel processo. Piangerò perché Marlow era un soldato della Polizia Militare, aveva scelto per sé una vita al sicuro, quella che io avevo desiderato per me, prima che quel bastardo suicida mi conducesse all’inferno. Marlow è morto perché io l’ho convinto a seguire una strada diversa. Io sono vivo. Sarà per questo che piangerò, ma non per Eren!”

Un altro lampo attraversò il cielo scuro. 

Per un attimo, a Jean parve la luce veloce di un fuoco di artificio.

“Dimenticati di me, Jean.”

“Armin, te ne vuoi-“ 

Jean si voltò ma non c’era più nessuno seduto sul suo letto. La candela consumata a metà sul comodino era l’unica prova che Armin fosse stato lì per davvero.

Si lasciò ricadere sulla schiena con un sospiro stanco. 

I rumori del temporale divennero gli unici al mondo. Jean si concentrò su quelli, sulle gocce di pioggia che continuavano a battere contro la finestra e sperò che fosse sufficiente a sovrastare il frastuono dei suoi pensieri.



Plin-plin. Plin-plin.



Jean chiuse gli occhi.



Plin-plin. Plin-plin.



Nei giorni senza sole, il capanno nel bosco era l’unico posto che Jean conosceva per stare insieme a Eren. A lui non piaceva: troppo polveroso e non si vedevano le stelle.

Era giorno, però, la prima volta che ce lo portò.

Il cielo era plumbeo ma la luce era più chiara rispetto a quella lunare a cui erano abituati. Jean poteva vedere tutto e così Eren.

Senza l’oscurità a coprirli, i baci avevano un sapore più dolce. 

Fu la prima volta che si mostrarono completamente l’uno all’altro.

Erano già stati insieme senza vestiti ma non avevano mai perso tempo a guardarsi.

Lo fecero allora, esplorarono con gli occhi ciò che solo le mani avevano toccato. 

Non ebbero fretta, assaporarono ogni istante. L’aria divenne pregna del dolce profumo di Eren. Il profumo di un Omega che provava piacere.

Jean trovava assurdo il modo in cui si trasformava durante i loro giochi erotici. Per lui, Eren era come un mistero da svelare poco a poco ma ogni volta che credeva di aver fatto un passo in avanti, i loro momenti giungevano al termine e tornavano ad essere soltanto quelli che erano. 

Uno, il ragazzo che avrebbe servito il Re, conducendo una vita sicura - da codardo.

L’altro, troppo irrequieto, ossessionato da un’illusoria libertà nascosta alla fine di una guerra inutile - un suicida.

Erano troppo diversi perché finisse bene.



Plin-plin. Plin-plin.



Nemmeno dopo aver scelto la stessa strada erano riusciti a restare insieme.



Plin-plin. Plin-plin.





“Strange how we fit each other. Strange how certain the journey. Time unfolds the petals for our eyes to see. Strange how this journey's hurting. In ways we accept as part of fate's decree…”

“Giocare alla casalinga ti mette allegria, vedo. Il Capitano ti ha insegnato a cantare oltre a fare le pulizie? Da dove viene questo inno alla tristezza?”

Una scrollata di spalle.

“Non me lo ricordo. Ogni tanto mi torna in mente.”

“Te la cantava tua ma-? Ahi!”

Sangue. 

Si era tagliato.

“Fammi vedere.”

Era abituato alle sue mani, a farsi toccare da lui. Si rese conto che gli era mancato.

“Dove sono gli altri?” 

“Fuori…”

Un sorriso complice. “Quindi siamo soli.”

Solo una volta erano stati insieme su di un vero letto ed era piaciuto a tutti e due. Le camere al piano di sopra erano pronte. Si portò la sua mano alle labbra. Sì, gli era mancato. Forse avrebbe dovuto dirlo ad alta voce.

“Ricordi che cosa sono?”

Un avvertimento o una minaccia? O fu una prova? 

Non la superò. Fu il primo ad allontanarsi, lo lasciò andare.

Quegli occhi dal colore impossibile lasciarono i suoi. “Sì, te lo ricordi.”




Plin-plin. Plin-plin.



Un tuono squarciò il cielo e colpì la terra da qualche parte vicino al castello.

Jean si svegliò col respiro spezzato, il petto nudo madido di sudore.

”Jean…”

Una mano gli tirò indietro la frangia umida non troppo gentilmente. Qualcuno si mosse sotto le coperte, accanto a lui.

“Hai paura del temporale o hai fatto un brutto sogno?”

Jean non era mai stato tanto felice di udire quella voce derisoria da stronzetto. Jean chiuse gli occhi, prese un respiro profondo e cercò la mano che ancora era tra i suoi capelli. Quando la trovò, intrecciò le dita a quelle di Eren e se la portò alle labbra.

Una risatina dalle sfumature diaboliche. “È stato così terribile?”

“Ho sognato che eri morto,” raccontò Jean, a pochi millimetri dal dorso di quella mano più piccola della sua ma immensamente più forte. “Ho sognato che non tornavi dalla battaglia di Shiganshina.”

Eren liberò le dita dalle sue e si spostò su di lui. Non appena vide quella faccia da schiaffi e quegli occhi dal colore impossibile, Jean tornò a respirare.

“Credere di avermi perso ti ha spaventato così tanto?” Domandò, sarcastico.

Ci mancò poco che Jean lo buttasse giù dal letto per la frustrazione. “Puoi smetterla di prendermi per il culo per cinque minuti?”

“E chi ti ha detto che lo stavo facendo?” 

Jean lo afferrò per i fianchi e si sollevò a sedere. “Non mi fido di te.”

Eren ridacchiò, poggiando le mani sulle sue spalle. “Pensavo mi avessi seguito fino alla Legione Esplorativa per riporre in me tutta la tua fiducia.”

“Come soldato,” chiarì Jean. “Come uomo, la situazione è un tantino diversa.”

Il ghignetto derisorio sulle labbra di Eren divenne una linea dura. “Al soldato non importa che io sia un mostro,” disse. “All’uomo?”

Era una domanda legittima. Jean lo aveva già rifiutato una volta per il mostro che Eren nascondeva sotto la pelle. “Tu mi hai allontanato decine di volte solo per capriccio,” gli ricordò e fu ipocrita da parte sua.

“Un capriccio non può fare male quanto il disgusto.”

“Non ho mai provato disgusto per te.”

“Hai smesso di toccarmi, di cercarmi…”

“Non ci siamo mai promessi niente, io e te!” Gli ricordò Jean. “Una volta ho provato a darti qualcosa e non mi hai voluto.”

“Sotto i fuochi d’artificio?” Domandò Eren. “Quando mi hai proposto di vivere una vita in gabbia?”

“Una vita sicura, con me.”

Gli occhi di Eren si fecero tristi. “Quella notte, non hai parlato così.”

“Che cosa volevi che ti dicessi?” 

“Quello che provavi,” rispose Eren. “Volevo che fossi sincero con me.”

Jean strinse le labbra fino a farle diventare una linea sottile. Prese il viso dell’altro tra le mani e si perse in quegli occhi grandi - alla luce della luna sembravano quasi blu. “Sarebbe cambiato qualcosa?” Domandò, mentre un nodo gli stringeva la gola. “Se ti avessi aperto il mio cuore, avresti fatto un passo indietro per me?”

Eren non rispose. Prese le sue mani e le allontanò da sé. “Non ha più importanza,” disse, alzandosi dal letto. 

Gli lanciò un’ultima occhiata triste, di quelle che avevano il potere di far sentire Jean in colpa anche per una piccola sciocchezza. “Tutto quello che era per noi ora è passato.”

Uscì dalla stanza senza far rumore.

Jean impiegò il tempo di un respiro a decidere di seguirlo. “Eren?” Recuperò i vestiti da terra e se li infilò alla male e peggio. “Eren!” Tuonò, spalancando la porta.

Ma non fu l’Ultima Speranza dell’Umanità quella che si ritrovò davanti, bensì la ragazza per cui aveva avuto una cotta all’inizio della sua adolescenza. “Mikasa?”

I grandi occhi scuri di lei lo fissarono per un lungo minuto di silenzio. “Stavi sognando…” Non era una domanda.

“Sono sveglio,” ribatté Jean.

Mikasa si umettò le labbra. “Hai spalancato la porta chiamando il nome di Eren, te ne sei reso conto?”

Sì, se ne era reso conto. “Che cosa ci fai qui?” Domandò Jean, per nulla intenzionato ad affrontare la questione del suo stato mentale.

Mikasa era vestita solo della sua camicia da notte, i piedi erano scalzi e i capelli corvini in disordine. Jean non l’aveva mai vista così umana.

“Sta albeggiando,” rispose lei. “La medicina di Hanji ha finito il suo effetto.”

“Armin?” 

“Crollato…”

“Meglio così,” concluse Jean, voltandosi. “Torna a letto, Mikasa. Sta per iniziare un’altra giornata molto lunga.”

“Aspetta…” Mikasa gli impedì di chiudere la porta. “Volevo parlarti”

Jean inarcò le sopracciglia. “All’alba?” 

“Siamo svegli entrambi,” notò lei.

Il soldato prese un respiro profondo e cercò alla svelta una scusa per levarsela di torno. “Appena Hanji si sveglierà, firmerà altre decine di lettere di condoglianze per i nostri compagni caduti e toccherà a me consegnarle. Ormai si sarà sparsa la voce su quanto sia macchiata di sangue l’epica vittoria della Legione Esplorativa e le strade pulluleranno di gente scontenta. Mi piacerebbe affrontare tutto questo con qualche ora di sonno in più, se non ti dispiac-“

Si voltò e fece per chiuderle la porta in faccia ma Mikasa era sempre stata la più forte di loro, compresi i ragazzi. 

“Non trattarmi come una stupida, Jean,” sibilò lei.

Lui si rifiutò di guardarla. “Non so di cosa stai parlando.”

“Di qualunque cosa tu e Armin continuate a tenere nascosta,” disse Mikasa e il tono della sua voce lo sfidava a negare il contrario. 

Jean, però, aveva visto la morte in faccia troppe volte per lasciare che lei lo mettesse ancora in soggezione. “Siamo due amici in un periodo di merda. Non so se lo hai notato ma non siamo rimasti in molti.”

Un lampo di rabbia illuminò i suoi occhi scuri. Jean non la stava provocando per nulla: voleva sentirla disperarsi per Eren, voleva che mettesse il suo dolore al di sopra del suo e di quello di chiunque altro. Mikasa era brava a essere egoista e Jean aveva bisogno di fare male a qualcuno per dimenticare quanto ne sentiva lui.

“Quello di poco fa era un sogno lucido,” disse lei con voce sorprendentemente calma. “Li ho avuti anche io. Ho parlato con lui come se fosse qui. Hanji dice che è una reazione comune a un evento traumatico.”

“Adesso la ascolti?” 

“Perché continui a provocarmi?”

“Perché voglio tornare a letto!” Jean si allontanò dalla porta. Era inutile cercare di buttarla fuori, così la fece entrare e aspettò che fosse lei a chiuderla. Il cielo fuori dalla finestra stava divenendo più chiaro ma era ancora coperto di nuvole. 

Li attendeva un altro giorno di pioggia.

“Armin è preoccupato per te,” disse Mikasa.

“Sì, è passato prima a dirmelo.” Jean si lasciò cadere seduto in fondo al letto con un sospiro esasperato, chinando la testa. “Siete entrambi distrutti. Dove lo trovate il tempo di essere ansiosi anche per me?”

Mikasa si sedette sul bordo del materasso ma tenne una debita distanza. “Armin si sente in dovere di darti appoggio e lo fa con tanta insistenza da essere sospetto.”

Jean alzò gli occhi al cielo. “Non era mio fratello e quindi non devo provare niente?”

“Non ho detto questo.”

“Allora che cosa stai cercando nella mia stanza alle prima luci del giorno, Mikasa?” 

Jean sentì gli occhi di lei contro la schiena. Era come se le stesse puntando addosso una delle lame del 3DMG. 

“Quando Grisha mi ha portato a casa, non sapevo nemmeno che cosa fosse un Omega,” confessò Mikasa. “I miei sono sempre vissuti isolati per via di mia madre e della sua diversità. Era più sicuro non avere attorno troppe persone. Non mi avevano educato a… Grisha è riuscito a catalogarmi prima che-“

“Perché mi stai raccontando tutto questo?” Jean le lanciò un’occhiata da sopra la spalla.

“Eren detestava quello che era,” proseguì Mikasa. “Vedeva la sua natura come un intralcio al suo obiettivo di divenire un soldato.”

Jean già conosceva quei dettagli di Eren: gli erano stati urlati addosso tra un litigio e un altro. 

“All’interno della squadra, però, non si è mai sentito giudicato per quello che era,” aggiunse Mikasa. “Stava bene con voi.”

Nessuno in tutto il campo di addestramento si sarebbe sognato di prendersi gioco di Eren. Forse Mikasa non sapeva - grazie ad Armin - che qualcuno ci aveva provato ed era finito con la faccia spaccata. Inoltre, bisognava essere bastardi forti per mettersi a giudicare un orfano della tragedia di Shiganshina. Nonostante il loro rapporto turbolento, Jean non si era mai sognato di usare il passato di Eren o la sua natura contro di lui. Lo stronzetto era bravo a offrirgli decine e decine di altre ragioni per insultarlo.

“Tranne che con te,” concluse Mikasa con una nota sospettosa nella voce che fece venir voglia al ragazzo di sbattere la testa contro il muro.

“E cosa c’è di segreto in questo?” Domandò Jean con stanco sarcasmo. La sentì muoversi per farsi più vicina e fu costretto a voltarsi per assicurarsi che non avesse intenzioni minacciose. Se, al tempo dell’addestramento, Mikasa fosse venuta a sapere che Jean Kirshtein aveva libero accesso alle mutande del suo Eren, non sarebbe bastato il Comandante Shadis a salvargli la testa.

“Tu eri diverso da tutti gli altri.” Gli occhi scuri di lei erano penetranti mentre lo studiavano. “Sì, Eren poteva essere più legato a Reiner che a Connie, ma il rapporto che aveva con te non era paragonabile a quello con nessun altro. Non si arrabbiava con nessuno nel modo in cui lo faceva con te. Non ha mai giudicato Marco per desiderare di essere un soldato del Re, eppure gli dava fastidio che tu volessi entrare nella Polizia Militare a tutti i costi.”

“Era solo rivalità adolescenziale, Mikasa.” A sentire Jean, sembrava essere successo tutto in una vita passata. “Volevamo essere l’uno meglio dell’altro per dimostrare… Non lo so, la nostra virilità? Cose idiote! Le nostre sfide erano senza senso: non eravamo destinati a percorrere le stesse strade.”

Mikasa non prese per vera la leggerezza delle sue parole. “Ha litigato con te anche la notte prima di partire per Shiganshina.”

Sì, e il Capitano le aveva suonate a entrambi di santa ragione.

“Tutto quello che è successo dal tradimento di Reiner e Berthold non gli è scivolato addosso,” aggiunse Mikasa. “E dopo quello che è accadut in quella caverna con Historia-“

“C’ero anche io,” le ricordò Jean.

“Eppure, quando ha litigato con te, per un istante è stato come se non gli fosse successo niente. Per cosa stavate litigando?”

Jean scrollò le spalle. “Non me lo ricordo. Qualcosa di stupido.”

Era sempre qualcosa di stupido.

Mikasa annuì. “Le cose stupide sono innocenti.”

Jean storse la bocca in una smorfia. “E questa dove l’hai sentita?”

“Eren poteva ancora permettersi di essere stupido con te,” concluse Mikasa. “Con la consapevolezza di aver divorato suo padre, Eren è riuscito a essere solo un quindicenne stupido con te.”

Jean si prese la testa tra le mani e fissò gli occhi sul pavimento di pietra. “Quella notte eravamo tutti stupidi,” disse e ripensò alla sigaretta che aveva rubato da uno dei ragazzi più grandi, a Eren che lo sorprendeva nel vicolo accanto alla locanda per chiedergli di fare l’amore almeno una volta, prima di morire. “Nessuno è davvero pronto alla possibilità di non tornare indietro. Offrire i nostri cuori? Stronzate… Vorrei sapere se il Comandante ci crede ancora. Ah, no, lui adesso è troppo occupato a scappare dalla cruda realtà per fare discorsi eroici del cazzo! Dovevo saperlo fin dall’inizio: Erwin parlava ed era come sentire una versione adulta di Eren. Tutte quelle stronzate sulla verità, la libertà e il mondo che è stato sottratto all’Umanità!” Si alzò in piedi, troppo fuori di sé per restare fermo. “Eren non faceva che ripeterlo e mi faceva diventare matto. Non sentiva ragioni! Per lui, l’unico modo per dare senso alla sua vita era cavalcare verso un orizzonte sconosciuto, incontro alla morte. Poteva avere tutto! Tutto! Aveva la testardaggine giusta per essere un vincente e anche la forza, sì, cazzo, anche quella! Al posto suo, saremmo impazziti tutti molto tempo fa!” Appoggiò la schiena all’armadio e fissò un punto qualunque della stanza pur di non incontrare gli occhi di Mikasa. “Ma Eren voleva rimediare a tutti i mali del mondo, no? Sono poche le persone che vogliono davvero cambiare le cose e ancor meno quelle con il potere di farlo. Levi ce l’aveva. Eren ce l’aveva. La loro vita è stato il prezzo da pagare per riavere il Muro Maria e io non posso fare a meno di chiedermi se ne sia valsa la pena!” Jean si lasciò scivolare lungo l’anta di legno fino a ritrovarsi seduto per terra. “Morire a quindici anni per dare un’ultima, fottuta, speranza all’Umanità. Vorrei trovarlo eroico. Vorrei trovarlo onorevole. Vorrei…” 

Vorrei avergli detto quello che provavo prima che fosse troppo tardi.

”Non mi avresti fermato,” disse il fantasma di Eren nella sua testa. ”Quando mi hai baciato la prima, ero già quello che ero, Jean… Solo che non lo sapevamo. Non potevi salvarmi neanche allora.”

“Jean…”

Quando il soldato sollevò lo sguardo, per un attimo temette - o sperò - di rivedere quegli occhi verdi dalle sfumature bluastre. Eren non era lì. Eren non era più da nessuna parte. 

Mikasa, invece, si era inginocchiata sul pavimento, di fronte a lui. I suoi occhi erano due pozzi scuri ricolmi di lacrime. “Gli hai voluto bene?”

Quella domanda fu il colpo che ridusse il cuore di Jean a pezzi. “Dovresti prendermi a calci, non farmi queste domande idiote,” disse Jean con voce tremante, coprendosi gli occhi con una mano. “Dovresti volermi uccidere perché l’ho toccato, e non preoccuparti del perché lo facevo.”

Mikasa si morse il labbro inferiore e inspirò profondamente dal naso. “Gli volevi bene?” 

Jean rivide il viso di Eren che lo guardava dal basso - gli era sempre piaciuta la loro differenza d’altezza - le labbra imbronciate che attiravano baci e lo sguardo scontroso di quegli occhi dal colore impossibile. Quando sollevò lo sguardo su Mikasa, piangevano entrambi. “Io…” Mormorò con voce rotta. “Eren era-“

“Ti ho detto di andartene, Nile! Vattene!”

Sobbalzarono entrambi.

“Era la voce di Hanji,” disse Mikasa, alzandosi in piedi. “È al piano di sotto.”

Nile. Nile Dawk era lì.

Jean si alzò in piedi velocemente. “Maledizione…”



Nile Dawk non era una cattiva persona.

A quindici anni era entrato nella Polizia Militare con le migliori intenzioni. Non si era spaccato la schiena durante gli anni di addestramento solo per avere una vita comoda nelle mura interne. Sì, un futuro sicuro aveva fatto parte dei suoi piani fin dall’inizio, ma anche combattere la corruzione del governo interno per assicurare ai cittadini giustizia e protezione.

Era divenuto Comandante per un colpo di fortuna - il suo predecessore era morto prematuramente in circostanze misteriose - ma aveva reso onore a quel titolo come non succedeva da generazioni. Nile era un uomo rispettato, onesto. Era un soldato che credeva nella causa per cui combatteva, leale al suo Re e alla sua gente.

Con il suo colpo di stato, Erwin Smith aveva trasformato il suo mondo in un castello di carte e lo aveva abbattuto senza alcuno sforzo. Una parte di Nile gli era grata per questo, per avergli aperto gli occhi e averlo liberato dalla ragnatela di menzogne in cui la nobiltà aveva imprigionato lui e tutti gli altri.

L’altra, invece, lo detestava. Con la sua folle corsa verso la verità, Erwin Smith aveva reso inutili tutti gli sforzi della sua vita. 

Tuttavia, quando Historia gli aveva raccontato quello che ne era stato della Legione Esplorativa a Shiganshina, Nile aveva messo da parte tutto quel rancore in un battito di ciglia.

Per questo aveva ignorato le parole di Jean Kirshtein e, a otto giorni dalla riconquista del Muro Maria, aveva deciso di affrontare Hanji Zoe.

“Il sole non ha ancora tagliato l’orizzonte,” disse la Capo Squadra, gelida. “Tua moglie non si chiede dove passi le tue notti?”

Quando Nile l’aveva conosciuta, Hanji Zoe era solo una ragazzina stramba con troppe rotelle fuori posto per conquistarsi un posto nel mondo. Non l’aveva mai vista arrabbiata. A dire il vero, non ricordava di averla mai vista seria.

“Ho una moglie comprensiva,” fu la sua risposta.

“Peccato, io non lo sono affatto,” replicò Hanji. “Sei entrato senza permesso, penso che tu conosca la strada per andartene.”

Nile alzò gli occhi al cielo. “Ho trovato la porta sul retro aperta.”

“Da quando una porta aperta è automaticamente un invito ad entrare?” 

“Smettila di fare la stupida e insegna ai tuoi ragazzi a chiudere, prima di andare a dormire!”

Sì, la condotta di Nile non era stata delle migliori. Era entrato senza bussare, senza annunciarsi ed era semplicemente inciampato nella Capo Squadra mentre attraversava la cucina di soppiatto. 

“Volevi introdurti furtivamente nella stanza di Erwin senza farti vedere?” Domandò Hanji, portandosi una mano al viso per aggiustarsi gli occhiali che non erano al loro posto. Nile si rese conto solo in quel momento che non li indossava e che una fasciatura le ricopriva la parte sinistra del viso. “Come sta il tuo occhio?”

“Andato.”

“Mi dispiace.”

“Non è la cosa peggiore che sia successa negli ultimi giorni.” Hanji diede le spalle all’ospite indesiderato, recuperò un pentolino dal lavandino e aprì il rubinetto per riempirlo. “Ma se sei qui, vuol dire che già lo sai.”

Era il motivo per cui Nile si era spinto a entrare in quel quartier generale di soppiatto come un ladro. “Come sta?” 

Domanda sbagliata.

Il pentolino scivolò dalle dita di Hanji e il contenuto si rovesciò nel lavandino. L’acqua continuò a scorrere dal rubinetto. “Come sta?” La Capo Squadra si aggrappò al bordo di acciaio. “Sei venuto fino per chiedermi come sta?”

Nile boccheggiò, pensò a un modo per rimediare ma non trovò le parole giuste.

“Tu lo hai mai capito?” Domandò Hanji a bruciapelo.

Il Comandante della Polizia Militare non aveva bisogno di riflettere sulla risposta: “no.”

Erwin Smith non era mai stato un essere comprensibile per lui. Durante la loro adolescenza c’erano stati momenti in cui Nile aveva dubitato della lucidità del suo amico d’infanzia. 

Da sempre, Erwin aveva una visione del mondo che Nile non solo non condivideva  ma che considerava folle. 

Hanji sollevò l’unico occhio sano sul suo viso. “Nemmeno io,” ammise con voce tremante. “C’è sempre stata della comprensione tra noi due, certo. Erwin è stato il primo ad accettarmi per quella che sono, il solo che ha speso notti e notti insonni ad ascoltarmi parlare delle mie teorie, delle mie idee. Non ricordo quando, ma a un certo punto ho capito che di quel ragazzo mi potevo fidare e mi sono sentita a casa. Erwin mi ha fatto sentire a casa.”

Nile non fu felice di rendersi conto che non aveva idea di quello che gli stava dicendo: conosceva Erwin da tutta la vita e non aveva mai provato quel senso di familiarità e appartenenza che gli stava descrivendo la Capo Squadra.

“Si è mai confidato con te?” Domandò Hanji, non più spigolosa come poco prima.

Nile scrollò le spalle. “Forse da bambini,” rispose. “Negli anni dell’addestramento abbiamo avuto conversazioni che hanno fatto sentire frustrati tutti e due. Alla fine, quella nostra incapacità di comunicare ci ha fatti allontanare.”

Hanji chiuse il rubinetto ma non recuperò il pentolino dal lavandino. Nile dedusse che doveva esserle passata la voglia di bere alcunché. “Prima del caso Lebov, con me lo faceva sporadicamente,” raccontò. “Dopo di quello, è divenuta una cosa quotidiana. Era quasi come un rapporto a fine giornata, ma Erwin non parlava mai di se stesso.” Sorrise con nostalgia, mentre appoggiava la schiena al bordo del lavandino. “Un bel giorno, abbiamo smesso di parlare di Titani per tutta la notte e abbiamo cominciato a parlare di lui.”

Lui. Se la situazione non fosse stata drammatica, Nile avrebbe alzato gli occhi al cielo con fare esasperato.

“Un’intera notte non era sufficiente quando cominciavamo a parlare di Levi,” disse Hanji. “Ha avuto un potere su di noi che… No, non credo ne sia mai stato consapevole.” Si umettò le labbra. “Quando è arrivato, è cambiato tutto. Siamo cambiati noi. Levi è-“ Si morse il labbro inferiore. “Era quello di cui Erwin ha sempre avuto bisogno senza saperlo. Era il solo a riuscire a capirlo in ogni sua sfumatura, anche la più oscura. Perciò, Nile, non chiedermi come sta.” Le sfuggì un singhiozzo. “Ha perso l’unica persona con cui riusciva a essere se stesso, come vuoi che stia?” Concluse con voce rotta, stridula.

Nile strinse i pugni e si costrinse a ingoiare il senso di vergogna che gli stava chiudendo la gola. 

“Capo Squadra?” Jean Kirshtein entrò dalla porta in quel momento, seguito da Mikasa Ackerman. Mentre quest’ultima si avvicinava alla superiore, il ragazzo fulminò il Comandante con uno sguardo. “Le avevo detto di non venire!”

“Jean,” lo rimproverò Hanji, mentre stringeva la spalla di Mikasa per assicurarle che stava bene. “Vi abbiamo insegnato il rispetto per i superiori, mi pare.”

Jean strinse i pugni, abbassò lo sguardo ma non chiese scusa.

Nile decise di lasciar correre la cosa. “Voglio parlare con Erwin, Hanji.”

Lei storse la bocca in una smorfia. “Sarà meglio che tu vada, Nile.”

“Hanji, in qualunque stato versi, non può starsene rintanato in questo castello per sempre.”

“Pensi che non glielo abbia detto?” La Capo Squadra stava perdendo la pazienza. “Pensi che non abbia passato gli ultimi otto giorni a cercare di ottenere una reazione da lui? Brutte notizie: Erwin Smith crede di essere il solo ad aver perso qualcosa di vitale a Shiganshina perchè, in fondo, non è altro che l’egoista bastardo che conosci benissimo anche tu, Nile!”

Jean e Mikasa si scambiarono un’occhiata attraverso la stanza. 

Il Comandante della Polizia Militare si ritrovò senza parole ancora una volta. Se Hanji provava tanta rabbia verso l’uomo che - parole sue - l’aveva fatta sentire a casa, non credeva di avere abbastanza coraggio per affrontare l’Erwin Smith che era tornato da Shiganshina.

“Prometti di tenermi informato,” disse, allora. “Se non vuoi farlo tu, manda Jean a palazzo. Historia farà il possibile perché siate lasciati in pace ma non isolatevi.”

Suo malgrado, Hanji annuì. “Ora vattene, per favore.”

Nile annuì e si voltò. Fu un pensiero improvviso a spingerlo a cercare di nuovo gli occhi della Capo Squadra. 

“Che altro c’è?” Domandò Hanji stancamente.

Nile ingoiò a vuoto. “Che cosa devo dire al prigioniero?”

Da principio, Jean non capì di chi il Comandante stava parlando. Cercò lo sguardo di Mikasa ma lei parve confusa quanto lui.

Hanji sbuffò. “Non ho tempo di pensare a quello lì.”

Quello lì,” replicò Nile, “sta trasformando la prigione centrale nel suo inferno personale perché gli è giunta voce che il Muro Maria è stato riconquistato ma non si sa nulla di come è andata la vicenda.”

Hanji lo inchiodò con l’unico occhio che aveva. “Ora tu lo sai come è andata la faccenda,” gli ricordò. “Abbi le palle di guardarlo negli occhi e dirgli come sono andate le cose.”

Nile si sentì offeso nell’onore e fece per risponderle a tono, poi immaginò se stesso nella cella del prigioniero mentre gli comunicava che l’unico membro della sua famiglia era caduto in battaglia. “Non so se voglio morire per una cosa del genere,” ammise.

Fu allora che Jean comprese. “Il Capitano Ackerman,” disse. “È di lui che state parlando, vero?”

Mikasa strinse i pugni. “Quell’uomo ha rapito Eren e Historia. Non merita di sapere nulla da noi.”

Hanji incrociò le braccia. “Sono d’accordo con lei.”

Nile sospirò. “No, signore, siete solo arrabbiate. Ciò non cambia che quell’uomo è un parente a cui spetta una lettera di condoglianze!”

Lo sguardo di Jean saettò su Hanji. “Io non vado alla prigione centrale a consegnarla.”

Hanji fece un gesto con la sua mano come a dirgli di lasciar perdere. “Non spreco carta e inchiostro per l’assassino del secolo. Se Nile non ha le palle di dirgli nulla, allora aspetterà che siano le voci di corridoio a informarlo.”

“Glielo dico io…” Intervenne una voce che sembrava provenire da un altro mondo.

Jean trasalì e si voltò di scatto.

Erwin Smith era lì, sulla porta della cucina. Indossava la divisa delle Ali della Libertà come sempre, ma i capelli biondi erano in disordine e sembrava non aver toccato un rasoio nell’ultima settimana. Era vivo, eppure sembrava un fantasma.

“Comandante…” Disse Jean con un filo di voce, terrorizzato dal vedere quell’uomo tanto imperturbabile ridotto in pezzi.

“Erwin…” Gli fece eco Nile e i suoi occhi caddero immediatamente sul dettaglio che più di ogni altro strideva come una nota stonata. “Il tuo braccio… Erwin, il tuo braccio…”

Erwin Smith abbassò lo sguardo, quasi si fosse dimenticato che il suo braccio destro era di nuovo lì. “Sarò io a raccontare tutto al Capitano Ackerman. Si tratta di una responsabilità.”

Alla parola responsabilità, Hanji distolse lo sguardo, infuriata.

Nile non udì nemmeno una parola. “Il tuo braccio!” Continuò, quasi urlando. “Il tuo braccio!”

Ci mancò poco che Jean si voltasse e gli intimasse di chiudere la bocca. Nile Dawk sapeva del siero che Kenny Ackerman aveva consegnato al Capitano Levi, sapeva che sarebbe stato usato durante la battaglia per assicurare alla loro fazione il potere di un altro Titano. Lo sapeva. Tutte le autorità all’interno delle mura erano state informate di quel piano. 

Era stato il destino a decidere che quell’idea si concretizzasse attraverso Erwin Smith.

Quella reazione isterica da parte di Nile era completamente fuori luogo.

Il Comandante della Legione Esplorativa - anche se Jean dubitava che stesse guardando in faccia lo stesso uomo che aveva conosciuto la notte della cerimonia di assegnazione - si staccò dallo stipite della porta e attraversò la stanza in pochi passi.

“Puoi accompagnarmi alla prigione centrale?” Chiese al suo tremante amico d’infanzia. “Possiamo essere discreti? Vorrei evitare di essere visto.”

Nile annuì, la bocca spalancata in un’espressione terribilmente ebete. Assomigliava a un pesce fuor d’acqua. “Se-Seguimi…”

Prima di farlo, Erwin cercò lo sguardo della sua Capo Squadra. “Hanji-“

“Fai quello che devi fare,” disse lei, secca, evitando di guardarlo. 

Erwin strinse le labbra e annuì.

Jean fissò la sua schiena fino a che non sparì oltre la porta.

Fuori pioveva ancora.


 
   
 
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