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Autore: _Lisbeth_    04/08/2019    2 recensioni
Dal prologo:
"- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute."
"Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico."
"- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jacob Kiszka, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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 - Tutto ciò di cui avevo bisogno era sentirmi capita da lei. Era la ragazza della mia vita, capisce? E invece mi sono vista voltare le spalle in quel modo, ed è una cosa che mi ha completamente devastata. Mi ha buttata giù.
Seduta sulla sedia rossa al centro della camera, con il viso per metà illuminato dalla forte luce del tramonto, la ragazza dai lunghi capelli biondi si stava mangiando quasi compulsivamente le unghie. Aveva parlato senza sosta, ma con una calma e una pacatezza che avevano quasi stupito la ragazza piegata sulle proprie ginocchia con una mano a sorreggere il mento. Il nome della ragazza, che era lì dentro con la giovane e con la sua superiore da un'ora scarsa, era Mary.
Durante le sedute a cui Tracy aveva assistito nel corso del suo tirocinio, le era capitato spesso di vedere quella stessa calma negli occhi dei pazienti della dottoressa Warren. Forse era una voglia di capire, una propensione al ragionamento e alla razionalità. Però, nel sentire ciò per cui la ragazza si stava sfogando, le sembrava quasi impossibile poter rimanere così tranquilli nel raccontare e nel ricordare.
Danielle Warren, prima di una seduta, le aveva parlato delle reazioni diverse di ogni persona davanti ad una delusione o una sconfitta o, al contrario, qualcosa di bello. In base al proprio carattere c'era una reazione, un modo di affrontare lo sconforto o il piacere. Per quanto questo le era potuto sembrare inizialmente ovvio, in quel momento si stava impegnando per cercare di immedesimarsi nella calma di quella ragazza, anche se le sembrava qualcosa di quasi impossibile.
Danielle annuì leggermente, facendo oscillare i riccioli biondi sulle spalle e tenendo gli occhi azzurri fissi in quelli color nocciola della giovane paziente. Fece un respiro profondo e incrociò le dita della mano sinistra con quelle della destra. - Hai chiesto spiegazioni a Clare, a riguardo?
- Sì, certo. Ha semplicemente detto di aver capito di non provare nulla per le ragazze. Ma non capisco per quale motivo, allora, la nostra relazione sia andata avanti per quasi tre anni. E mi sarebbe anche andato bene, se lei mi avesse semplicemente lasciata. Mi sono sentita presa in giro... Tradita, in ogni senso della parola. - sospirò Mary.
Tracy percepì la delusione e l'amarezza nel tono della ragazza. Si sistemò la treccia bruna che le cadeva dietro alle spalle e tossicchiò.
- E tu le hai confessato i sentimenti che provavi? - domandò la dottoressa Warren dalla scrivania.
La ragazza dai capelli biondi alzò le spalle. - No. Non ne ho avuto modo.
- Non vi siete più parlate da quel momento?
- No. Non ci siamo più viste.
L'orologio al polso della ragazza squillò per pochi secondi, segno che erano appena scoccate le diciannove. Mary sobbalzò sulla sedia e diede uno sguardo al dispositivo. - Oh, mamma. Non mi ero minimamente accorta del tempo che passava. Devo aver parlato davvero tanto.
Danielle sorrise. - Non c'è problema.
Anche a Tracy scappò un sorriso sincero. Quella ragazza sembrava così diversa da qualunque altra persona che le era capitato di conoscere, con quei modi di fare leggermente goffi e timidi, quel modo di parlare tutto suo. Mary si allungò a stringere la mano alla dottoressa Warren, ringraziandola un paio di volte. Si voltò poi verso il divanetto azzurro sulla destra, quello su cui Tracy era seduta. La tirocinante si alzò in piedi, strinse a sua volta la mano che la ragazza aveva allungato verso di lei.
- In bocca al lupo. - mormorò Mary, mostrando un sorriso sdentato. Tracy la salutò ricambiando il sorriso e subito dopo la vide uscire dallo studio con un'espressione un po' più serena.
- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute.
Tracy sussultò. – Come?
- Già. - sorrise la dottoressa.
La ragazza restò per un attimo immobile, senza reagire o proferire parola. Sarebbe stata la sua prima seduta singola in assoluto, e si chiese se sarebbe stata abbastanza brava da poterla gestire al meglio. All'idea era felicissima, nonostante fosse anche parecchio agitata. - Davvero?
- Esatto.
- Qui? A che ora?
- Sì, in questo studio, alle dieci e mezza. Hai ascoltato tante sedute, sei qualificata e hai studiato tanto per raggiungere il tuo obbiettivo.
Tracy sorrise. - É una bella soddisfazione.
 
 
- Vuoi una mano per studiare, stasera? – domandò Maggie da dietro alla sua ciotola d’insalata. Tracy scrollò le spalle alla domanda della coinquilina e bevve un sorso d’acqua dal proprio bicchiere.  – Non preoccuparti. So che tra tre giorni dovrai tenere il tuo, d’esame. Non voglio crearti ulteriori problemi.
Maggie Richards aveva ventidue anni, frequentava la facoltà di biologia di Detroit e condivideva con Tracy quel piccolo appartamento a Frankenmuth che avevano preso in affitto, in cui alloggiava già da tre mesi prima dell’arrivo della studentessa di psicologia. Appena la ragazza era arrivata con tutte le sue valigie, due anni prima, Maggie l’aveva accolta con un calore e una solarità che avevano messo subito a suo agio Tracy.
- Non preoccuparti. Tanto devo restare sveglia comunque. – Maggie fece un rapido gesto con la mano, come a voler scacciare una mosca che le girava intorno.
- Perché?
- Perché oggi c’è la luna piena.
Tracy sorrise scuotendo la testa. Si era sempre chiesta, dato l’amore e l’interesse che Maggie nutriva per le stelle e per l’Universo, per quale motivo la ragazza non avesse deciso di studiare astronomia. Un giorno gliel’aveva chiesto e lei si era limitata ad alzare le spalle e sospirare.
“Ti sembrerà strano, ma ho sempre preferito la biologia. Nonostante ci sia tanta chimica di mezzo.”, le aveva detto subito dopo.
- Allora? – riprese la ragazza, guardando Tracy negli occhi. – Vuoi una mano?
- Sei sicura di ciò che dici?
- Completamente! – esordì Maggie, prendendo i piatti sporchi e appoggiandoli nel lavandino. – E’ un esame importante quanto il mio.
A Tracy scappò una risata sincera. – Appunto, non è che vuoi concentrarti di più sul tuo?
- Il tuo è domani!
La studentessa di psicologia annuì, il sorriso che continuava ad incresparle le labbra. – D’accordo. Ma se t’incanti a guardare la luna mentre ripeto, ti ci spedisco senza casco e tuta.
 
 
Tracy non ci voleva credere. In quel momento, con lo sguardo puntato sulla strada e il piede premuto sull’acceleratore, aveva quasi voglia di tornarsene indietro e tornare ai suoi sonni interrotti. E invece quella cretina della sua migliore amica aveva deciso bene di chiamarla nello stesso esatto momento in cui lei era riuscita a prendere sonno. Si appuntò mentalmente di essere meno magnanima per tutte le volte a seguire.
Tra tutti i locali di Detroit, tra l’altro, l’idiota doveva proprio andarsi a ficcare in quello che era di gran lunga il peggiore, il “Throne”. Che di regale aveva solo il nome. La topaia era in fondo ad un lungo viale buio di March Street, l’insegna cadeva a pezzi e la puzza di alcool e sudore si riusciva a sentire anche a svariati metri di distanza.
Tracy parcheggiò proprio di fronte al locale, sbattendo la portella una volta uscita dalla macchina. Ripetendosi in testa l’infinita ramanzina che avrebbe fatto a Maggie mise piede in quel posto così piccolo e buio da sembrare la tana di una sola formica. La musica alta e improponibile le arrivò alle orecchie immediatamente. Due ragazzi vomitavano sull’uscio, un altro stava cercando di scendere dal tetto basso e inclinato. E, un paio di metri più avanti, Tracy riconobbe la figura minuta della sua coinquilina che, in piedi su un tavolino di legno, cantava (o strillava) una canzone da lei sconosciuta. Non appena Maggie si accorse della sua presenza la indicò e alzò gli occhi al cielo. – Eccola! E’ arrivata quella che mi rovinerà la festa! Cacciate quella pesantona astemia da questo locale strapieno di ubriachi tra cui me, Margareth Richards! 
Tracy respirò profondamente e si impose di restare calma. Le venne in mente Mary, la ragazza che era stata nello studio della dottoressa Wagner quella mattina. Avrebbe voluto avere la sua stessa tranquillità, in quel momento. Strinse i denti e lanciò un’occhiata alla ragazza sul tavolo. – In macchina. Adesso.
- Ecco, io lo sapevo che non avrei dovuto chiamarla. – Maggie si sbatté una mano sulla fronte e scosse la testa, saltando giù dalla sua postazione. Allargò le braccia e si rivolse a qualcuno che Tracy non riuscì ad individuare. – E’ stato bello conoscervi. Ora, però, devo proprio darmela a gambe.
La giovane psicologa afferrò il polso della ragazza, tirandola a sé e ottenendo un’imprecazione ben poco fine in risposta. La trascinò fuori dal locale, fermandosi di fronte all’insegna e guardando l’amica in cagnesco.
Maggie sbuffò, aprì e chiuse la mano un paio di volte. – Ecco, ora mi devo subire la paternale.
- Non ti subirai nessuna paternale. Tanto a che serve? – Tracy scosse la testa. – Ti ho fatto tante di quelle paternali che…
Non riuscì a terminare la frase che vide Maggie piegarsi sulle ginocchia, riversando praticamente tutto il contenuto che aveva nello stomaco. Si impose di stare calma, e quando la vide risollevarsi notò il fatto che avesse alzato un dito, puntandolo in un punto non precisato della strada.
- Mi sa che quel tizio ha bisogno di una mano. – tossicchiò la ragazza. Tracy aggrottò la fronte e strinse gli occhi per riuscire a vedere, nel buio, anche la minima figura. Quando mise a fuoco notò un ragazzo riverso a terra, che sembrava aver perso completamente i sensi.
- Vieni. – disse a Maggie mentre si avvicinava alla figura sul pavimento. Si inginocchiò di fronte al ragazzo e gli scostò i capelli lunghi che gli cadevano sul viso. Aveva gli occhi sigillati, il viso spaventosamente pallido. Gli sollevò un braccio e lo sentì completamente inerte sotto alla sua mano. Schioccò un paio di volte le dita davanti agli occhi chiusi. Cercò di chiamarlo un paio di volte ma il ragazzo non sembrava avere intenzione di reagire ad alcuno stimolo. Gli afferrò il polso e ci appoggiò sopra due dita. Il battito era regolare e il ragazzo respirava, ma non dava il minimo segno di riuscire a svegliarsi. Frugò nelle tasche e ricordò di aver lasciato il telefono a casa, e dopo essersi data dell’idiota mentalmente si voltò verso Maggie. – Hai il cellulare?
Maggie tirò fuori il dispositivo dalla borsa, ma l’amica vide una smorfia delusa sul suo viso. – E’ morto. – scoppiò a ridere subito dopo. Tracy sospirò sonoramente e cercò il cellulare nelle tasche della giacca del ragazzo, quando non trovò niente controllò in quelle dei pantaloni. Sospirò di sollievo quando lo trovò, attivando la chiamata d’emergenza e portandosi il cellulare all’orecchio.
- Jake? – era la voce di una ragazza.
Tracy si schiarì la gola, continuando a tenere sotto controllo le funzioni vitali di Jake. – Pronto? Ciao, mi chiamo Tracy, io… L’ho trovato svenuto di fronte al Throne, pensavo che…
- Oh, Dio! – esclamò la voce dall’altra parte della cornetta. – Sta bene? Cosa succede?
- Va tutto bene, solo… Non si sveglia. Chiamo un’ambulanza.
- Sto arrivando. – la voce, seppur preoccupata ed evidentemente ansiosa, era ferma e decisa. – Datemi cinque minuti.
 

 
Sam, se possibile, sembrava ancora più magro rispetto al giorno prima. Le ossa sporgevano dalle ginocchia coperte dai leggeri pantaloni del pigiama che indossava, le guance erano scavate e i vestiti gli cadevano larghi sul sottile strato di pelle, unica cosa che sembrava coprire le ossa. Seduto a gambe incrociate sul tavolo della sua stanza d’ospedale, aveva gli occhi spalancati e si guardava attorno con un’espressione che Jake aveva visto tante volte, ma che quel giorno sembrava essere ancor peggiore. Anche in quel momento, così fragile, così vulnerabile, non aveva comunque perso quella bellezza quasi angelica, con i grandi occhi castani spalancati e i capelli lunghi che gli cadevano sulle spalle strette.
Dall’anno prima non era più lo stesso, così come non lo era Jake. Il maggiore varcò la soglia della camera, cercando di sorridere a suo fratello che continuava a fissare un punto non precisato della stanza. Jake si avvicinò al tavolo e allungò la mano verso un braccio sottile di Sam, accarezzandolo con delicatezza per non spaventare il ragazzo.
- Ciao, Sammy. Come stai?
Jake non ottenne risposta. Lo vide semplicemente sussultare per poi strisciare leggermente all’indietro ed ebbe per un attimo paura che potesse cadere.
Sospirò, lasciando che la sua mano scivolasse dal braccio verso il dorso di quella di Sam. – Sono Jake, Sam.
- Un anno, un anno. – la voce di Sam era impastata e pregna di inquietudine. – Un anno, è passato un anno. Trecentosessantacinque giorni. Dodici mesi. Josh, Josh è morto e ora non c’è più.
Nel sentire il nome di quello che era stato il suo gemello, Jake sentì per un attimo il cuore fermarsi e la gola diventare secca. Gli sembrò che il respiro gli fosse stato risucchiato dai polmoni e che essi non rispondessero più al suo bisogno di prendere aria. Vide Sam tirare le ginocchia al petto e tremare quasi impercettibilmente.
- Samuel. Samuel sarebbe dovuto morire. E’ colpa di Samuel, è colpa di Samuel. – il ragazzo scansò la mano di Jake con uno scatto del polso.
- Non è colpa tua. Non è colpa di Sam. – cercò di tranquillizzarlo il maggiore, nonostante sapesse quanto difficile sarebbe stato. Impossibile. Sam aveva una malattia, e Jake sapeva quanto potesse essere pericolosa per suo fratello. Vide il ragazzo puntare di scatto gli occhi su di lui, sporgersi dal tavolo per afferrargli le spalle e stringerle, scuoterle forte, facendogli girare la testa.
- Tu non sai niente, niente! Cosa credi di sapere, piccolo Jacob? E’ stato Sam. Sam ha fatto arrabbiare Josh e lo ha fatto sbandare. La macchina ha preso fuoco, e allora perché Sam è vivo? Dovrebbe essere morto, spazzato via insieme a Josh. – Sam spinse via il fratello che finì sulla parete e si tastò le spalle doloranti.
Jake vide i suoi occhi schizzare quasi fuori dalle orbite mentre Sam si portava il braccio sinistro accanto alla bocca, iniziando a morderlo, tirando quasi via la pelle chiara. Seppur dolorante si alzò in piedi, terrorizzato, correndo immediatamente verso il ragazzo cercando di bloccargli le braccia.
 – Fermati, Sammy. Ti prego, fermati. – Jake era sull’orlo delle lacrime. Era spaventato, impaurito e sperduto. Il sangue scorreva dalla pelle martoriata già in precedenza.
- Sammy se lo merita! – strillò il minore, sferrando pugni alla cieca mentre Jake gli teneva fermi gli arti. – Jake deve liberare Sammy. O Sammy gli farà male.
Jake sentì un dolore lancinante colpirgli lo stomaco, si piegò immediatamente senza trovare il fiato per riprendersi. Scivolò colpendo il pavimento con le ginocchia e tossendo notò la gamba sollevata di suo fratello. Proprio in quel momento riuscì a sentire la porta della camera spalancarsi e due braccia afferrargli le spalle, allontanandolo da suo fratello. Il dolore allo stomaco e alla schiena gli annebbiava la vista, ma riuscì a vedere Sam crollare inerte tra le braccia di uno dei medici.
 
 
La testa di Jake pulsava come se venti batteristi impazziti stessero utilizzando la sua corteccia cerebrale come la pelle dei propri tamburi. Si sentiva uno schifo. Totalmente.
In bocca aveva un sapore di vomito che nemmeno dopo essersi spazzolato i denti era andato via, era sudato dalla testa ai piedi ma tremava dal freddo. Adesso anche il suo stesso corpo sembrava non avere senso.     
Mise piede in cucina e si fermò sull’uscio. Si stropicciò gli occhi sbadigliando, notando pochi attimi dopo la presenza di sua sorella davanti ai fornelli da cui fuoriusciva del lieve fumo scuro.
Aggrottò la fronte, accorgendosi solo in quel momento di non trovarsi nemmeno a casa sua, di non essersi svegliato nel suo letto e di non essere nella sua cucina.
- Ronnie? – tossicchiò passandosi una mano sul viso.
- Alla buon’ora, Jacob. – sbuffò sua sorella, mentre cercava di domare il fuoco dei fornelli su cui aveva evidentemente bruciato qualcosa. Fece cadere le mani lungo i fianchi e alzò gli occhi al cielo. – Bene. Anche oggi mi tocca mangiare dei crackers.
Jake strinse gli occhi quando una fitta alla testa particolarmente dolorosa gli fece quasi perdere l’equilibrio. Si sedette su una delle sedie accostate attorno al tavolo e si massaggiò le tempie con entrambe le mani.
Vide un bicchiere essere sbattuto davanti ai suoi occhi. Batté le ciglia un paio di volte e sollevò la testa, tornando a guardare la ragazza.
- E’ succo di frutta. Magari la prossima volta ti bevi venti bicchieri di questo, al posto dello schifo che ti sei scolato ieri.
- Come?
- Oh, alla grande. – sospirò Veronica. – Ti sei pure rincoglionito abbastanza da non ricordarti che ieri sei sera hai fatto pena.
Forse cominciava a capire. Le immagini erano sfocate, ma qualcosa la ricordava. Era uscito dall’ospedale in cui Sam aveva vissuto da un anno a quella parte e un attimo dopo si era ritrovato in quello squallido locale sporco e maltenuto. Non ricordava granché, dopo quel momento. Era certo solo del fatto che il giorno prima era stato l’anniversario della morte di Josh.
- Io davvero non ho le parole. A ventun anni mi tocca fare da mamma chioccia al mio fratello maggiore e rimediare alle sue stronzate. – continuò a brontolare Veronica, mentre con uno straccio puliva le ultime tracce d’impasto bruciato crollate sui fornelli.
- Ti prego, abbassa la voce. Ho mal di testa.
- Lo so, Jake. E ce l’ho anche io. E lo sai perché? – tossicchiò leggermente quando il fumo le entrò nelle narici. – Perché mi hai fatto preoccupare come un’esaurita, stanotte.
Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico. – Veronica prese posto di fronte al fratello e lo guardò negli occhi. – Non puoi continuare così, Jake. Non sei l’unico che ha perso Josh e che ha il fratello minore chiuso in un ospedale psichiatrico. Ci sto male anche io, ma noi due dovremmo spalleggiarci a vicenda, esserci l’uno per l’altra. Pensavo stessi meglio, e lo sai perché? Perché è ciò che mi hai detto. E io ti ho creduto, Jake. Quando non avrei…
- Lo sai cosa è successo ieri, Ronnie? – la interruppe Jake, fissando il bicchiere che aveva di fronte. – Sam si è martoriato davanti ai miei occhi. Ho visto il momento in cui lo hanno sedato. L’ho visto crollare come ho visto morire Josh un anno fa. – sentì gli occhi pizzicare. – Non credo che a te avrebbe fatto piacere.
Voltandosi verso Veronica, notò i suoi occhi brillare di lacrime non ancora scivolate al suo controllo. La ragazza trasse un respiro profondo e allungò una mano su quella di suo fratello. – Perché allora non mi hai chiamata? Perché non sei venuto qui per consolarti? Io…
- Non avevo nemmeno le facoltà mentali per riuscire a pensare a qualcosa di diverso da ciò che ho fatto. – allargò le braccia e puntò gli occhi sulla parete. – Ti voglio bene, Ronnie. Ma non puoi aspettarti di avere lo stesso Jake di un anno fa. Senza Josh non sono niente.
 
 
Josh era sempre stato l’opposto di Jake, fin da quando erano nati. Era nato solo cinque minuti prima di lui, ma i loro primi attimi sulla Terra erano stati diversi, completamente diversi l’uno dall’altro. Karen aveva visto Josh strillare, piangere talmente forte da far ridere l’ostetrica.
“Sembra voler prendere il sopravvento su tutte le voci del mondo”, aveva detto la ragazza quando lo aveva posato tra le braccia della madre. Una forza, un uragano.
Jake, invece, aveva fatto spaventare non poco ogni persona nella stanza, prima di tutti la povera Karen. Quando aveva fatto la sua prima entrata nel mondo non aveva pianto, almeno inizialmente. Gli occhi e le labbra immobili, senza nemmeno la minima increspatura. Erano passati secondi che a tutti erano sembrati infinite ore prima che il pianto lieve e quasi senza voce del piccolo facesse tirare un sospiro di sollievo a medici e genitori.
Anni dopo, Josh e Jake impararono insieme a camminare, per Jake fu talmente semplice da venirgli quasi naturale, mentre il gemello cadde diverse volte prima di riuscire a compiere la sua impresa con il broncio sul viso.
A scuola erano entrambi delle schegge, velocissimi ad apprendere e a capire qualunque materia. La differenza stava nel comportamento che aveva quasi fatto sospendere Josh per svariate volte. E le sospensioni se l’era risparmiate sempre per merito di Jake, a cui bastava lanciargli un’occhiataccia nel momento in cui vedeva la situazione diventare ingestibile per fargli mettere la testa a posto.
Jake era silenzioso, responsabile e talmente timido da aver paura di parlare davanti a chi non conosceva. Josh, invece, era la persona che avrebbe saputo far sentire a proprio agio chiunque, anche i più schivi e i più riservati. Erano l’uno la controparte dell’altro nonostante, come diceva sempre Karen, fosse facilissimo confonderli se non li si osservava bene.
Jake era l’autocontrollo che a Josh mancava, e Josh era la vivacità che mancava a Jake.
In comune avevano poche cose, ma c’era una caratteristica per cui entrambi erano certi di essere identici: il loro bisogno di avere l’altro accanto. Era una sicurezza, qualcosa su cui tutti e due sapevano di poter contare. Josh sapeva sempre quando Jake aveva bisogno di lui, così come il suo gemello. Sapevano sempre che se si fossero persi si sarebbero ritrovati. E sarebbero tornati a casa insieme.
 
 
- Sei impazzita? – Jake spalancò gli occhi e li puntò verso la sorella. Il gelato gli cadde quasi dalle mani quando le parole uscirono dalla bocca di Veronica senza che lui se lo aspettasse.
La ragazza scrollò le spalle e diede un morso alla sua cialda. – Affatto.
- Ho ventitré anni, Ronnie! – il maggiore spalancò le braccia incredulo. – Non puoi aver fatto una cosa del genere.
- E invece sì. Non conta nulla il fatto che tu abbia l’età che hai. La seduta è stata prenotata per un motivo.
- Sono maggiorenne, ho il diritto di rinunciarci.
- E io ti dico che ho già prenotato e che tu ci devi andare. – Veronica finì il proprio cono e si pulì le labbra con il tovagliolo che aveva nella mano sinistra.
- Non esiste.  
- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni.
Veronica si passò una mano sul viso e sospirò. – Per prima cosa, questo è un paragone che non ha alcun senso. E, in secondo piano, la dottoressa Warren è qualificata. Potrebbe darti una grande mano.
- No, Veronica. E poi non ne hai nessun diritto.
- Certo che ce l’ho. Sono tua sorella.
- E io sono maggiorenne.
- Lo capisci che questo non c’entra assolutamente niente? – sbuffò la ragazza. – Io voglio aiutarti. Voglio che tu stia meglio, Jacob, lo capisci?
- Oh, certo. – Jake indossò un sorriso sbilenco e nervoso. – Perché secondo te parlando con qualcuno Sam guarisce miracolosamente da una malattia mentale cronica e domani mattina mi ritrovo anche Josh in casa.
- Io per prima seguo una terapia da mesi che mi ha fatto stare meglio. Ascoltami, per una volta.
- Una terapia che segui di tua spontanea volontà, Ronnie.
- Jake, ti rendi conto che… - Veronica si rese conto dello sguardo confuso di Jake e delle sue sopracciglia aggrottate. – Jacob, mi stai ascoltando?
- Una ragazza mi sta fissando.
La persona in questione era dall’altro lato della strada, affiancata da una ragazza più bassa di lei. I capelli bruni erano ricci e le cadevano sulle spalle, sul viso l’espressione di chi sembrava aver visto l’apocalisse. Quando anche Veronica si girò a guardarla lei spostò lo sguardo dietro di sé.
- Quella è la ragazza che…
- Sì, è la ragazza che mi stava fissando in modo inquietante.
- No, Jacob. Quella è la ragazza che ti ha salvato il culo prendendo il tuo cellulare e chiamandomi
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