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Autore: claracee    05/08/2019    1 recensioni
L'inventore e disastro a tempo pieno Tyon Grey (conte Grey, ma quello era suo padre a dire il vero) non desidera altro che entrare nella Royal Scientific Society; quando un'audace missione per recuperare una serie di progetti rubati gli capita letteralmente fra le mani, non perde tempo considerando quella come l'occasione perfetta per dimostrare quanto utile puņ essere per Nuova Londra e i suoi cittadini. Ma le cose non sono esattamente come sembrano...
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo I

Ovvero il Proiettore Mitopoietico di Strutture Astrali

Tyon Grey stava osservando l'alba, in piedi sopra il suo letto a guardare il cielo schiarirsi al di là della finestra della sua camera interrata. A quell'altezza poteva vedere solo un sottile spicchio di cielo, e chiunque con un minimo di buonsenso gli avrebbe consigliato di uscire fuori all'aria aperta se voleva tanto assistere alla nascita del mattino. Eppure, a lui quella posizione bastava, poiché si vantava di essere un grande osservatore: c'erano i fili d'erba del giardino ricoperti da goccioline di brina, la brezza fresca che muoveva le foglie cadute col vento della notte precedente, il prato che si tingeva di colori che andavano dal grigio all'arancio pallido.
I tredici orologi sparsi per la sua camera ticchettavano quieti, ognuno con una sua propria litania totalmente disarmonizzata dalle altre.
Quella mattina Tyon non poteva prender sonno in alcun modo. Quella mattina era la sua grande mattina, il suo debutto nell'alta società del circolo di inventori e distinti uomini di scienza. I suoi occhi grigio azzurro si riempirono dell'aurora di una Nuova Londra del 1912, una megalopoli che era pronta a colonizzare il nuovo decennio con il petto gonfio di orgoglio, piena di buoni e pii propositi e motori ben oliati.
 L'adrenalina salì su per la spina dorsale di Tyon come corrente elettrica.
"Mi ascolteranno questa volta" pensava trasognato, balzando giù dal letto e correndo qua e là per gli scaffali e giù per le scale di legno del suo letto a castello, a spegnere il manicomio di sveglie che presero improvvisamente a suonare una dietro l'altra in un concerto infernale. Si fece largo fra il disordine della sua stanza da letto, una camera assediata come un campo da guerra da pezzi di motore, attrezzi meccanici e un’infinità di viti, dadi e ingranaggi che aveva lasciato a metà colto dall’improvvisa ispirazione di lanciarsi in un’invenzione totalmente diversa. Le scale di legno scricchiolarono sotto il suo peso, e subito si ritrovò nel suo laboratorio, dove si mise a preparare il borsone da viaggio fischiettando l’inno di Sua Maestà. Ci infilò dentro progetti e quaderni pieni di schizzi e appunti, pezzi di macchinari vari e rotelle, giusto per rimanere certi che questa volta, almeno questa, la sua creazione non avrebbe fatto cilecca.
“Buongiorno a te Aspirabriciole” cinguettò accarezzando il suo grosso bombo meccanico con affetto, parcheggiato proprio sotto la scalinata. Aspirabriciole era il fiore all’occhiello fra le varie invenzioni di Tyon: aveva cominciato a progettarlo quando aveva solamente ventun anni, e ora, a quarantasei anni compiuti, era diventato uno splendido Bombus pascuorum di 160 chili, in grado di alzarsi in volo e, secondo il suo padrone, di essere senziente. Un vero e proprio gioiellino, se solo il circolo di inventori non l’avesse bocciato quando ancora era un cucciolo di imenottero.
Proprio in quel momento, l’Acceleratore Etere-elettrico Differenziale cominciò a ronzare dal suo angolo accanto al lavello– penosamente e furiosamente. L’Acceleratore era una delle trovate per cui Tyon aveva più speranze: assomigliava ad un minuscolo tornado azzurro contenuto in un cilindro di vetro con grossi bulloni d’ottone, e in teoria, avrebbe dovuto produrre abbastanza energia da illuminare tutti gli slums di Nuova Londra, gratuitamente. Purtroppo, aveva anche la spiacevole abitudine di disintegrarsi in un’esplosione almeno una volta la settimana (solitamente il giovedì).
Tyon era uno scienziato abbastanza onesto da ammettere che quello sembrava essere un problema costante con la maggior parte delle sue invenzioni: essere intriganti e intelligenti, ma con l’aspetto di una cosa sempre ad un passo dal deflagrare nel mezzo della stanza. Non importava, però; Tyon aveva ancora molta speranza per tutte loro. Tyon aveva ancora molta speranza per lui stesso, in effetti. Soprattutto oggi.
 “Oh– no no no, AED,” borbottò, lasciando il fianco del suo fedele Aspirabriciole e correndo verso il cilindro. Una chiave inglese si materializzò magicamente nella sua mano destra, estratta come una spada scintillante dalla cintura portaoggetti legata in vita. “Potrai esplodermi addosso con agio nel pomeriggio, ma stamattina dovrai davvero fare il bravo”.
In risposta, l’AED cominciò a tossicchiare fuori fumo azzurrino e a vibrare ancora più forte. Tyon sentì il rombo tremolargli fin nei denti.
Ignorando la tensione nel suo stomaco, lasciò scorrere le dita lungo i bordi del cilindro fino alla piccola plancia di comandi– l’altro braccio già infilato per metà nel viluppo di ingranaggi nascosti al di sotto. Aveva fatto molto bene a perdere un po’ di tempo alla finestra, dopotutto, pensò, la mano che scivolava sopra i dentini e le intercapedini di ogni rotella e ogni catena meccanica, riconoscendole tutte. Se avesse già avuto addosso il completo buono, con tutto il grasso che sentiva già penetrare nella manica sarebbe stato in un grosso-
L’Acceleratore emise uno stridio differente dagli altri, improvviso e addolorato. Appena fuori dal suo campo visivo, Aspirabriciole si coprì i suoi occhi di cellette fotovoltaiche con le zampe anteriori. Non un buon segno.
Aveva appena trovato il problema. Già mezzo girato la vite che si era allentata.
“Oh no AED,” pregò sollevando uno sguardo sconsolato sul turbine, ora cosparso di inquietanti fulmini violetti, della sua creatura. “Ti prego ti prego no-”
Troppo tardi.
L’Acceleratore si crepò in una ragnatela di luce blu ed esplose con un ruggito assordante. Frammenti di vetro e ottone schizzarono e si conficcarono in ogni superficie disponibile, seguiti dallo srotolarsi del denso fumo eterico all’interno del cilindro– di un punto di indaco assolutamente delizioso e quasi impossibile da togliere da tessuti e servizi da the di porcellana. Tyon, proiettato contro le scale che portavano al suo letto, afferrò di scatto e si protesse con un cuscino di cuoio rinforzato tenuto appositamente sotto uno dei tre banconi sparsi per la stanza, e fece un sospiro. Buona parte della sua camicia, per non parlare della barba e dei capelli, erano adesso tinti dello stesso delicato tono nontiscordardimé. Lo sapeva senza nemmeno guardare.
“Ho fatto molto, molto bene a non cambiarmi prima”.
Aspirabriciole offrì un brusio pieno d’affetto. Tyon rispose con un cenno grato, iniziò a tirarsi in piedi offrendo parole di incoraggiamento ai resti fumanti del suo AED, e sobbalzò al risuonare di una nuova cascata di sveglie. Già. La seconda orda di sveglie, preparate nel caso Tyon fosse passato dall’orario Vago Ritardo Ancora Accettabile, alla categoria Assurdo Ritardo Potenzialmente Letale. “Oh– cieli e rotelle!”
Le otto e un quarto. Questa non ci voleva. Tyon si proiettò fuori dalla camera prima di darsi il tempo di preoccuparsi ulteriormente, strattonando la leva della sua Prepara-The mentre già sfrecciava verso la cucina. Un meccanismo agganciato a mezz’aria fra il pavimento e il soffitto si mise in moto con cinghie e pulegge, spingendo una brocca d’acqua- con all’interno una bustina di ottimo the inglese- dal lavello ad un tavolo da chimico con sopra una fiammella già prontamente accesa dal meccanismo stesso.
La sua giacca buona, il bel rosso originario stinto ad un triste color mattone ma miracolosamente priva di bruciature e di riparazioni con il filo da pesca, e il resto del completo finirono agganciati alla curva del braccio, mentre il complicato sistema di pulegge schioccava e trillava sopra la sua testa.
L’aria cominciava già a riempirsi della fragranza di un buon the da mattina– scuro come l’olio motore e dolce come la primavera della sua amata Nuova  Londra. L’acqua, riscaldata dalla fiamma, iniziò a bollire e a risalire da un matraccio fino ad una serie di tre fialette, passando attraverso un tubicino di vetro arrotolato come montagne russe. Un angolo del tavolo da pranzo sembrava sufficientemente pulito e libero da rotoli e progetti abbandonati da fungere da sedia da colazione. L’orologio a pendolo dietro di lui diede un rintocco. Otto e mezza. Ora Tyon si trovava nella zona dell’Irrimediabile Ritardo senza Speranza.
Lui si era quasi completamente infilato nei pantaloni a quadri e il panciotto coordinato, ringraziando il suo fisico da spaventapasseri per non essere mai cambiato dai suoi vent’anni, quando il Prepara-The borbottò trionfante e riempì un becker fumante. Tyon lo afferrò e prese a buttar giù d’un colpo la bevanda. “Dio salvi la Regina!” soffocò ustionandosi talmente tanto la lingua da non riuscire più a pronunciare la lettera s.
“Fono la vergogna di Marconi” farfugliò, cercando di infilarsi gli scarponi senza slacciarli. Spalmare la marmellata sul proprio toast con una sola mano si stava rivelando complicato, soprattutto quando l’altra era intrappolata da qualche parte dentro la manica della giacca. “Andrà tutto bene Aspirabriciole, vedrai. Il Proiettore Mitopoietico di Strutture Astrali mi comprerà l’ammissione immediata. Ne saranno estasiati. Non si ricorderanno nemmeno di questo piccolo ritardo.” Una grossa goccia di marmellata di ribes precipitò a terra con un plop, spargendosi sul coperchio di un barattolo di viti. Tyon ingoiò un altro paio di bocconi. Ricordò improvvisamente i capelli e la fronte blu. Tentò di pettinarli e pulirli al tempo stesso con una spazzola da ingranaggi rimasta sul tavolo, sperando che fosse abbastanza, o che i membri della Royal Scientific Society fossero tutti daltonici.
“Andrà tutto benissimo,” ripeté, ma a voce bassa, e nel tono in cui da giovane assicurava a suo fratello minore che non c’erano mostri sotto il letto e che nessuno sarebbe mai nemmeno arrivato a sganciare bombe dal cielo. In pratica, il tono di chi vuole disperatamente credere in qualcosa di bello.
Da dietro le pareti della sua cucina– rinforzate con una speciale lega di ottone e acciaio dopo alcuni sfortunati incidenti– non poteva vedere nulla della sua città, ma non importava: la conosceva abbastanza bene da sentirla risvegliarsi come una luce sottopelle, stiracchiarsi con un sollevarsi di parole e rumori e persone che vibrava direttamente nel profondo delle sue ossa. Un fiotto di emozione gli chiuse la gola: avrebbe finalmente reso fiera la sua bella Nuova Londra, la sua amante non poi così segreta. Le avrebbe finalmente dimostrato di poterle essere utile, di poter essere il suo degno servo, come aveva sempre voluto. Aveva solo bisogno di una chance. E di coglierla, santi numi.
Tyon si rimise in piedi: si aggiustò i risvolti della redingote, si annodò con cura la cravatta intorno al colletto inamidato. Dal tronco monco di un robot-cameriera appoggiato sul bancone recuperò il suo cilindro – con la sua fascia punteggiata da utili ingranaggi di riserva e il suo paio di occhiali da aviatore. “E’ il momento, mio caro Aspirabriciole” dichiarò, gli occhi fissi sulla porta che conduceva fuori, nella casa dei suoi genitori e lungo l’atrio e sulle strade di Covent Garden. “Il dado è tratto e ben stretto. Augurami buona fortuna.” Calcato il cappello, marciò fuori dalla porta, e su verso il suo destino da eroe, un radioso destino che sapeva dei cieli fumosi di una Nuova Londra dei primi del 900.
Destino da cui ritornò correndo cinque secondi dopo – le guance rosse quasi più della giacca. “Non c’è bisogno di dirlo,” raccomandò passando. “Ho dimenticato il Proiettore. Lo so. Non andrei molto lontano senza. Lo so. Smettila di fare quella faccia, insettoide!”
L’orologio meccanico del Parlamento stava ormai suonando le nove meno un quarto quando Tyon Grey, figlio primogenito dei Conti di Grey e inventore non ancora sbocciato nell’alta società, si catapultò fuori nella frescura mattutina che non sentiva ormai da parecchie settimane. Egli, da bravo inventore, non era abituato ad uscire molto spesso nonostante fosse completamente innamorato della sua immensa città industrializzata. Fu così che, per adattarsi alla luce del mattino, fu costretto a strizzare i suoi grandi occhi che tendevano ad incurvarsi deliziosamente all’ingiù. Bruciava così tanto che per poco non si fece mettere sotto da un’automobile.
Un uomo in livrea scura si sporse da dietro gli intarsi dorati del volante, un pugno guantato di bianco che si agitava rabbiosamente sopra di lui. “Ehy, ubriacone in cilindro!” ringhiò, l’accento cockney denso come se parlasse attraverso un grosso morso di porridge colloso. “Vattene lungo il Tamigi se vuoi fermarti a contemplare i piccioni, eh?” Tyon sussultò, ruotando su sé stesso e quasi perdendo la presa sul Proiettore. Altri clacson rimbalzarono tra le facciate degli edifici ai lati della strada, stridii di gomme e nitriti di cavalli, un guaito metallico di freno che diede una stilettata di dolore a Tyon. Pur non sapendo bene perché, si sentì in dovere di chiedere scusa per essersi quasi fatto uccidere.
“Oh! Sono, terribilmente spiacente, signore. Io–”
“Sì sì– ah!” L’autista si ritirò nell’abitacolo, le mani bianche che continuavano a gesticolare. “Una dannata città di svitati, ecco cos’è!” L’auto scivolò oltre, facendosi spazio con fluida baldanza attraverso l’incrocio. La testa del suo datore di lavoro dondolò fuori dal finestrino posteriore, i capelli srotolati in riccioli confusi dopo la nottata e gli occhi orlati di viola di chi sta ancora riemergendo dalle nebbie dorate dello champagne, sbattendo forte le palpebre. Sebbene la sua testa dovesse essere ancora risciacquata in almeno un litro di champagne, il giovane aristocratico riuscì a contemplare Tyon con uno sguardo profondamente scandalizzato. “Cielo, Gerard,” ridacchiò sporgendosi verso il suo autista. “Credo di non aver visto una di quelle giacche dal ricevimento di pensione di mio padre – no, di mio nonno!” Le risate del giovane dandy tintinnarono nell’aria finché l’auto non infilò l’angolo, picchiettando contro la pelle di Tyon come una pioggia di polvere di metallo– leggera, ma in grado di incastrarsi tra le crepe e non andarsene più. Non che fosse abbastanza per colpirlo; Tyon aveva un’esperienza pluridecennale nella gestione dei giovani e non giovani debosciati di Nuova Londra, dei loro pettegolezzi noiosi e della loro crudeltà distratta, e sapeva come scrollarseli di dosso, se non eliminare tutti i granelli intrappolati nelle fessure.
Ma oggi, tutto sarebbe cambiato.
Un clacson, stridulo e più forte degli altri: una Golden Star Ad Impulsi Sonori 324, se l’orecchio non lo ingannava, lo fece ripiombare improvvisamente nella realtà, con il suo bagaglio di tela e gli stivali incastrati nel mezzo dell’incrocio. Si abbassò per bene la tesa del cilindro e si catapultò sul marciapiede dell’affollata Newton Street, il pulviscolo che gli si adagiava sul corpo come il Piccolo Popolo si adagia sulle pagine dei libri di fiabe irlandesi.
Da ogni lato lo circondavano teste coronate di bombette color cenere e zazzere impomatate, berretti di tweed puzzolenti di porto e pece, volute di profumi e voci e scarpe che pestavano l’asfalto.
Rumori di ogni sorta gli pervasero le orecchie: gentleman che parlottavano di affari e corse di cavalli, come se il progresso fosse racchiuso in un biglietto vincente, signorine in crinolina che scendevano dalle automobili e nascondevano i loro graziosi visi sotto cappelli che gli ricordavano grandi aiuole in fiore, motori a scoppio, cigolii di serrande di negozi aperti di fresco. La tenacia frettolosa dei Nuovo-Londinesi avvolgeva Tyon da ogni lato, riversandosi fuori da porte automatiche rivestite di bronzo, portiere di carrozze laccate e auto sbuffanti vapore, persino dai cilindri di vetro delle stazioni della Metropolitana Fluttuante.
L’inventore sfrecciò giù per la via e svoltò a Ellery Lane, dove si trovava uno dei posti in cui aveva deciso di lasciare un pezzetto di cuore: L’Emporio delle Grandi Meraviglie del Mondo. Era un particolare negozio gestito dal signor Rosehip, un anziano di settantadue anni che aveva deciso di vendere i suoi cimeli raccolti in gioventù nei suoi mille viaggi intorno al globo terrestre. Vi erano mappamondi di ogni materiale e misura, diversi insetti racchiusi in scatoline di vetro, alambicchi, fossili e minerali dall’abito cristallino così incantevole da desiderare di comprarli tutti e mandare al diavolo anni di stipendi. Questo almeno per Tyon. In verità, quel piccolo emporio assomigliava più ad un negozio di antiquariato rispetto ai grandi centri commerciali ormai disseminati per tutta Nuova Londra, grosse fabbriche di soldi che vendevano barometri, evaporatori rotanti, titolatori potenziometrici ed altre apparecchiature scientifiche di ultima invenzione e a prezzi un po’ più abbordabili.
Tyon vi passò davanti con un sospiro eccitato, specchiandosi nella vetrinetta che esponeva tutti quei tesori di un mondo perduto, ma non era affatto il momento di fermarsi ad ascoltare i racconti avventurosi di Mr Rosehip. Proseguì perciò per la via correndo a perdifiato, la sua creazione ben stretta sotto il braccio in un involto di tela cerata.
Sbucò in Ross Street, che prendeva il nome dal noto esploratore e navigatore britannico che nel 1841 aveva rotto il pack ghiacciato che circondava l’Antartide ed era sbucato su un’isola al largo della Terra Vittoria, e per la gente non era un caso che la terra scoperta si chiamasse proprio così: con l’aiuto di sua maestà la regina di Albione, Ross era riuscito a diventare un ingranaggio della macchina d’albagia della nazione (e a non morire assiderato). In quel punto della città, tuttavia, i marciapiedi erano impraticabili. Non c’era modo di arrivare in tempo alla sede del club con quella folla. Non c’era modo, almeno, se il tuo nome non era Tyon Grey– e se non avevi speso una buona parte delle tue notti a fissare la mappa di Nuova Londra appesa sopra al tuo letto, imparando le vie segrete e le scorciatoie meglio delle linee sul palmo della mano. Tyon piegò sulla destra, brutalmente e quasi inciampando in una bambinaia con una coppia di gemelli rinchiusi in una mostruosità a vapore che la donna era fiera di chiamare culla di ultima generazione. Si infilò nella stradina, le pareti scure abbastanza strette da lasciare striature di fuliggine sulle sue maniche, e marciò a buon passo attraverso i vetri rotti e le pozze di letame e acqua di pitali che chiazzavano il suolo. Buona parte dei cittadini che conosceva non avrebbero osato entrare con metà nel loro naso in un quartiere del genere, ma Tyon sapeva che gli avrebbe risparmiato un buon cinque minuti di strada. E le donne affacciate dai balconi arrugginiti sopra di lui non ridevano dei suoi vestiti, almeno.
Il suo orologio da tasca diede un trillo allarmato. Otto e cinquanta. Tyon cominciò a correre o a fare la cosa più vicina possibile con un pacco di ottanta centimetri tra le mani.
“Signor Ty!” gridò una voce da un cumulo di casse abbandonate sulla sua sinistra. “Sono quasi le nove – siete in ritardo!”
Per un attimo, Tyon si chiese se quella fosse la voce della sua coscienza, misteriosamente proiettata fuori dal suo involucro fisico dal potere della sua agitazione e ora condensata in una voce negli slums. Poi si domandò perché la sua coscienza dovesse suonare come un bambino di dieci anni, un visetto sporco di grasso di motore fece capolino dall’angolo di una cassa, e il mistero fu svelato. Tyon non si fermò, ma rallentò il passo, e si aprì in un sorriso storto.
“Jenkins,” salutò, “ah, saggio ragazzo. Forse dovrei montare te ad una catena come orologio, mh?” Il volto macchiato si fece più vicino. Nell’ombra proiettata dagli alti muri delle case, sotto di esso di materializzò il corpo gracile di un bambino, con diversi bottoni della camicia saltati, calze spaiate, e una costellazione di lentiggini che correvano dalla punta delle dita alla punta del naso.
“Penso mi piacerebbe essere il vostro orologio da taschino, signore,” disse Jenkins in tutta serietà. “Si deve vedere un bel po’ di roba strana. E divertente.”
“Mh,” commentò Tyon. Il suo effettivo orologio tremò nella sua tasca, annunciando il passaggio di un altro minuto. “oggi in realtà punterei di più su aggettivi come “professionale” e “brillante”.
“Oh, non dovete preoccuparvi Signor Ty. Vi adoreranno. Il vostro Ultra Super Mitoproiettore farà scintille”
“Oh cielo ragazzo mio– spero davvero che non farà scintille” replicò Tyon, la voce un po’ stridula. Ma un altro sorriso gli stava già agganciando un angolo delle labbra, una forza al di là del suo controllo. Jenkins poteva anche non essere mai andato a scuola o agli uggiosi, infelici collegi dell’uggiosa, infelice buona società, ma imparava i termini scientifici che Tyon gli insegnava come se fosse stato costruito apposta per quello. Erano mesi che si lambiccava il cervello per trovare un modo più nobile e intelligente di sfruttare il talento del suo miglior ragazzo trovaroba. Era un altro dei Progetti Urgenti di Tyon, quelli che segnava in inchiostro rosso e inchiodava con uno spillo sulla testata del letto. Ogni volta che quel bimbo sveglio gli procurava pezzi di vario genere dai sottofondi della metropoli, l’inventore lo ringraziava con qualche moneta e una bella tazza di the, ma sapeva bene in cuor suo che, per una famiglia come quella di Jenkins, qualche soldo e un po’ di the non era certo abbastanza. Un altro progetto da portare a termine.
Oh già, a proposito.
Bilanciando il suo pacco su un solo braccio, Tyon infilò la mano sotto il suo panciotto, staccando la catena dell’orologio con un clack deciso. Un momento dopo, l’orologio volava scintillando nell’aria, e Jenkins lo afferrava al volo, gli occhi spalancati. “Signor Ty-”
“Tienilo tu, Jenk,” gli gridò Tyon, pompando di nuovo con le gambe e preparandosi a sterzare verso l’uscita dal quartiere attraverso il retro di una bisca e diversi cortili privati. Le suole rinforzate di metallo dei suoi stivali grattarono contro il selciato. “Vendilo, appendilo, fanne quello che vuoi– saprai certo metterlo più a frutto di me!”
Non si fermò a valutare la reazione del ragazzo.
Tyon saltò un paio di cassonetti strapieni, un uomo disteso che mormorava sogni da ubriaco, e fu fuori di nuovo, nel sole e in vista della Royal Society, e ancora in spaventoso ritardo. Ma la risata sconvolta di Jenkins lo accompagnò per buona parte della strada.
Lontano, sopra le file ordinate di edifici color crema e piazze sorvegliate da generali di bronzo e grappoli di auto lucide, la sede della Royal Scientific Society osservò il suo avvicinamento senza sembrare troppo impressionata. Per un attimo, il sole riflesso sul suo motto accecò Tyon, e lo fece quasi mettere sotto dalla lunga automobile di un aristocratico di ritorno dai bagordi serali.
Il motto appariva chiaro e indubbio: Efficienza. Rigore. Utilità. Disciplina. Intransigenza. Obbedienza.
ERUDIO.
Il cuore di Tyon tamburellò come una piccola pompa idraulica.
Vista da vicino, la sede del miglior club di inventori d’Albione sembrava ancora più imponente, se possibile. Nonostante l’inesorabile ticchettare proveniente dall’orologio da taschino premuto contro il suo petto, Tyon non poté impedirsi di fermarsi un momento, ai piedi della scalinata di marmo di fronte alla porta, il suo naso da pugile puntato all’insù a contemplare l’intera facciata. Passò lo sguardo sui mattoni, scuri di tempo e fuliggine come tutti gli edifici più rispettabili di Nuova Londra; sugli stucchi bianchi degli infissi, scolpiti nelle forme più diverse, animali dalle zampe membranose e coleotteri; sul grande orologio astronomico meccanico appeso sopra i portoni di noce scuro, con le sue lancette d’oro e i suoi contatori del numero di brevetti giornalieri sempre aggiornato, il suo ronzio un costante ricordo del motto dell’amore per l’efficienza della sua organizzazione. Tubi di ottone lucido correvano su e giù lungo le pareti, soffiando attraverso i diversi piani del club i cilindri di telegrammi al loro interno– pieni di segreti e idee geniali e importanti comunicati direttamente dagli studi della corona.
Un semicerchio di panchine di marmo bordava lo spazio fra le scale e l’immensa entrata dell’edificio. Ciascuna panca portava sopra incisa la definizione di una professione degna di tale nome, Ingegnere, Astronomo, Fisico, Biologo...
Gli occhi di Tyon si posarono per un attimo su quella alla sua destra: Inventore.
L’orologio astronomico risuonò i suoi rintocchi delle nove, le lancette scintillanti di energia eterica, la vibrazione che tremolava fin nelle suole delle scarpe. Nuova Londra mormorava alle sue spalle, ricordandogli cosa c’era da perdere oggi, cosa da guadagnare. Per un attimo, Tyon desiderò la compagnia di suo fratello così intensamente da far male.
“Andrà bene,” sussurrò ai circuiti del Proiettore, “andrà tutto bene”.
E con l’ultimo gong dell’orologio, si precipitò su per le scale.
 Le porte della Royal Society si aprirono da sole di fronte a lui, scorrendo silenziosamente sulle loro rotaie meccaniche.
Tyon si ritrovò nell’atrio, enorme e rotondo: un affresco di dinosauri piumati e antichi scienziati dall’aria seccata che si stendeva su tutto il soffitto, e che lui, in tutti i suoi tentativi al club, aveva sempre giudicato piuttosto brutto. Un paio di membri in cilindro e baffi impomatati smise di parlottare nel suo angolo, concedendo al suo viso e ai suoi capelli ancora tinti di indaco un’occhiata piena di sdegno. Uno di essi portò addirittura l’intonso fazzoletto da taschino al naso, gemendo inorridito.
Tutta la sala risuonava del rumore di dita di diligenti segretarie che battevano a macchina lettere, messaggi e relazioni su nuove e antiche scoperte e invenzioni, in modo così veloce ed efficiente che sembrava che stessero sparando in aria una mitragliata di proiettili. A tutto questo si sommava il fruscio di centinaia di documenti e lo scalpiccio di scarpe ben laccate sul pavimento in marmo.
L’ attenzione di Tyon corse però alla porta della Sala di Esame per i Nuovi Accoliti, che era tanto impressionante e solenne quanto il suo nome. Un valletto gli scivolò accanto.
“Posso avere il piacere di assistervi, signore?” chiese, gelido. L’uomo indossava una livrea grigio ferro con appuntata la spilla d’oro del club, un mappamondo incastonato in un ingranaggio, e rese chiaro dal suo tono che non considerava quell’uomo nulla di simile ad un signore e che non si aspettava di ricevere nessun piacere dall’assisterlo.
“Ah – io sono-,” balbettò Tyon, ancora un po’ senza fiato dalla sua corsa su per le strade della città. Per un attimo temette davvero che nel caos della mattinata avesse dimenticato il proprio nome– ma no, ecco, era lì. “Sono Tyon Grey- di Grey Hall.” Provò un sorriso incoraggiante, picchiettando un dito sull’involto tra le sue braccia. “Sono qui per la prova di ammissione.”
La voce dell’uomo scivolò molto al di sotto dello zero centigrado. “Ah,” replicò. “Certo. Voi. Di nuovo. Se non sbaglio questa è la… settima volta, giusto?”
“Nona,” corresse Tyon con un filo di voce, serrando gli occhi in segno di pentimento meno di un secondo dopo. Il valletto inarcò le sopracciglia.
“Nona,” ripeté, “benissimo, direi. Temo però che dovrete sperare che la decima sia quella fortunata, Lord Grey, perché siete in ritardo di più di mezz’ora. Le audizioni sono quasi finite, ormai. Temo proprio che dovrete ritentare al prossimo bando”. L’uomo lanciò un’occhiata di traboccante disgusto verso la catena color bronzo che dondolava giù dalla sua giacca. “E provando a comprare un orologio, magari.”
Tyon sentì il cuore avvizzirgli nel petto. “Ma, Lord Sycamore mi ha assicurato-”
“Dubito fortemente che il Dottor Sycamore abbia mai detto qualcosa più del necessario a voi, signore.” L’uomo fece una risata. Non era un bel suono. “Capirà che un luminare come lui non può certo perdere tempo con-”
In quell’istante, le porte dell’Aula si spalancarono, il brusio di file e file di scienziati riuniti che rotolava fuori sui pavimenti di marmo dell’atrio. Nel fascio di luce verdina delle lampade a etere, Tyon vide emergere una figura– alta e possente, e con il naso arcuato come il becco di un uccello da preda. Il valletto seguì il suo sguardo, e impallidì. “Andrew, non essere maleducato con il nostro candidato,” disse il Dottor Sycamore, fisico di fama internazionale, Direttore della Royal Scientific Society da dodici anni, fidato consigliere scientifico del re stesso, e sebbene avesse parlato in poco più di un sussurro, la sua voce sembrò riempire l’intera sala come champagne. “Tecnicamente, è possibile presentarsi per le nostre prove fino alle nove– che, a giudicare dai rintocchi del nostro efficiente orologio, dovrebbero essere proprio ora. Perciò Lord Grey è il benvenuto al cospetto del nostro umile consiglio.” Un sorriso si aprì sotto il naso da aquila del dottore. “Per la nona volta, se non erro.”
Andrew il valletto abbassò la testa, mormorando qualcosa a metà tra una scusa e una lode. Tyon non se la cavò molto meglio. Un gelo elettrico si stava spandendo dentro il suo stomaco, le gambe di cartapesta, le ossa fragili.
Coraggio, Tyon. Fallo per quel piccolo cucciolo di imenottero.
Le sue dita si strinsero sui bordi del Proiettore, ogni bullone serrato con amore, come in ogni invenzione accoccolata nel suo laboratorio.
 Fallo per loro.
Sollevò gli occhi in quelli del Dottor Sycamore, gelidi e levigati come i bei bottoni di uno smoking.
“Io… gra-grazie, Dottor Sycamore, Signore” balbettò. “Vi assicuro che non vi pentirete della vostra gentilezza.” Il sorriso del dottore divenne abbastanza tagliente da colpire Tyon tra le costole. Si voltò, scivolando di nuovo nella nebbiolina di luce verde dell’aula, dove si intuivano gli scintillii di pennini d’argento e tubi pressurizzati, bocchini di sigarette e occhiali posati su nasi da gentleman. Quando si voltò, la schiena del Dottor Sycamore riempì il vano della porta, gettando lunghe ombre su Tyon. “Oh, non sono io che dovrò pentirmi o meno, Dottor Grey. Prego, seguitemi.”
Andrew ebbe la premura di prendere il liso cappello di Tyon, lasciandosi scappare un gemito di disgusto.
Gli scarponi di Tyon si fermarono sopra un pavimento circolare perfettamente tirato a lucido e composto da diversi tipi aranciati di marmo pregiato che uniti insieme formavano la mappa del mondo conosciuto.  Nonostante fosse la nona volta che entrava in quella stanza, la magnificenza di quel pavimento continuava a mozzargli il fiato come un bambino davanti ad un regalo di Natale. Il suo sogno segreto era quello di mettersi a saltellare qua e là, facendo finta di girare il mondo in meno di un secondo.
Si guardò intorno, verso i banchi in legno disposti ad anfiteatro con seduti più di una ventina di emeriti uomini di scienza. Sembravano copie dello stesso identico uomo con una redingote nera come la pece, occhiali pinzati sul naso o monocolo, a piacere. Ognuno di questi individui portava puntata al petto la spilla d’oro del club, che splendevano come stelle sopra e attorno quel planisfero di marmo. Tutti lo osservavano con aria fra la sfida e la totale sufficienza, e Tyon si sentì come una farfalla inchiodata da uno spillo ad una tavola da esposizione.
 Il Dottor Sycamore procedette fino alla propria scrivania in mogano, un pezzo di antiquariato del 1859 elegantemente ordinata e impeccabile sotto ogni punto di vista. Dietro di essa, un’imponente finestra dava sulla città e sul Bio Elettro Numeratore, ovvero il grande Orologio Meccanico a cui tutti facevano riferimento come ad una bella dama fedele. Tutti i veri Nuova-Londinesi lo chiamavano il grande B.E.N.
Dalla porta entrò un cameriere dalla faccia lentigginosa, che posò sulla scrivania un vassoio color bronzo con sopra un opulento servizio da the inglese.
“Il vostro the signore”
“Oh Jeremy, Dio benedica questo paese. Il the è un vero toccasana per la mia povera emicrania, non è così forse Dottor Grey?”
Un gentleman tossicchiò.
Tyon, che con segreto riserbo si aspettava che gliene venisse offerta una tazza, stiracchiò un sorriso.
“Adoro il the, signore. A dire il vero, vi è una simpatica storia in cui io stavo lavorando ad un Motore Elettrico Fotovoltaico ed avevo accanto a me sia il secchio dell’olio motore sia una tazza da the. Ero così preso dal mio lavoro che per sbaglio bevvi-”
“Puoi andare Jeremy”
Il valletto, dopo aver versato il the nella tazza ed aver sistemato sul tavolo la brocchetta del latte ed un tovagliolo con ricamate sopra le iniziali del suo padrone, si congedò con un mezzo inchino.
Niente the per Tyon.
“Allora signor Grey” iniziò prendendo un sorso, “cosa la porta qui questa volta?”
Tyon sussultò, dimenticando il the mancato e il delizioso aroma sparso dalla tazza di porcellana del dottore, dimenticando le sue promesse alle sue invenzioni e i suoi sogni di danzare sul mondo, dimenticando tutto se non il formicolio degli occhi di file e file di gentiluomini agganciati su di lui e la profonda inadeguatezza dei suoi stivali invecchiati, la giacca troppo larga sulle spalle magre.
Il Proiettore continuava a tamburellare contro il suo petto, caldo e costante come il cuore di un uccellino, e fu solo quella vibrazione a dargli il coraggio di aprire la bocca, prendere un respiro, e forzarsi a parlare.
“Io… sono, sono qui per chiedervi di considerare la mia ammissione a questo venerabile circolo di sapienti,” iniziò Tyon, le parole di rito che gli rotolavano fuori dalle labbra come biglie lucide. “Sono qui perché credo di poter contribuire alle vostre nobili ricerche con le mie idee, e la mia serietà di studioso, e con… con la mia fede nei principi di questa istituzione.”
La mente di Tyon guizzò ai cumuli di creazioni impilate malamente in mezzo alle tazze della colazione e ai suoi cambi di abiti, alla parola rigore incastonata a caratteri d’oro sulla facciata della Royal Society, e decise che non era il caso di indugiare troppo su quei pensieri. “Vi ringrazio perciò per la vostra disponibilità, con cui oggi siete qui ad ascoltarmi; e vi presento il mio ultimo e più innovativo progetto, a dimostrazione di quello che posso portare a questa organizzazione.”
Tyon appoggiò a terra l’involto del Proiettore, liberandolo dei suoi strati di listelli e tela cerata con pochi gesti delicati; le mani che tremavano. “A dimostrazione di quanto anch’io possa essere utile.” Sciolse l’ultimo telo, e il Proiettore emerse dall’ombra, scintillando di bagliori color smeraldo sotto le luci artificiali, stagliandosi nel centro esatto del planisfero come la maestosa progenie di un mappamondo di smalto blu e un grammofono d’ottone. Il suo ronzio riempì l’aula come liquido; mormorii sottili e interessati rimbalzarono tra le file dei banchi.
Tyon si sentì colmare il petto di un puro orgoglio dorato, e si sentì un poco più invincibile.
Un tintinnio lo strappò dal suo sollievo. Il Dottor Sycamore aveva aggiunto un’altra zolletta di zucchero al suo the, il viso bianco e garbato e assolutamente illeggibile. Tyon sentì un sorriso che non ricordava di aver fatto morirgli sulle labbra, perché a differenza dei moduli di trasmissione elettrica e dei cento e uno fischi che un motore a vapore può emettere, intuire cosa stesse succedendo dentro una persona era sempre stata un’impresa praticamente impossibile per lui. “Bene. Avete portato un’altra delle vostre invenzioni, vedo.” Il dottore si portò alla bocca la tazzina. “Cosa è in grado di fare?”
Tyon raddrizzò la schiena, iniziando a correre intorno al proiettore, felice che gli fosse stato finalmente chiesto qualcosa che sapeva davvero come fare.
“Oh, è davvero molto semplice, Dottor Sycamore,” rispose alla fine, sollevando lo sguardo sul direttore e sui membri del consiglio nonostante quanto l’idea lo terrorizzasse. “Questo è il Proiettore Mitopoietico di Strutture Astrali ed è lo strumento attraverso cui tutti i bambini di Nuova Londra e di Albione, non importa quanto istruiti o quanto fortunati, potranno imparare a conoscere stelle e pianeti.” Tyon diede una pacca alla sua creazione, una bolla di orgoglio che gli scoppiettava di nuovo nello stomaco. “E imparare ad inventare storie, anche.”
Il Dottor Sycamore smise di sorbire il suo the. Rimise la tazzina a posto, lo schiocco violento come un colpo di pistola. Sollevò un sopracciglio.
La sala era sprofondata nel silenzio più assoluto.
“...Inventare storie, dite?”
 Ma il cuore di Tyon era troppo stregato dalla sua invenzione per accorgersi che ci fosse qualcosa di sbagliato in quel tono. Girò con impazienza la manovella per azionare il meccanismo di avanzamento alternato della pellicola, e accese in tal modo la lampada centrale che generò un fascio conico di luce blu. La pellicola prese a girare con uno sfarfallio metallico, e la luce fece apparire un ologramma che riempì d’improvviso l’aula scientifica come l’odore di incenso in una chiesa.
“Proprio così, inventare storie. E ora vi mostrerò cosa intendo.”
   
 
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