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Autore: Pareidolia    05/08/2019    1 recensioni
Dal testo: "La chiamavano Spettro perché ormai da quasi più di un anno si aggirava per l’intera stazione come se lo fosse. Tanti erano stati i soprannomi che le avevano affibbiato prima di quello; alcuni meno originali, altri più ricercati eppure, fra tutti, Spettro pareva il più adatto."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cos’è la bellezza, se non qualcosa che attira l’attenzione mentale, fisica e sentimentale di uno o più individui? Non una forma perfetta ma una forma che smuove qualcosa dentro di noi, nel profondo del nostro animo. Ed era proprio questo che provavano gli abitanti della stazione spaziale S-01, in orbita attorno a Saturno, quando i loro occhi si posavano sulla figura pallida dello Spettro, dimenticando, anche soltanto per un unico, importantissimo momento chi lei fosse. Guardavano il suo volto perso, i capelli sottilissimi, la corporatura minuta e ne sentivano i passi proseguire lenti lungo il corridoio bianco, uguale a tutti gli altri corridoi della struttura.
La chiamavano Spettro perché ormai da quasi più di un anno si aggirava per l’intera stazione come se lo fosse. Tanti erano stati i soprannomi che le avevano affibbiato prima di quello; alcuni meno originali, altri più ricercati eppure, fra tutti, Spettro pareva il più adatto.
Non parlava con nessuno e tantomeno ascoltava ciò che le veniva detto. Semplicemente camminava, tenendo gli occhi fissi davanti a sé ad osservare il vuoto.
Non è esagerato dire che in molti avrebbero tanto voluto cacciarla dalla stazione, dato che erano inquietati anche solo dalla sua presenza. Più volte alcune madri avevano allontanato gli sguardi dei figli dalla sua figura lenta e pallida e non era raro, invece, che gli uomini ci provassero spudoratamente con lei, infuriandosi quando lei si allontanava senza proferire parola o anche solo guardarli in viso. Ma nella stazione spaziale S-01 sono sempre le chiacchiere ad essere più forti delle azioni e mai il contrario. Una triste abitudine che ormai era ben diffusa persino tra i ragazzi più giovani, sempre più spavaldi e tiranni nei confronti delle ragazze eppure codardi davanti alle guardie.
Proprio di quei ragazzi erano le risate che udiva alle proprie spalle, sussurri incomprensibili tanto erano bassi ma, stringendosi al petto coperto da un maglione color crema il coniglietto di peluche che teneva fra le braccia, ritrovava la forza di cui aveva bisogno e proseguiva.
Al di là dei giganteschi oblò della stazione si poteva scorgere la maestosa forma di Saturno, dal quale la stazione stessa prendeva nome. Era là che gli occhi di tutti gli abitanti della struttura di ferro guardavano quando non incrociavano lo Spettro per i corridoi, poiché solo quei due elementi, che soltanto alcuni consideravano individui, rappresentavano la bellezza nei corridoi bianchi e uguali fra loro. Quale fosse, però, il misterioso legame fra la bellezza dello Spettro e quella di Saturno, nessuno lo sapeva.
Anche quel giorno i passi della ragazza, soffici e cadenzati, echeggiavano pianissimo nel corridoio del decimo piano della struttura, la quale ruotava lentamente nel vuoto dello spazio come se stesse danzando.
-Ah, lo Spettro sta di nuovo facendo la sua passeggiata.- Disse una donna sulla mezza età che la vide passare davanti alla finestra della sua stanza. Le sue pupille erano nere come il baratro dell’invidia.
-Davvero? Ancora non si è stancata, quella?- Rispose un’altra, distogliendo a malapena lo sguardo dallo schermo olografico che teneva fra le mani secche e leggermente rugose. La donna alla finestra continuò a seguire con sguardo curioso e carico di giudizio il percorso della ragazza, la quale si stringeva con forza nel maglione provando un freddo che nessun altro sentiva.
Si era pettinata per bene, quella mattina e non si era per niente truccata. Voleva mantenere il ricordo così com’era rimasto, fisso all’Ottobre dell’anno precedente e, dopo essersi vestita in tutta calma, era uscita dalla sua stanza dalle pareti dipinte a mano di rosso quando ancora la stazione era lontana dall’anello di Saturno.
Si era riempita di molte cose la sua vita, in tutto quel tempo, eppure le sembrava di aver comunque vissuto in un limbo, una dimensione in cui né il tempo né lo spazio erano cambiati anche solo minimamente. Ogni giorno faceva le stesse cose; si faceva la doccia, si pettinava, si vestiva e usciva dalla stanza, ignorando tutti coloro che la circondavano, come se non esistessero affatto.
Ormai i pensieri affollavano con così tanta foga la sua mente che spesso non riusciva a sentire niente di ciò che proveniva alle orecchie dal mondo esterno. Era diventata sorda ai rumori dell’universo che aveva attorno e, in tutta sincerità, la cosa non le dispiaceva affatto, perché preferiva non sentire più niente piuttosto che vivere coi suoni artificiali della stazione nella testa.
Quel giorno fu, però, ben diverso dal solito. Le stelle fuori dagli oblò brillavano forse con più intensità del solito. Il sole, parecchio distante, splendeva di luce bellissima e malinconica e c’era un misterioso silenzio che galleggiava nell’aria creata artificialmente dei corridoi, facendo da sottofondo alla musica degli altoparlanti.
Poco a poco iniziò a sentirsi addosso sguardi asciutti, severi. Non incrociò né percepì nemmeno un solo sorriso.
Sentì l’improvviso impulso di dover fuggire dalla solitudine che permeava ogni centimetro di quel piano, che si aggirava tra gli alloggi bianchi e silenziosi, nonostante fossero abitati. Fuggì, quindi, da tutti quegli individui che si distraevano dai propri schermi olografici solo per guardarla con disprezzo, muovendosi il più rapidamente possibile verso il fondo del corridoio.
Rifugiandosi, finalmente, nel vuoto dell’ascensore, tirò un sospiro e si lasciò scivolare lungo la liscia parete metallica alle proprie spalle, ritrovandosi seduta sul freddo pavimento.
Non si accorse nemmeno dell’ologramma femminile che le apparve accanto e che iniziò a fissarla in silenzio, prima di farle una domanda.
-A quale piano desideri andare, oggi?- La voce femminile del computer centrale della stazione esordì nel silenzio asciutto dell’ascensore, eppure lo Spettro non la sentì. Non registrando alcuna risposta il computer ripeté la domanda.
-L’hangar, per favore.- Fu solo un mormorio ma l’ascensore cominciò a scendere, diretto verso la punta inferiore della stazione spaziale.
Attraversò le porte vetrate di tutti i piani sottostanti a quelli degli alloggi, là dove gli abitanti lavoravano come braccianti per mantenere tutta la costruzione attiva e dove i giganteschi macchinari elettronici pulsavano come organi d’acciaio immensi. Spessi cavi gialli e neri si dilungavano verso ogni muro come lunghissime vene che percorrevano di nascosto l’intera stazione, facendola sembrare un corpo di metallo e vetro, un essere artificiale in cui ogni cosa era simulata. La gravità, l’aria, i suoni. Di vero non c’era niente.
Poi l’ascensore superò i vari piani dedicati ai macchinari, trovandosi separato solo da una spessa superficie trasparente composta da tre strati di differenti materiali, in modo tale che si vedesse l’intero spazio circostante e che il particolare tipo di vetro fosse resistente alla pressione.
Fu in quel momento che i suoi occhi si persero nell’immensità dell’universo, fissando le migliaia di stelle vicine e lontane, i pianeti che le apparivano come piccole sfere, il sole al centro di tutto. Le parve di sfiorare un sogno distante, che ricordava a malapena ma che le era da sempre accanto, in qualche modo.
Quando l’ascensore si fermò all’interno della struttura, nei suoi occhi aveva ancora le stelle e l’infinità dello spazio insieme a una domanda che, però, non voleva valutare. Non ancora.
Le porte si aprirono e l’ologramma del computer centrale la salutò con una mano e un sorriso che mostrava i denti azzurrini, eterei eppure perfetti.
L’hangar era più piccolo di quanto si potrebbe pensare, costruito solo per ospitare navi di passaggio che trasportavano abitanti della Terra o di altre stazioni pronti alla vita sulla S-01, per questo c’era spazio per solo tre navi al massimo, cifra che veniva raggiunta raramente.
Lo Spettro si sedette su una delle panchine dalla seduta morbida. In attesa di qualcosa iniziò a carezzare piano il coniglietto di peluche dal tenue color viola e, di tanto in tanto, si fissava le punte dei piedi coperti da calze arancioni.
-Oh, andatevene tutti a quel paese! Vi odio! Io mi licenzio, capito? Mi licenzio, ecco tutto ciò che ho da dire! Bastardi! Sanguisughe! Non siete altro che degli spilorci attaccati ai vostri maledetti apparecchi elettronici, sempre impegnati a vedere roba che considerate arte e nemmeno capite! Io ve li brucio quegli schermi olografici, capito? Do prima fuoco a quelli, poi ai vostri uffici realizzati da Shimada Takahiro! Ve lo tiro in testa il design rivoluzionario, imbecilli! Voi manco sapete cosa sia il design! Coglioni!- Queste parole riempirono di colpo l’atmosfera piatta dell’hangar, rimbombando tra i muri in ferro lungo i quali, guardando bene, in alcuni punti la vernice bianca era venuta via e in altri apparivano alcune piccole macchie di ruggine. Qualcuno sbatté una porta e lo Spettro udì dei passi pesanti, parecchio rumorosi, dirigersi verso dove era seduta lei.
Dal fondo di un corridoio apparve un uomo alto, dalla corporatura robusta e il passo furioso. Capelli corti coperti da un berretto rosso, una tuta azzurra da lavoro, occhiali dalla montatura nera, occhi sottili ma fissi davanti a sé, un sorriso immobile e involontario, la pelle leggermente scura coperta sul mento da una corta barba. Lo Spettro non poté fare a meno di osservare ogni dettaglio, profondamente colpita dall’aspetto così strano e umano di quel tizio.
L’uomo si sedette accanto a lei, senza manco rendersi conto della sua presenza e si sfilò il cappello con un gesto rapido, scagliandolo a terra e senza preoccuparsi di andare a raccoglierlo.
-Ma come si permette certa gente…? Proprio non riescono a capire. Proprio…- In quel momento l’uomo si bloccò, voltandosi verso la ragazza che lo guardava curiosa, stringendosi con forza al petto il peluche.
Gli occhi sottili e dagli angoli allungati dell’uomo si soffermarono sulla pelle bianca e liscissima dello Spettro, sui suoi occhi grandi e dalle iridi verdi come stagni limpidi, sui capelli d’oro chiarissimo. Arrossì ma la cosa non si notò per via della pelle leggermente scura.
-Chiedo scusa, non mi ero proprio accorto della sua presenza. Mi spiace che abbia sentito certe cose, a volte mi faccio prendere fin troppo la mano ed esagero.- Disse l’uomo abbassando lo sguardo, colto da un imbarazzo al quale non era per nulla abituato e che allargò il suo sorriso.
La ragazza scosse la testa un paio di volte e si voltò  a guardare davanti a sé, senza dire nulla ma mostrando un sorriso quasi infantile, vagamente felice e malinconico.
-Ora che ci penso, però, lei viene spesso qua, vero? Qualche volta mi è capitato di intravederla. Posso chiederle perché? Sta forse aspettando qualcuno?- Lo Spettro annuì, consapevole che l’uomo non potesse conoscere le storie che la riguardavano poiché gli alloggi dei tecnici si trovavano all’interno della struttura dell’hangar.
Per qualche secondo stette in silenzio, indecisa su cosa fare. Gli occhi ora si erano abbassati e la bocca era corrugata in una smorfia strana.
-Mi scusi di nuovo, non volevo essere inopportuno.- Disse l’uomo abbassando la testa in segno di scuse. Teneva le mani chiuse sopra alle ginocchia, era teso.
-Aspetto una persona, sì. Da tanto tempo.- Le parole uscirono dalla bocca dello Spettro rapidamente, uno sforzo che la ragazza riuscì a compiere in una maniera che nemmeno lei comprese. Non pensava nemmeno di esserne capace.
L’uomo la fissò per un secondo, poi si voltò annuendo.
-Già, chi qua dentro non ha aspettato qualcuno. Eppure lei è l’unica che ancora ci crede e continua ad aspettare. E’ sorprendente. Lei fuma, per caso?- La ragazza fece cenno di no.
-Capisco. Io fumavo, tanto tempo fa, ma questo posto mi ha tolto anche questo. La tecnologia, in realtà, mi ha tolto questo mio vizio. Ora…ora non ho più niente. Lei e io stiamo ancora aspettando ma quante speranze abbiamo? A lei è rimasto qualcosa?- Lo Spettro allontanò dal proprio petto il peluche, mostrandolo all’uomo.
-E’ molto carino, devo dire. E se è l’ultima cosa che le è rimasta allora deve anche essere parecchio prezioso.- Lo sguardo dell’uomo si avvicinò al cappello che aveva lanciato lontano. Si alzò, andandolo a recuperare e tornò poi a sedersi accanto alla ragazza.
-Forse qualcosa mi è rimasto, alla fine. Pensandoci, è l’unica cosa che mi distingue dagli altri tecnici dell’hangar. Sono tutti bravi uomini, sa, ma purtroppo i loro occhi non sanno andare oltre queste pareti, non sanno vedere oltre. Lo stesso vale per i dirigenti di questo posto. A cosa serve essere pieni di soldi e avere apparecchiature di ultima generazione se il proprio cuore non sa sospirare, dopotutto?- Ci fu una breve pausa di silenzio.
-Mi scusi, non so perché sto parlando di tutto questo. Io…-
-Non è un problema. Parli pure.- Il sorriso dello Spettro fece arrossire nuovamente l’uomo.
-Grazie mille. Vorrei farle un’altra domanda, è da tanto che aspetta?- La ragazza giocherellò un po’ con le braccia morbide del coniglietto viola, sorridendo e riflettendo sulla domanda, contando attentamente il tempo che era passato.
-Due anni, credo. Ho perso il conto.-
-Due anni, eh. E’ davvero moltissimo. Eppure qua ormai ci vengono sempre meno persone. Sulla Terra stanno sperimentando le prime colonie sui pianeti e ci sono molti più volontari per quelle che per le stazioni spaziali. A volte, in effetti, mi domando per quanto ancora resteremo qua, se mai ci riporteranno indietro ma ogni volta che arriva una nave il conducente mostra i certificati del governo terrestre, affermando che nessuno può salire a bordo per tornare a casa. Forse è un modo per farci capire che ora casa nostra è questa stazione.-
-Forse. Però da qua si vede lo spazio. E’ sempre molto bello, vero?-
Sorpreso da quella frase l’uomo annuì più volte, sorridendo energicamente.
-Decisamente sì, è bellissimo. L’universo che ci circonda, per quanto siano in molti a non guardarlo più, è ciò che di più bello possa mai esistere. Ci ricorda che siamo davanti a qualcosa di immenso, che è più grande di noi eppure ci è simile. Da bambino ho sempre sognato lo spazio, desiderando costantemente di trovarmi qua e per questo ho studiato duramente per raggiungere questo obbiettivo. Ora che ci sono riuscito, però, ho in qualche modo perso qualcosa, qualcosa che non riesco a identificare con precisione. Cosa mi manca? Cosa cerco? Cosa sto aspettando? Sono tante domande ma la risposta continua a mancare.-
La ragazza riusciva a comprendere come si sentisse l’uomo seduto accanto a lei. Chissà quante volte, ormai, aveva sognato le stesse cose e si era posta le stesse domande.
Un volto appare all’improvviso nella sua mente. E’ un volto femminile che le sorride, coperto da alcune lunghissime ciocche di capelli neri come carbone ma lucenti che il vento muove con forza. Dietro quel viso si estende una natura che pare non avere confini, immensa e densa di colori fantastici. Un’immagine lontana nel tempo e nello spazio, risalente ancora alla Terra, a casa. Un’immagine che ci mette poco tempo a sbiadire in una piatta, enorme sfumatura di bianco che si fa più definita rapidamente, diventando un lunghissimo corridoio e una serie di stanze identiche fra loro, senza alcuna personalità.
-Forse è arrivato il momento di smettere di aspettare e muoversi verso qualcosa.- Le parole uscirono spontaneamente dalla bocca dello Spettro, che si sorprese ancor più di prima ma sorrise, felice di aver detto una cosa simile. Uno strano calore le riempì il petto.
Di colpo si alzò, sorprendendo l’uomo che la guardò stupefatto. Senza smettere di sorridere la ragazza gli porse la mano destra, stringendo nella sinistra una zampa del peluche. L’uomo afferrò la mano e si alzò a sua volta, seguendola lungo il corridoio che portava all’ascensore per i piani superiori.
Senza più parlare vi entrarono rapidamente, nonostante ogni cosa nell’intero universo pareva essere rallentata, ruotando attorno a loro e ponendo tutta la propria concentrazione su ciò che stavano per fare.
-Dove volete andare?- Domandò la voce dolcissima del computer centrale, il quale si materializzò davanti a loro con il solito sorriso di luce azzurrina.
-Verso lo spazio.- Rispose lo Spettro.
L’ascensore, allora, partì, lasciandosi dietro i muri bianchi e perfetti della costruzione e sostituendoli con la vastità nera dell’universo, fermandosi a metà del corridoio trasparente. La superficie metallica dell’ascensore si abbassò verso il pavimento, scorrendo rapida e senza fare alcun rumore, permettendo ai due di vedere tutto ciò che li circondava.
Alle loro spalle Saturno, nella sua grandezza, sembrava immobile mentre l’universo popolato da centinaia di migliaia di corpi celesti che loro non potevano vedere sembrava pulsare di una vita che riempì i loro cuori di gioia. Un’emozione irrefrenabile colse il loro animo di sorpresa, mozzando il respiro e annodando la gola di entrambi, come se dovessero piangere da un momento all’altro. E così accadde. Le lacrime iniziarono a calare dai loro occhi silenziosamente, scivolando con delicatezza fino al mento e cadendo verso il pavimento sotto ai loro piedi.
-Tutto questo fa capire molte cose. E’ difficile da spiegare, anche più difficile da esprimere. Forse non ce ne sono di parole per farlo. Forse solo il cuore può dirlo ma senza nessuna lettera, senza nessun suono. Soltanto con un movimento può spiegarci cosa abbiamo davanti. Sono stanca di aspettare qualcosa che non arriverà mai, stanca di essere guardata male da tutti. Questo posto è una maledizione, a volte, ma cos’è la mia sofferenza davanti a tutto questo? Cosa sono io in tutto ciò che ho davanti ora? Penso che, in fondo, valga la pena soffrire un po’ per poter vivere in questa immensità.- Rotte dal pianto, le parole della ragazza giunsero fino al cuore dell’uomo, spezzandolo e facendolo crollare in un pianto che ricordava quello di un bimbo piccolo quando si sente terribilmente triste. E nella sua mente si materializzò proprio questo, l’immagine del se stesso bambino quando, nella notte, si svegliava rendendosi conto che l’infinità dello spazio che aveva visto in realtà non lo stava affatto circondando, che era tutto un sogno. Solo ora comprese, però, che lui aveva sempre fatto parte dell’universo.
Siamo tutti uno, non poté che pensare a questo mentre i suoi occhi vagavano da una stella all’altra.
Fu così che, nell’immensità sconosciuta e silenziosa dell’universo, i due si abbracciarono, felici del contatto fra i loro corpi e sentendo di aver finalmente trovato ciò che per molto tempo avevano cercato, aspettato, pensato più volte di aver perso.
E’ quindi questa la bellezza, il sentimento profondo di qualcosa che è stato a lungo cercato ovunque e che finalmente si palesa davanti ai nostri occhi. Qualcosa capace di svanire in un secondo o di durare un solo istante.
   
 
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