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Autore: Darlene_    07/08/2019    1 recensioni
Una raccolta di storie che analizzano i rapporti familiari dei personaggi più amati della serie, scritte per la #summerbingochallenge del gruppo Hurt/comfort fanfiction e fanart
Dal testo:
"Aveva anche aggiunto una parola che Cheryl, con i suoi dieci anni, proprio non aveva capito: lesbica"
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Slash | Personaggi: Cheryl Blossom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia scritta per il gruppo
Hurt Comfort - fanfiction e fanart
 
#Summerbingochallenge2019
 
 


BULL(ying)SHIT
 


 
Personaggi: Jughead, Archie
Prompt: 78 bullismo





 
 
Nota: il personaggio di Jughead potrebbe risultare OOC, ma bisogna tener conto che in questa storia è più piccolo rispetto al periodo della serie televisiva.



 
 
 
 
 
All’apparenza, per un turista poco informato, Riverdale poteva sembrare un ridente luogo dove far crescere i propri figli, ma se si scavava un poco più a fondo si scopriva un mondo spaccato a metà: da un lato il Northside, ricco e accattivante, con quelle sue belle villette a schiera, l’ufficio del sindaco e delle scuole prestigiose, dall’altra parte il Southside, squassato da lotte intestine tra bande, povertà e abbandono.
Jughead Jones era preso esattamente a metà tra quei due mondi che non avevano nulla in comune e sapeva che, per sopravvivere, bisognava passare inosservati, tenere la testa bassa e non infastidire nessuno. Si potrebbe pensare che sia facile, ma non lo è quando sei un ragazzino smilzo che porta un buffo cappello e hai interessi diversi da tutti i tuoi coetanei.
Era una mattinata come le altre quando, al cambio dell’ora, l’undicenne Jughead si apprestava a posare il materiale dell’ora precedente nel suo armadietto. Fissava le sue scarpe sbiadite e fuori moda, cercando di non attirare troppo l’attenzione, quando qualcuno alle sue spalle lo spinse buttandolo a terra. Intorno a lui si levò un coro di risatine mentre i libri finivano a terra, lasciando sfuggire dalle loro pagine innumerevoli fogli scarabocchiati da una scrittura veloce e spesso incomprensibile.
Mike un ragazzone già completamente sviluppato (probabilmente frequentava l’ultimo anno), li raccolse, leggendo qualche breve frase per divertire il pubblico.
“Piccola principessa, ti piace raccontare favolette?” Schernì Jughead con un tono di superiorità, per mostrare a tutti la sua leadership.
L’altro si rialzò lentamente, pulendosi le ginocchia dei pantaloni e continuando a tenere gli occhi fissi su quelle piastrelle gialline del corridoio. Sapeva di dover ignorare quelle cattiverie gratuite, anche se voleva solo urlare e tirare un pugno su quel brutto muso.
Non ottenendo risposta Mike appallottolò la carta, strappandone alcuni pezzi.
“Se faccio così cosa fai? Ti metti a piangere, sfigato?”
A quel punto Jug non riuscì a trattenersi. Cercò di mantenere un tono pacato e noncurante, rispondendo: “Sai, dovevo proprio buttarli, mi hai fatto un favore. Se vuoi puoi leggerli, o forse no perché il mio lessico è troppo complicato per uno stupido come te.”
Nessuno, nel corso degli anni, aveva mai avuto il coraggio di provocare Micheal Smith e ciò lo lasciò di stucco.
Per un attimo il pubblico di studenti che si era radunato per assistere alla scena restò in silenzio. L’intero atrio sembrava congelato: da una parte facce stupite, dall’altra quelle arrabbiate dei bulli. Ci volle solo un secondo prima che tutto il branco, seguendo un comando di Mike, saltasse addosso a Jughead. Lo riempirono di calci e pugni, lo fecero cadere a terra, tirandogli i capelli e sedendosi a cavalcioni sul suo esile torace per il solo gusto di renderlo completamente sottomesso a loro.
La folla si accorse di quello che stava accadendo, ma nessuno dei presenti ebbe il coraggio di intervenire o, almeno, di chiedere aiuto. Restavano immobili ad osservare, chiedendosi come sarebbe andata a finire.
Vedendo che Jug non reagiva, ben presto gli aggressori si stufarono, disperdendosi in mezzo al gruppo di adolescenti che si dirigevano verso la lezione successiva.
Quando il corridoio fu finalmente svuotato, Jones si alzò, senza degnarsi dei libri o del berretto abbandonato a terra, e corse il più lontano possibile da quel tragico episodio.
 
Il solaio era un luogo sconosciuto a molti, dominato da strati di polvere ed insetti, ma Jug aveva scoperto quel posto dopo solo due settimane dalla sua iscrizione a scuola, lo considerava il suo rifugio sicuro, lontano dalle occhiate e dai pregiudizi altrui, inviolabile da parte di chiunque.
Si asciugò il rivoletto di sangue che scendeva dal suo naso, pulendosi con la camicia. Seduto conto delle travi di legno raccolse le gambe al petto e cominciò a piangere. Era lì da parecchio tempo quando udì dei passi leggere in avvicinamento. Si asciugò gli occhi, cercando di darsi un contegno.
“Jug stai bene?” La chioma rossa di Archie comparve, seguita dal corpo del suo migliore, nonché unico, amico.
Lui annuì, non voleva farsi vedere in quelle condizioni, anche se sapeva che l’altro non lo avrebbe mai raccontato a nessuno, né lo avrebbe preso in giro.
Archie trasse delle bende e del disinfettante dalle tasche della felpa e si sedette accanto al moro.
“Le ho rubate in infermeria, non se ne è accorto nessuno.”
Jug sorrise appena, apprezzava molto il gesto, ma non aveva voglia di parlare.
Archie lo fece voltare per averlo di fronte e gli prese il viso tra le mani. Non aveva mai curato nessuno, ma suo papà Fred gli medicava spesso le sbucciature sulle ginocchia e mimò i suoi gesti. Prese il disinfettante e ne impregnò un batuffolo di cotone, avvisando l’amico che avrebbe sentito un po’ di bruciore. Strofinò leggermente il graffio sullo zigomo e il labbro spaccato. Pensò che forse necessitava di punti di sutura, ma non sapeva come fare e poi non usciva così tanto sangue. Ripetè lo stesso trattamento anche sul gomito e sul ginocchio, avvolgendoli in una benda pulita. I suoi gesti, sebbene insicuri erano delicati, accompagnati da piccole spiegazioni o incitazioni a tenere duro. Quando finalmente ebbe terminato si mise a gambe incociate e asciugò una lacrima non ancora seccata che colava lungo il naso di Jug.
“Chi è stato a farti questo? Potremmo parlarne al preside oppure a mio padre…”
L’altro scosse la testa.
“Devi denunciarli, altrimenti continueranno a farti del male!” Già all’epoca Archie Andrews aveva un senso della giustizia decisamente spiccato.
“Non servirà a nulla, se non a farli arrabbiare ancora di più, e poi non sono messo così male, posso sopportare.”
“Jug…” Cercò di convincerlo il rosso, ma fu subito fermato.
“Sono abituato. Qualche volta anche mio padre…” Non completò la frase. “Non è cattivo, è solo che beve tanto e arriva a casa arrabbiato.”
Archie gli circondò le esili spalle con un braccio, come a volerlo proteggere.
“Per questo stavi piangendo?”
Come risposta ottenne solo un cenno negativo con il capo. Restarono in silenzio ad ascoltare i rumori provenienti dalle classi sottostanti. Probabilmente li stavano cercando, forse li avrebbero puniti, ma in quel momento nulla contava.
La campana del convento delle sorelle silenti battè dodici rintocchi: presto sarebbero potuti uscire da scuola e fuggire, almeno per quel pomeriggio, dai problemi ad essa legati.
“Mamma se ne è andata.” Lo disse a bassa voce, era la prima volta che lo faceva, perché per diversi giorni era rimasto nella convinzione che tenersi dentro quelle parole le avrebbe rese meno reali.
Archie strabuzzò gli occhi. Sapeva che Gladys e FP avevano dei problemi, ma non pensava fino a quel punto.
“Ha preso JB ed se ne è andata senza nemmeno salutarmi.”
Il rosso si sporse in avanti, abbracciando il suo compagno di scuola.
“Oh, Jug, mi dispiace tanto!”
“Non è colpa tua.” Rispose secco Jones.
A quel punto Archie capì il motivo del pianto e l’essersi rifugiato in soffitta: Jughead si sentiva colpevole.
“Nemmeno tua. Gladys ed FP hanno i loro problemi. Anche i miei genitori litigano spesso.” Il suo tono era rassicurante, anche se incerto: anche lui temeva che sua madre e suo padre avrebbero chiesto il divorzio e ne era spaventato.
“Lei mi ha abbandonato! Mi ha lasciato qui, con un post it in cui mi chiedeva scusa, ma non poteva portarmi con lei!”
A quel punto tutti i muri che Jug si era costruito caddero e cominciò a piangere. Pianse per la perdita di Gladys e della sua amata sorella, per il dolore causatogli dal padre e per tutte le volte che si sentiva strano ed inadeguato. Archie rimase accanto a lui, senza parlare, tra loro non c’era mai stato bisogno di dialoghi per comprendersi.
La campanella decretò la fine della giornata scolastica, ma loro restarono ancora in quel solaio polveroso, uno abbracciato all’altro, in quella che sarebbe diventata la loro eterna promessa di amicizia.
Quella notte Jug dormì a casa di Archie e nessuno, nemmeno FP, ebbe nulla da contestare. In quel triste giorno Jug e Archie erano diventati fratelli.
  
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