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Autore: _Black or White_    08/08/2019    6 recensioni
1930, Italia, Venezia.
Manicomio di Poveglia.
Cosa succede dentro la testa di un matto?
Feliciano Vargas, giovane pittore veneziano, è perseguitato dalle visioni di terribili mostri abissali, e per questo viene sbattuto in manicomio.
Ma in quell'inferno pieno solo di tortura e morte... l'unica luce, l'unico essere umano deciso ad aiutarlo, è un dottore tedesco gentile.
[GerIta]
[AU, OOC!Italia, causa trama e ambientazione]
[Accenni UsUk e Spamano]
Non adatta ai sensibili.
Genere: Erotico, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Germania/Ludwig, Inghilterra/Arthur Kirkland, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Storia scritta per un contest più di un anno fa.
Ai tempi decisi di ritirarla e cancellarla da efp, a causa di alcune diatribe avute con uno dei giudici.
Ho deciso di ricaricarla perché, essendo praticamente già pronta, mi sembrava uno spreco lasciarla in cartella.
Buona lettura.

ATTENZIONE

In questa storia vengono trattati temi di violenza fisica, verbale e mentale. Se siete particolarmente sensibili, vi sconsiglio di continuare la lettura.


IO NON SONO PAZZO




Mi riferirò a me stesso come “Prigioniero di Poveglia”, perché è qui che giaccio, ed è qui che attendo.
Prigioniero di Poveglia non ricorda più il suo vero nome, perché glielo hanno strappato via dalla testa, insieme ai vestiti, ai legami, all’identità, come l’ennesimo pezzo freddo in una collezione di soldatini di stagno.
Prega e spera ormai da così tanto tempo che la sua stessa carne è divenuta parte del cemento e dei mattoni.
Ma presto, molto presto, se ne andrà da qui.
Glielo hanno promesso, glielo ha promesso lui… e lui non gli ha mai raccontato bugie.
Gli ha promesso che lo avrebbe fatto uscire, e questo è l’unico pensiero capace di tenere in vita Prigioniero di Poveglia.
Me ne andrò da qui
Lo penso continuamente, non posso fare altro.
Mi ripeto queste parole all’infinito, come un disco rotto, una cantilena dal borbottio incessante, fino a quando non ne rimango ossessionato… e allora mi perdo nei deliri grandiosi dell’alto cancello di ferro che si spalanca, rivelandomi tutta la bellezza del mondo esterno, la libertà, la vita che mi aspetta.
Perché Prigioniero di Poveglia è ancora così giovane… troppo giovane per morire.
Esatto: non sono pronto a morire. Non in questo posto.
Poveglia, o Città della Luce, come la chiamano i pazzi, adesso è casa mia.
Uno sputo di terra a sud della Laguna Veneta, con la superficie ricoperta da pioppi, vigneti, natura lussureggiante e da un complesso di undici fabbricati dell’anteguerra.
Poveglia, casa mia, è un manicomio.
La mia vera casa, il luogo da cui provengo e dove sono nato e cresciuto, ormai non riesco che a intravederlo: al di là dell’orizzonte, piccole torrette acuminate che spuntano dalla piatta Laguna Veneta, le spiagge del Lido che attraversano le acque azzurrine e profonde, il profilo del Canale della Giudecca, che si confonde con le nebbie mistiche del primo mattino.
Venezia, perché mi hai abbandonato?
Ero così innamorato di te, dei tuoi porti piastrellati che arrossivano quando il sole li baciava, degli edifici bianchi di cui facevi mostra, fiera e superba nella tua bellezza, corteggiata e desiderata dal mondo intero.
Venezia, non mi vuoi più?
Perché sono qui, seduto in questo sconsolato giardino, circondato dalla solitudine e dalla pazzia?
Cosa non darei per poter sentire, ancora una volta, il rintocco delle campane di San Marco, o fermarmi in Piazza a sorseggiare un caffè da Florian, o ammirare la facciata gotica del Palazzo Loredan dell’Ambasciatore.
Mi manchi, Venezia… mi manca attraversarti su una gondola nera, mi manca la mia vita da vero e proprio purosangue veneziano, da signorino d’alto lignaggio.
Mi manca mio fratello.
Ormai non ricordo più neanche il suo nome, o il suo viso… però il ricordo più importante di lui, quello l’ho conservato.
Me lo stringo al petto tutte le notti, soffiandoci sopra per mantenerlo in vita, come le braci di un fuoco che muore, affamato d’ossigeno.
È stato mio fratello a mandarmi qua.
È colpa sua se non ho più un valore per l’umanità, se il mio corpo porta i segni di torture indicibili, se perdo giorno dopo giorno un pezzetto del mio presente… è colpa sua, se mi sono dimenticato chi sono.
Oh, quanto odio ho provato, nei confronti di mio fratello!
L’ho maledetto, ho bestemmiato contro di lui, ho desiderato di poter scavalcare le mura e fuggire, soltanto per tornare a cercarlo… il traditore del suo stesso sangue, colui che più di chiunque altro avrebbe dovuto capirmi e starmi vicino.
Ma adesso… adesso sono stufo di essere arrabbiato con lui, e poi mi hanno promesso che, se mi comporto bene, se la smetto di fare il pazzo, mi faranno uscire di qui.
E nient’altro conta più di questo: non la rabbia per mio fratello, non la delusione, e nemmeno la voglia di vendicarsi…
Conta soltanto andare via.
Sospiro profondamente: è piuttosto facile starsene tranquilli e sereni, in un pomeriggio pigro e piovigginoso come questo.
Il giardino è ancora inzuppato dal recente temporale, e ogni cosa intorno a me luccica di rugiada.
I profili slanciati dei cipressi saltano fuori dalle ombre liquide come inquietanti sentinelle, e i raggi solari s’infrangono sognanti tra i rami delle querce e dei castagni, screziando d’oro le macchie d’erba bagnata.
Una ragnatela, tesa tra due rametti, brilla come vetro, intrecciata di piccolissime perle d’acqua, e a ogni sbuffo di vento il grosso ragno appeso rimbalza lievemente.
Un usignolo cinguetta in una macchia di tassi, riempiendo il parchetto con la sua voce acuta e melodiosa.
Un codirosso si posa con un frullo d’ali sullo schienale della mia panchina preferita, vicinissimo alla mia spalla.
Sorrido, guardandolo.
Quante volte, dentro la mia testa, ho spalancato immense ali di piume candide, attraversando cieli e paesi per lasciarmi alle spalle, per sempre, questo inferno.
Volare via… libero.
Se chiudo gli occhi, se respiro a pieni polmoni questa fragranza intensa di fango ed erba, posso davvero volarmene via con la mente… posso fingere di non trovarmi in un manicomio.
All’improvviso un urlo straziante squarcia il silenzio, distruggendo in un solo istante tutte le mie illusioni.
Sussulto, spaventato, e mi volto verso il sentiero tra le querce, quello che scende sdrucciolando verso ovest, dove sta la rimessa per le barche.
Se viene da lì, non può che trattarsi di un nuovo arrivato… e infatti due infermieri sbucano da dietro i tronchi chiazzati di muschio, trascinando di peso un poveraccio urlante, che scalcia e si sbraccia con tutte le sue forze, come se lo stessero guidando verso il patibolo.
Si tratta di un ragazzo ancora così giovane, anche se più vecchio di me: i suoi grandi occhioni azzurri affogano nelle lacrime di disperazione che tutti noi abbiamo versato, all’inizio… ma di cui ben presto si ritroverà a secco.
Gli spessi occhiali che porta penzolano crepati da un orecchio, e la pelata ancora fresca di rasatura tradisce una sfumatura biondiccia, color nocciolato.
Doveva essere stato un gran bel giovanotto, un tempo.
Adesso la malattia lo ha rinsecchito come una prugna dimenticata sotto al sole, scavandogli fosse di lunghe notti insonni sotto le palpebre, incavandogli le guance e l’ossatura intorno al naso, rendendo il suo volto orribilmente simile a quello di un teschio.
È vero… mi rendo conto che anch’io devo avere un aspetto simile.
Però io sono qui da molto più tempo di lui: i miei capelli sono ricresciuti e arrivano a solleticarmi le spalle, e il numero “123” che mi marchia l’interno del braccio non brucia più, non fa più male.
La crisi isterica del nuovo arrivato peggiora, e allora gli infermieri sono costretti ad afferrarlo sotto le ascelle e a trasportarlo come un cadavere; immagine che, in effetti, calza a pennello su ciascuno di loro, che sono entrati a Poveglia e che probabilmente non ne usciranno mai.
Scrollo le spalle con un sospiro stanco, insofferente, perché ormai non m’importa più di tutte queste povere anime.
Non ho più alcuna pietà né misericordia da sprecare per loro, perché adesso mi preme feroce la voglia di vivere, e non posso pensare ad altri se non a me stesso.
No… ecco, vedi? C’è una pozzanghera vicino ai miei piedi nudi.
Se ci guardo dentro, posso scorgere il vago riflesso di un ragazzo giovane, pallido e magro, ma con una lunga zazzera di capelli rossicci, e poi due occhi vivi, commossi, ricolmi di speranza… e non un cranio rasato da schiavo, non uno sguardo spiritato, dove non c’è spazio per niente, se non per la paura e il breve lampo della follia.
Esatto. Io non sono come loro!
Non sono come quel povero giovanotto, trascinato nella terra molle verso l’inizio della sua fine.
Io sto per andarmene di qua, sto per ricominciare una nuova vita, sto per rinascere.
Io posso tornare a essere felice.
Questo pensiero mi rassicura, e allora non è poi così difficile ignorare le grida del matto e il ringhiare rabbioso dei due infermieri.
Mi passano davanti, lottando ferocemente tra loro, come se non esistessi; tengo lo sguardo basso, fisso sull’acqua torbida della pozza, e aspetto che se ne vadano.
Ed è adesso, in questo istante infinitesimale, che li vedo.
Facce molli e rugose, labbra grasse e narici piatte, occhi sporgenti e acquosi, pelli viscide che fremono, irte di scaglie verdastre.
La superficie della pozza non riflette degli esseri umani, ma mostri disgustosamente ingobbiti e untuosi, che strisciano deformi e lenti nel fango.
E mi fissano.
I loro occhi mi scrutano attraverso l’acqua, perforandomi con enormi pupille nere, e brillano d’un vago bagliore giallastro.
Merda… non di nuovo!
Mi afferro la testa con mani tremanti, stringo gli occhi con tanta forza che iniziano a lacrimare, mentre dalle mie labbra rinsecchite esce la magica nenia che mi ha insegnato lui, la stessa che ripeto ogni stramaledetta volta.

“Ogni tanto li vedo ancora
sono dappertutto.

Chiudo gli occhi e la pace mi divora.
Stiamo calmi, innanzitutto.

Dottore, ho paura
quel che vedo è reale?

No, Feliciano, è invenzione pura
perché hai una fantasia eccezionale.

Non dimenticare mai:

mostri, spiriti, uomo-animale
e tutte le bestie mai viste
non possono farti del male.

Perché, in realtà, tutto ciò non esiste.”



Socchiudo gli occhi cautamente: ho una paura tremenda di trovarli ancora lì, fermi e silenziosi, intenti ad osservarmi…
E invece ha funzionato.
L’acqua grigia nella pozzanghera rispecchia le cose giuste, adesso, con i due infermieri e il povero pazzo che si allontanano verso il grande edificio rosso.
E il sollievo mi avvolge le spalle come una calda trapunta.
Grazie, Dio, grazie!
Ma allora non mi hai ancora dimenticato!
Mi guardi ancora da lassù, ogni tanto, rischiarando le tenebre della pazzia con la luce della ragione.
Sono così felice che non riesco proprio a trattenermi e scoppio in una risata spasmodica, un po’ roca, perché è da tanto tempo che non parlo ad alta voce.
Io parlo soltanto con lui, ormai, e con nessun altro.
Oh, non vedo l’ora di dirglielo! Non vedo l’ora di raccontargli dei miei progressi, di ringraziarlo, perché la filastrocca ha funzionato!
Sarà fiero di me? Mi farà i complimenti? Racconterà al direttore dei miei miglioramenti?
Che strano, però…
“Feliciano”? Feliciano…
Ha un suono famigliare, ma non riesco a capire il perché.
Sicuramente ha qualcosa a che fare con il passato, ma non voglio ricordare ciò che resta di me, non voglio ricordare mio fratello e il motivo per cui mi trovo qui.
Perché quel ricordo mi fa soffrire troppo, troppo… e sono così stanco di piangere, di stare male.
Più mi sforzo di non pensarci, più i ricordi tornano a galla: grossi e pesanti macigni di colpa e dolore, che galleggiano invitanti nel lago della mia memoria, impossibili da far affondare, impossibili da spingere sotto.
A questo punto, devo ricordare.
E allora premo la schiena contro la ruvida e gelida pietra della panchina, abbandono la testa all’indietro, lasciandomi accarezzare dalle dita del sole… e tutto scivola via.
Tutto.


Tanto tempo fa, anche se quanto non saprei dirlo.
Quando ancora avevo un nome, una vera casa, un lavoro, una fidanzata, una famiglia.
Quando ancora esistevo, quando ancora ero un uomo libero.
Dicevo di vedere delle cose… cose che mi spaventavano, che mi facevano venir pazzo.
Facce negli specchi, volti affacciati alle finestre, occhi giallastri che si aprivano nel buio, fissandomi.
Un popolo di mostri blasfemi, delle quali sembianze grottesche non avevo mai conosciuto eguali sulla Terra.
Mi parlavano, a volte, sussurrandomi a fior d’orecchio con voci provenienti direttamente dall’inferno; mi alitavano sulla nuca con fiato marcio, scatenandomi un lungo brivido d’orrore lungo tutta la spina dorsale; mi sfioravano con dita scheletriche, appuntite, e il loro tocco era viscido e freddo, come quello di una rana.
Presto iniziai a incontrarli anche nei miei sogni, e fu allora che uscii completamente di testa.
Pregai mio fratello di liberarmi da quell’incubo, lo supplicai, esattamente come supplicai Dio.
Ma nessun altro vedeva quello che vedevo io.

-Gesù Cristo, Feliciano… ma cosa stai dicendo?-
-Non me lo sto inventando, Lovino! Lo giuro!-


Se solo me ne fossi stato zitto.
Se solo avessi finto di non vedere quei fantasmi dagli abissi dell’impossibile, se solo avessi continuato a comportarmi normalmente, da essere umano… adesso non sarei qui.
Mi sbatterono in manicomio, su quell’isolotto dimenticato da chiunque, perfino dal Signore.
Lì dentro ho smesso di vivere.
Ricordo che scesi dalla barca in quel piccolo porticciolo umido e sciaguattante.
Mi guidarono su per il sentiero infestato di erbacce e radici sporgenti, tenuto per le braccia da due infermieri, esattamente come il poveraccio del mio presente.
E ricordo il terrore che provai, davanti a quella facciata di mattoni rossi.
Le finestre a tutto sesto avevano le sbarre, ed erano mille occhi che mi fissavano.
Il portone principale era enorme, una bocca spalancata pronta per inghiottirmi.
Alle spalle dell’edificio spuntava un alto campanile acuminato, tetro, silenzioso, dimora degli spiriti dei morti di peste.
Proprio così: Poveglia era stata anche un lazzaretto.
Su quest’isola maligna erano stati bruciati e sepolti i corpi di centinaia di malati, le ossa dei quali ancora giacevano nel sottosuolo, imputridendo sotto i nostri piedi, avvelenando la terra, l’aria, la pace…
Non volevo stare lì, in mezzo ai matti, in mezzo ai morti; dopotutto io non avevo fatto altro che raccontare la pura verità.
Non meritavo di finire in un posto del genere.
Ricordo che cominciai a urlare, ad agitarmi, tentando di togliermi di dosso quelle mani rozze e impazienti.
-No! Io non ci vado! Non ci vado, lì dentro!-
-Va tutto bene, Vargas, stia calmo!-
-No! Lasciatemi!-
Mi trascinarono verso il portone, e l’ombra nefasta di quelle mura rosse mi scatenò il peggior attacco di panico che avessi mai avuto.
-Lasciatemi andare! Me ne torno a casa!-
-Non c’è niente di cui aver paura! Starà benissimo, la cureranno!-
-Non è vero!-
-Qui la guariranno da ogni male! Deve avere fede!-
-NO!-
Mi dimenai come un selvaggio, strappando le cuciture del mio giaccone, cadendo su quella terra maledetta e piena di morti, arrancando nel fango come un maiale, scalciando, mordendo, graffiando gli infermieri che tentavano di immobilizzarmi.
-Direttore! Direttore Ballarin!-
-Che cosa sta succedendo qui?!-
Voci, e poi facce; altre mani che calavano su di me, afferrandomi rudemente, schiacciandomi, facendomi un male bestiale.
Bestemmiai, furioso e sudato.
Potevo ancora vedere il sentiero tra le querce: se solo fossi riuscito a raggiungerlo, avrei potuto saltare a bordo della stessa barca con la quale ero arrivato, e fuggire via… di nuovo a casa. Al sicuro.
Mi spinsero in ginocchio, e poi pancia a terra, con la faccia nel fango molle.
Qualcuno mi strattonò per i capelli, così forte che gridai, e mi scoprì il collo.
Erano in quattro, dei quali due grossi come armadi e armati di strane cinghie spesse e durissime.
Mi torsero le braccia dietro la schiena e venni legato come un cane rabbioso, mentre un infermiere, sopra di me, tirava un paio di colpetti a una sottile siringa, e la calava sulla mia carne indifesa, cedevole.
Spalancai gli occhi per l’orrore.
Sapevo cosa volevano farmi, ma non dovevo permetterglielo! Non dovevo lasciare che mi toccassero, che mi drogassero, che mi trasformassero in un pupazzo senz’anima.
-No! NO! Io non sono pazzo! Non sono pazzo!-
Mi agitai con la forza della disperazione, tagliandomi i polsi con il cuoio delle costrizioni e mordendo a sangue qualche braccio.
Una mano ruvida affondò le dita nei muscoli della mia mandibola e fui costretto a spalancare la bocca, dove m’infilarono un panno arrotolato, premendolo così affondo che venni squassato da un conato di vomito.
E poi avvertii la puntura.
Ringhiai contro il tessuto lercio, soffocando un fiume di bestemmie, mentre il peso dei quattro aguzzini mi faceva sprofondare nel pantano fino alle orecchie.
E già il mondo mi si appannava davanti alle pupille, i sensi si scioglievano in un letargo irresistibile, e le forze morivano dentro le mie ossa stanche.
Maledetti criminali… come osavano farmi questo?
A me, che sono un nobile, un patrizio, dal sangue blu come uno zaffiro prezioso!
Non vi era alcun rispetto per il mio candore aristocratico, e sembrava che nessuno si rendesse conto di quanto quel trattamento mi feriva nel profondo.
Ingannato, pugnalato alle spalle dalla mia stessa carne, abbandonato dal mondo intero, scivolai in un coma allucinante.
Quel buio fu quasi un sollievo.
Avrei preferito spegnermi così per sempre, e non dover mai più riaprire gli occhi.


Rinvenii con un gemito strozzato, ma ci volle qualche secondo prima che i miei sensi riuscissero ad esplorare il mondo circostante, ancora intorpiditi dal coma indotto.
Una luce bianca, troppo bianca, senza misericordia e senza amore.
Pareti di piastrelle chiare. Tutte uguali, tutte tristi.
Sotto le dita un tessuto ruvido e leggero, e dietro la testa qualcosa di morbido.
Ero legato a un letto di ferro.
Intorno a me pianti e lamenti, urla, bestemmie, colpi di tosse, risate clamorose.
Ero finito all’inferno.
Cercai di mettermi seduto, ma i polsi legati al letto me lo impedirono.
Guaii come un cane quando i lacci mi strofinarono sulle ferite ancora fresche, ricordo del mio primo amorevole saluto alla nuova casa.
Il mio lamento attirò l’attenzione di un infermiere, che si avvicinò al mio letto e mi toccò la faccia con mani rudi: mi sollevò una palpebra e controllò il colore della sclera, stimolò la pupilla, passandoci avanti e indietro con una matita, mi aprì la bocca e osservò l’aspetto della lingua.
Il suo tocco mi disgustava.
Avrei tanto voluto allontanargli le mani con uno schiaffo offeso, perché nessuno, prima di quel maledetto giorno, aveva mai osato invadere il mio spazio privato in un modo così violento.
Però ero così stordito, così disorientato… qualsiasi cosa avessero messo dentro quella siringa, mi aveva reso docile e arrendevole come una pecorella.
L’infermiere smise finalmente di toccarmi e chiamò a gran voce: -Il paziente numero 123 si è ripreso!-
Il suono del mio nuovo nome mi spaventò, da principio, ma avevo la bocca ancora troppo impastata per poter rispondere a tono.
Altri due infermieri si avvicinarono e cominciarono a visitarmi da capo a piedi.
Fu soltanto in quel momento che mi resi conto d’essere stato rasato a zero, di avere il numero “123” marchiato all’interno del braccio, ancora arrossato e pulsante, e d’indossare una veste bianca e sterile, lunga fino alle ginocchia.
Non avevo nient’altro addosso, e ricordo che mi sentii orribilmente nudo, disarmato, come colato in un banale stampino uguale per tutti, misero pezzo senza valore dell’infinita fabbrica di bambole della quale ero caduto in trappola.
Mi presero l’altezza, il peso, la pressione; controllarono il mio equilibrio e la mia memoria a breve termine, e ancora una volta provai un lungo brivido di ribrezzo nel farmi toccare da mani estranee e fredde, prive di calore e di gentilezza.
Mi bombardarono di domande stupide e insensate, completamente sordi alle mie, di domande.
-Boscolo, qui è tutto in regola-
-Allora vado a informare il dottore, Senarigo?-
-Sì, così potrà effettuare la prima visita. Il paziente è il numero 123-
Uno dei due infermieri si allontanò.
Dottore? Dottore significava autorità, istruzione, potere.
Forse lui mi avrebbe ascoltato… forse con lui sarei riuscito a comunicare, a spiegare che c’era stato un grosso errore, che io non ero pazzo, e che dovevo tornare assolutamente a casa.
Perché avevo un fratello che mi stava aspettando preoccupato, un lavoro meraviglioso che amavo e non volevo abbandonare, una fidanzata in pensiero per me, una vita da riottenere.
Ecco, quelle quattro pareti claustrofobiche stavano già schiacciando la mia coscienza, spaccando uno per uno, lentamente, i miei ricordi e la mia realtà.
Perché Lovino non poteva avermi tradito e Sakura non poteva avermi dimenticato.
Venni condotto lungo uno stretto corridoio asettico e accecante, e man mano che gli effetti della droga colavano via dalle mie vene, divenni consapevole di tante porte sul lato destro del muro, piene di cartigli spaventosi, quali “Reparto Osservazione”, “Reparto Tranquilli”, “Sala Proiettore”, “Chirurgia”…
Sul lato sinistro, invece, si aprivano grandi finestre a tutto sesto, come quelle che avevo visto dall’esterno.
Erano completamente sbarrate da grossi ferri soffocanti, e se ne stavano lì come a ricordarmi che non sarei mai potuto fuggire da quel posto.
Improvvisamente, gli infermieri mi fermarono di fronte a un vecchio ascensore, una gabbia di metallo stridente.
Salimmo al piano superiore e camminammo ancora un po’.
Potevo udire, nelle profondità di quelle pareti di stucco, urla lontane e tremende, a volte attutite, altre così chiare e limpide da farmi saltare in aria, terrorizzato.
Erano urla di persone, oppure di demoni?
Mi fermarono di nuovo, questa volta davanti a un corridoio contrassegnato con la targhetta “Ambulatori Medici”.
Bussarono a una delle tante porte di legno scuro, e una voce li invitò ad entrare.
La stanza era piuttosto piccola, e anche la finestra posta sul fondo aveva le sbarre.
Fuori dall’edificio stava calando un tramonto spettacolare: rosso intenso e color albicocca a ovest, dove il sole s’inabissava oltre la linea dei vigneti e della Laguna, e blu pavone sfumato di violetto a est, già punteggiato dalle prime stelle d’argento.
Forse fu il buonumore che mi misero quei colori a farmi sentire più tranquillo.
Di certo non fu l’aspetto del mio dottore.
Gli infermieri mi spinsero seduto su una sedia di paglia e legno e si piazzarono appena fuori dalla porta dell’ambulatorio, come due guardie, pronti a intervenire se fossi uscito di testa un’altra volta.
Mi serrai le mani in grembo, sperando che così ne avrei arrestato il tremore, e sollevai timidamente gli occhi.
Era alto, grande e grosso.
Avevo sempre pensato che i medici fossero tutti dei tipetti nervosi e smunti, solo testa e niente muscoli, ma questo qui sembrava più uno di quegli armadi che mi avevano sottomesso nella fanghiglia.
La mascella squadrata, il naso lungo e dritto, la fronte alta, i corti capelli biondissimi e perfettamente pettinati all’indietro… e infine quegli incredibili occhi azzurri.
Sembrava un nordico, forse tedesco.
Un medico tedesco qui, a Venezia, in Italia? Doveva essere invischiato in qualche esperimento nazista su cavie umane, e quale merce migliore dei matti di Poveglia?
Non mi piacque per niente.
Aveva uno sguardo penetrante, severo, teneva il mento leggermente sollevato e la schiena dritta come un pezzo di legno.
Mi faceva paura.
-Dunque… Feliciano Vargas, giusto?- esordì, e la sua voce era roca e profonda.
Deglutii intimorito e annuii, secco.
Esatto, il mio nome era Feliciano Vargas.
Feliciano, non “numero 123”.
-Allora, Vargas, io sono il dottor Beilschmidt. Mi è stato affidato il suo caso. Quindi, da oggi in poi, sarò io a visitarla, d’accordo?-
Aveva anche l’accento tedesco.
Qualcosa in quello che disse, forse la parola “visitarla”, risvegliò una piccola fiammella in fondo al mio petto.
-Dottore, credo che ci sia stato uno sbaglio- cominciai, sforzandomi di mantenere un tono ragionevole, -Io non ho nessun tipo di problema. Sto benissimo, davvero. Potrebbe farmi la cortesia di riferirlo al direttore?-
Il tedesco inclinò il viso e mi scrutò al di là delle lenti degli occhiali sottili, appollaiati sul gran naso.
Parve studiarmi per un lungo minuto, poi commentò, con voce fredda e distante: -Temo che questo sia impossibile, Vargas-
No… no… no!
Perché nemmeno i pezzi grossi volevano darmi ascolto? Perché nessuno prendeva sul serio le mie parole?
Mi agitai sulla sedia.
Il solo pensiero di rimanere intrappolato in quella tomba di ferro e cemento mi risultò insopportabile, e cominciai a respirare affannosamente.
-Dottore, lei non capisce… io non posso restare qui! Ho un lavoro, là fuori, sa? Lovino, mio fratello, mi starà aspettando a casa, si starà chiedendo dove io sia finito. E anche Sakura…-
Il dottore mi fissò mentre annaspavo, poi unì le punte delle dita e pronunciò l’orrida frase che segnò l’inizio del declino della mia sanità mentale.
-È stato suo fratello a denunciare la sua malattia e a pagare per mandarla qui. Non lo sapeva?-
Cosa?
Lovino… spedirmi in questo inferno?
Perché i miei ricordi non corrispondevano? Perché la realtà mi spaventava così tanto?
Dovevo aver urlato, o qualcosa di simile, perché il dottore balzò in piedi dalla sua poltrona e aggirò la scrivania con un movimento rapido.
-Vargas, si calmi- disse in tono fermo.
Scrollai la testa così forte che cominciò a farmi male il cervello.
-No no no no no!-
Un paio di mani forti mi afferrarono per i polsi, e fu allora che cominciai a lottare, con le unghie e con i denti, nell’isterico tentativo di scappare da quella stanza piccola e piena di demoni.
Ero molto più basso e magrolino di quell’armadio tedesco, ma si sa, la forza della paura può vincere qualsiasi cosa, così mi liberai dalla sua stretta vigorosa e spalancai la porta con un calcio.
Schivai i due infermieri oltre la soglia e attraversai il corridoio senza mai guardarmi indietro.
Le gambe mi tremavano così forte che temetti di crollare a terra da un momento all’altro, ma ero talmente veloce da cogliere soltanto la scia indistinta delle pareti bianche e qualche viso spaventato.
Il cuore mi scoppiava nel petto, gli occhi sbarrati e un dolore lancinante alla milza, con la piccolissima luce della speranza a guidarmi lungo i corridoi.
Raggiunsi le scale tra le urla sorprese degli infermieri, inciampai nei gradini ripidi e mi feci tutto il piano rotolando contro il legno duro.
Mi rialzai subito e mi lanciai verso la zona ovest, dove sapevo esserci l’uscita principale… la mia salvezza.
Ci ero quasi arrivato: potevo vedere il Reparto Osservazione alla mia destra, e poi quel grande portone con la maniglia d’ottone.
Allungai le dita, giunsi quasi a toccarlo… ma poi una stretta formidabile mi bloccò a mezz’aria.
Un paio di braccia nerborute mi circondarono per la vita e mi risucchiarono indietro, sbattendomi sul gelido pavimento a scacchi.
-L’ho preso! Dottore, l’ho preso!-
-Immobilizzatelo!-
-Attenti, questo morde!-
-Dov’è la camicia di forza?-
-Legagli le mani, presto!-
Mi avevano teso un agguato: ne avevo cinque addosso.
Tentai di opporre un’ultima, fiera resistenza… ma poi quell’orribile giornata concluse il mio ingresso nel mondo della pazzia con un ultimo colpo basso.
C’erano le finestre accanto al portone principale, e rispecchiavano vagamente le schiene degli infermieri e il mio corpo che s’agitava in mezzo a loro.
Ma c’era qualcosa di sbagliato, in quei vetri.
Dai colli degli infermieri spuntavano teste deformi, bocche larghe scoperte su due file di dentini appuntiti, occhi strabuzzati e giallastri, pelli che gocciolavano sugli scacchi bianchi e neri del pavimento.
Erano voltati verso di me.
Perché nessun altro li vedeva? Eppure erano lì!
Urlai indicandoli, ma invece di seguire il mio dito, gli infermieri m’infilarono a forza un tessuto pesante e ruvido sulle spalle e mi bloccarono qualsiasi movimento.
La camicia… come a un pazzo.
Ma io non ero pazzo! Quei mostri stavano lì, sotto gli occhi di tutti!
Gli sarebbe bastato guardare verso le finestre e li avrebbero finalmente visti.
-Dottore, non riusciamo a calmarlo!- sbottò un infermiere, circondandomi la gola con un braccio e mozzandomi il respiro, perché non volevo smettere di gridare “guardate là, idioti!”
La stretta intorno al collo mi stava soffocando: cominciai a tossire con spasmi sempre più graffianti, incapace di raggiungere con le dita quel braccio e staccarmelo dalla trachea.
-Costa, lo sta strozzando. Allenti la presa- fece, severa, una voce familiare.
L’infermiere parve considerare seriamente l’eventualità di disobbedire, così dentro di me pensai “mollami, schifoso!” con tanta rabbia che probabilmente quel bruto riuscì a sentirmi, lasciandomi finalmente respirare.
Il dottore tedesco mi raggiunse sul pavimento, s’inginocchiò accanto a me e mi guardò dritto in faccia.
-Vargas, si calmi, per favore-
Lui non urlava come tutti gli altri. Non mi toccava. Non mi picchiava.
Fissai l’azzurro dentro i suoi occhi, e provai una strana sensazione.
-Ci sono davvero, lo giuro… non sto mentendo!- singhiozzai, e mi resi conto solo in quel momento di avere le guance rigate di lacrime.
-“Ci sono” cosa, Vargas?- mi chiese il tedesco in tono calmo, così calmo che smisi di agitarmi.
Sollevai il mento per indicargli le finestre, ma rimasi scioccato.
I volti mostruosi erano ancora lì, girati verso di me, immutabili nella loro grottesca follia.
Però quello del dottore tedesco era normale.
Potevo vedere la sua schiena fasciata dal camice bianco, la sua nuca pallida e i capelli color del grano illuminati dalle fredde luci al neon.
Perché soltanto lui? Perché non gli altri?
Boccheggiai, allibito, e non fui più in grado di dire niente.
Mi riportarono nella grande stanza con le pareti di piastrelle, mi stesero sul letto, avviluppato nella camicia di forza, e mi lasciarono lì a meditare.
Quella notte non chiusi occhio.


Da quel giorno in poi, divenni l’ennesima vittima di Poveglia.
Suo martire, cadavere ambulante sepolto tra le sue mura silenti e prive di pietà, cavia perfetta per gli esperimenti medici fascisti del 1930.
Al direttore Ballarin non era affatto piaciuto il mio tentativo di fuga, e ne pagai amaramente le conseguenze.
Mi legarono al letto per così tanto tempo che le ferite sui miei polsi s’infettarono, scatenandomi una terribile febbre che ancora oggi mi fa stare male, se ci ripenso.
Delirai come un vero pazzo, quelle notti, scalciando inferocito nel letto e spaccando il naso a qualche infermiere, mentre tentava di tenermi giù.
Vidi il bagliore di altri aghi sottili e malevoli, avvertii lo scorrere di malvagi veleni nelle mie vene, e persi così tante volte il contatto con la realtà che il mio senso del tempo si strappò in mille pezzettini.
Presto non riuscii più a tenere il conto dei giorni: il mio unico calendario erano le foglie nel parco.
Il sole che sorgeva ogni giorno, crudele e beffardo, si prendeva gioco di me.
“Buongiorno, numero 123. Sei ancora qui?”
Stai zitto. Che ne sai tu di me?
Io non mi chiamo “numero 123”, ma…
Aspetta, com’è che mi chiamo? Iniziava per “F”, o sbaglio?
Fu così che persi il mio nome, tra quei corridoi tutti uguali e quelle pareti piene di urla.
Però non volevo darla vinta a quell’istituzione disumana, così mi rifiutai di riferirmi a me stesso come “numero 123”, e coniai un nuovo nome.
Ero un uomo senza libertà, senza casa, e adesso senza nemmeno un passato.
Ero in balia dei miei fantasmi, schiavo di quei demoni rattrappiti e sfuggenti che nessun altro riusciva a vedere.
Ero un prigioniero nell’inferno.
Prigioniero di Poveglia.
Esattamente come il giovane che giaceva nel letto accanto al mio.
Era un tipo allampanato, dalle sopracciglia molto folte, e i suoi capelli conservavano ancora un riflesso d’oro puro, nonostante la malattia li avesse spenti e spezzati.
I suoi occhi verdi, come due piccole gemme di fico, erano velati da una tristezza infinita.
Un tempo, proprio come il nuovo arrivato del mio presente, quel biondino doveva essere stato un gran bel ragazzo.
Provai a parlarci nei miei momenti di pace, perché avevo davvero bisogno di parlare con qualcuno, con un altro essere umano che potesse comprendere il mio dolore.
Scoprii che si chiamava Arthur, e che era di nazionalità inglese.
Mi chiese se anch’io potevo vedere i folletti, gli spiritelli e tutte quelle altre bizzarre creature che gli volteggiavano attorno, impedendogli di chiudere occhio.
Quando risposi di no, scoppiò in una risata senza gioia e fissò il soffitto così a lungo che pensai fosse morto con gli occhi aperti.
-Alfred me l’aveva detto, che stavo diventando pazzo…- borbottò alla fine.
-Chi è Alfred?- chiesi.
-Alfred è un deficiente. Ed è il mio migliore amico- il biondino aggrottò le sue notevoli sopracciglia, -Ma ben presto mi raggiungerà in questo posto di merda, perché ha detto che mi ama, davanti a tutti. Pazzo.-
Non che non potessi capirlo: mio fratello era segretamente invischiato in una tresca con Antonio, uno spagnolo che conoscevamo fin dai tempi dell’infanzia.
Se qualcuno fosse venuto a saperlo, ero certo che anche loro due sarebbero ben presto giunti a tenermi compagnia.
Oh, adesso ho capito: il nuovo arrivato del mio presente dev’essere Alfred, senza dubbio.
Ma Arthur non potrà mai riconoscerlo.
Non è riuscito a smettere di vedere gli spiriti, e così lo hanno ridotto a un’ameba, per far sì che il mondo potesse dimenticarsi della sua presenza.
Povero Alfred… mi chiedo se lo shock lo ucciderà.
Quando guarii dalla febbre, mi permisero finalmente di alzarmi dal letto.
Non c’era molto da fare al manicomio: durante le giornate di pioggia ce ne stavamo rintanati dentro, deambulando per le sale più spaziose, dove ci buttavano ammassati tutti insieme, come pelati in barattoli.
In mezzo a chi ripeteva all’infinito la stessa frase, quello che sbatteva la testa contro al muro, e poi chi camminava in tondo, chi rideva senza motivo e chi si strappava i capelli per il puro piacere di provare qualcosa, ogni tanto qualcuno veniva colto da uno scatto d’ira, e aggrediva gli altri pazienti.
Gli infermieri più nerboruti accorrevano per separare i litiganti, li picchiavano duramente con bastoni di legno, gli infilavano a forza la camicia e le cinghie di cuoio, oppure li trascinavano via e li rinchiudevano in quelle piccole stanzette della punizione.
Quando questi brutti episodi accadevano scappavamo tutti terrorizzati, stringendoci contro le pareti della stanza e tappandoci le orecchie con le mani, aspettando che il peggio passasse.
Anch’io, come tutti loro, avevo tanta paura di essere il prossimo.
Ma quando fuori il tempo era bello, ai più tranquilli di noi veniva concesso di passeggiare nel parco.
Quelli erano gli unici momenti della mia nuova vita in grado di darmi un po’ di pace: camminavo a piedi nudi sull’erba morbida, scavando con le dita nella terra fragrante, teso nello spasmo di avvertire ogni più piccola sensazione, ogni segnale che potesse confermarmi che ero ancora vivo.
Ogni tanto mi ritrovai seduto sulla stessa panchina di Arthur.
Parlavamo davvero poco, passando la maggior parte della nostra ora d’aria ad assaggiare quell’illusione di libertà con gole assetate.
Ma se c’era una cosa che mi mancava ancora di più della natura, quella era dipingere.
Prima di finire qua dentro ero un famoso pittore.
Animare la tela bianca, vederci attraverso mondi lontani e realtà impossibili, chiazzarmi le dita d’acquerello mentre il mio polso volava libero, tracciando i pensieri più profondi, era la mia linfa vitale e la massima espressione del mio essere.
Così li pregai di farmi provare: sarebbe bastato anche un misero foglio bianco e un pezzo di grafite, ma dovevo… dovevo sfogare la mia anima d’artista.
Me lo permisero, perché in quegli ultimi tempi mi stavo comportando abbastanza bene.
Ricordo perfettamente quale fu il mio primo schizzo: un codirosso posato su un gambo di lillà.
Era sempre lo stesso uccellino, quello che anche oggi, nel mio presente, è venuto a trovarmi sulla stessa panchina di pietra.
Sia a lui che a me piace quella, in particolare, perché se ne sta in disparte nel parco, sotto l’ombra di un vecchio tiglio.
Fu un po’ come avere un amico, come con Arthur.
Grazie al parco e al disegno, c’erano giorni in cui riuscivo a starmene tranquillo, sdraiato sul letto a contemplare il vuoto e i rari silenzi, rimuginando come un ossesso sul tradimento di… come si chiamava mio fratello?
Aveva gli occhi verdi o bruni? Mi assomigliava?
E poi Sakura… la mia Sakura.
Non ricordavo più il sapore delle sue labbra, o il colore dei suoi capelli, o il suono della sua voce.
La prima volta che ricevetti una lettera da mio fratello, ebbi una crisi isterica davvero orrenda: strappai la carta urlando che lo odiavo, che lo volevo morto, che era tutta colpa sua.
Dovettero legarmi al letto di nuovo, ma non riuscii a calmarmi se non dopo tre lunghi giorni d’inferno.
Passai attraverso i vortici tempestosi di allucinazioni atroci e gloriose, incubi a occhi aperti dove serravo le dita intorno alla gola di mio fratello e lo strangolavo ridendo… riprendendo coscienza soltanto quando una bastonata particolarmente dolorosa mi spaccava la pelle, facendomi sanguinare e ricordandomi, finalmente, che ero ancora un essere umano.
Ma gli attacchi di panico peggiori erano sempre per causa loro.
Li vedevo sempre nei vetri delle finestre, o sulle superfici riflettenti: non balzavano mai fuori dalla realtà distorta degli specchi, non si azzardavano a mettere piede nel mondo dei mortali, perché allora chiunque avrebbe potuto vederli, e le loro malefiche congiure di conquista sarebbero andate a rotoli.
La cosa che più di qualunque altra mi spaventava era sapere che loro sapevano.
Già: soltanto io conoscevo il loro segreto.
Sapevo della loro esistenza, della verità che li teneva obbligati a quei mondi piatti e levigati, dentro i cristalli di nitrato d’argento… ma ciò non bastava affatto a farmi sentire al sicuro.
Mi bastava cogliere, con la coda dell’occhio, il vago luccichio di uno sguardo giallastro, una presenza viscida che mi spiava da dietro uno specchio… e allora impazzivo.
Non importava quante botte mi dessero, quante siringhe affondassero nel mio collo, quanti nodi facessero alla camicia di forza… li avrei visti per sempre, lo sapevo.
Cosa volete da me?!
Durante le lunghe notti del manicomio, il mio terrore raggiungeva livelli insostenibili.
Nonostante la distesa di matti borbottanti intorno a me, nonostante Arthur al mio fianco, mi sentivo solo e sperduto, abbandonato ai miei incubi.
Imbacuccato nelle leggere coperte, gli occhi sgranati nel buio che spuntavano appena da sotto il tessuto, fissavo le grandi finestre a tutto sesto della stanza.
E li aspettavo.
Di notte diventavano più forti: trovavano il coraggio per allungare le loro dita mollicce oltre il velo dello specchio, per fare un passo in più e avvicinarsi alla realtà.
Venivano per me. Tutte le notti.
Ombre verdastre si allungavano lungo le pareti, strisciavano sul pavimento, s’arrampicavano con artigli di tenebra al cotone della coperta e mi afferravano per le caviglie, i polsi e la gola.
Qualcosa mi fissava nell’oscurità.
Una presenza squamosa sgattaiolava via velocissima, e un puzzo nauseabondo di rettile e acqua di fogna mi faceva lacrimare gli occhi.
Poi, lentamente, una faccia orrida spuntava ai piedi del letto.
Apriva le labbra molli e unte, sorridendomi con un’arcata di zanne affilate, colando bava sul pavimento.
Tic tic tic
I suoi occhi abnormi, sporgenti, ricoperti di venuzze, brillavano di quel giallastro terrificante nel buio della stanza.
Era lì, dannazione, perché nessun altro lo vedeva?!
Mi faceva schifo, mi faceva balzare il cuore in gola e raggelare il sangue nelle vene… ma ero paralizzato dall’orrore, e non riuscivo a girare il viso, né a muovere un solo dito.
A volte venivo graziato dalla luce dell’alba: filtrava oltre le sbarre delle finestre, misericordiosa del mio tormento, e scacciava via l’immondo essere.
Soffiando come un gatto randagio, quello faceva ritorno nella piattezza argentata del suo regno di specchi.
Altre volte, invece, non ero così fortunato.
Con piccoli movimenti nervosi, la figura saliva sul mio letto, le gambette scheletriche raccolte come un anfibio, talmente appiccicoso e umido da lasciare tracce scure sul cotone.
Si sedeva sul mio petto, schiacciandomi i polmoni, troncandomi il respiro, e allungava le sue mani rugose.
Ne avvertivo il tocco scivoloso da pesce, le scaglie che facevano presa sulla mia pelle, il respiro che sapeva di marcio… e poi un sussurro gelido nell’orecchio:
“Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn.”
A quel punto qualcosa mi tirava un calcio al cervello, forse la paura di morire, e cacciavo un tale urlo da svegliare tutto il manicomio.
-Dottore, è il numero 123! È successo di nuovo!- sentivo chiamare gli infermieri, affaccendati intorno al mio letto: chi tentava di calmare gli altri pazienti, istigati dal mio sbraitare, e chi si sforzava di tenermi fermo, mentre scalciavo, tiravo pugni a destra e a manca, m’inarcavo verso il soffitto come un folle, disperato, morto di paura.
Arrivai a gridare così forte che mi lesionai le corde vocali e persi la voce per non so quanto tempo.
Se non potevo urlare, allora avrei pianto.
Piansi. Piansi così tanto da prosciugarmi.
Di notte, quando il mostro sgusciava oltre i vetri delle finestre e s’acquattava disgustoso sul mio cuore, spalancavo la bocca fino a farmi scricchiolare la mandibola e chiamavo aiuto, senza voce e impotente.
Il suo peso su di me, il suo sfiorarmi freddo e vischioso, i suoi occhi che brillavano nella penombra della stanza… era tutto così vero, così reale
Eppure al mattino non c’era più.
Sul mio letto, soltanto piccole e confuse tracce d’umidità, che gli infermieri giustificavano con la mia incapacità di contenermi.
Non bastarono gli innumerevoli coma indotti dall’insulinoterapia, né le dolorosissime scariche dell’elettroshock, per farmi smettere di vedere quei mostri.
Con il cervello fritto come una patatina, reso alla stregua di un automa senz’anima, forse divenni meno violento, ma di certo non cessai d’incontrare quei demoni, che mi venivano a prendere tutte le stramaledette notti che Dio mandava in terra.
Iniziai a vederli dappertutto, a sentirli sussurrare dentro le mura, strisciandomi alle spalle, ad attendermi oltre le porte, a spiarmi dietro gli angoli dei corridoi.
Ero completamente uscito di testa… oppure c’erano veramente?
Non riuscivo più a darmi una risposta.
Una volta, sul pavimento di piastrelle delle docce, trovai un’impronta fangosa.
Sarebbe potuta passare per quella di una persona… peccato che avesse tre dita.
Mi precipitai dal primo infermiere che riuscii a trovare e lo supplicai di venire con me nella stanza delle docce, euforico e insieme terrorizzato, perché finalmente avevo la prova schiacciante che i miei demoni esistevano veramente, che non ero pazzo come tutti mi ripetevano continuamente!
Temetti, per un istante, di essermi immaginato anche quell’orma, ed entrai nelle docce con l’asma di un bugiardo in procinto d’essere scoperto.
E invece no: l’impronta era ancora lì, grazie a Dio.
Un’ondata di sollievo mi rese euforico.
Mi voltai impaziente verso l’infermiere: -Ecco, la vede adesso?! Non stavo mentendo!-
Era chiaro, finalmente: Poveglia era piena di sconosciute creature abissali, dalle intenzioni non meglio identificate ma che, di sicuro, non potevano portare niente di buono.
Potevamo fuggire tutti, con le barche, di nuovo sul suolo rassicurante di Venezia, e poi dare per sempre alle fiamme quell’isola maledetta…
Era un piano perfetto.
Scrutai l’infermiere, in trepidante attesa, aspettandomi di vederlo correre spaventato dal direttore.
Questi annuii lentamente, e poi mi posò una mano sulla spalla: -Va bene, Vargas-
Esultai tra me e me.
-Andiamo a chiamare il direttore, presto!-
Feci per avviarmi, ma l’infermiere mi trattenne.
-Cosa c’è? Non abbiamo tempo da perdere!-
L’uomo annuì di nuovo.
Qualcosa nel suo modo di fare mi fece rizzare i peli sulle braccia.
-Dunque… andiamo?- tentai un’ultima volta, tirandolo verso l’uscita delle docce.
Annuì ancora, stringendomi così forte la spalla che il mio braccio perse sensibilità, -Sì, sì, adesso andiamo, Vargas, non si preoccupi. Andrà tutto bene. I mostri brutti e cattivi verranno cacciati via, non abbia paura-
Inorridii.
Non mi aveva creduto.
Non voglio ricordare nel dettaglio quel che successe subito dopo… fa troppo male.
Rammento solo gli elettrodi premuti contro le tempie, le facce degli infermieri che mi circondavano, fissandomi esattamente come i demoni marini.
Ricordo il dottore tedesco in un angolo, mentre litigava rabbiosamente con l’anestesista.
Non voleva che mi facessero questo, ma non aveva abbastanza potere per impedirglielo.
Chiusi gli occhi, prima che la scarica mi riducesse a un pezzo di carne vacillante.
Fui contento di sapere che almeno un essere umano, in quella stanza, provasse pietà per me e per la punizione che non mi meritavo.
Tutti gli altri, gli infermieri, i dottori, i malati stessi… erano tutti complici dei demoni.
Sì, perché adesso non si trattava più soltanto di orme, di sguardi lanciati di sottecchi, di mormorii dietro le soglie…
Una volta ero affacciato alle sbarre di una delle tante finestre, a fissare l’orizzonte, sognando di attraversarlo in volo e fuggire lontano.
Potevo vedere il tetro campanile da lì, con il suo pinnacolo rosso e le strette fenditure a tutto sesto.
Le mie fantasie di gloria vennero bruscamente interrotte dal passaggio di una figura, proprio dietro una delle finestrelle della torre.
Era… cosa diavolo era?!
Schivo, ricurvo, disgustoso; si accorse del mio sguardo e si voltò verso di me.
Urlai. Urlai e non fui più in grado di smettere… perché ciò che vidi non poteva essere reale, non poteva far parte di questo mondo.
Un’altra volta, mentre stavo attendendo in infermeria, udii un basso parlottare oltre la porta e mi voltai: qualcosa oscurò la luce che filtrava dallo spiraglio, e io scorsi, insieme alla figura umana dell’infermiere, un corpo ingobbito e stranamente deforme.
Stavano parlando tra loro, sussurrando per non farsi sentire, ma io riuscii a captare una cadenza familiare, assolutamente non umana.
Era lo stesso linguaggio che usava il mostro ammollato nell’acqua di laguna, quello che veniva a rubarmi il respiro tutte le notti.
L’orrore di quella consapevolezza divenne semplicemente troppo… non potei sopportarlo.
Gli esseri umani stavano con i demoni?
Erano tutti nemici… tutti.
Come se mi fossi svegliato da un lungo sogno, presi consapevolezza dei traditori che mi circondavano.
Gli infermieri avevano facce umane, sì, ma lucide e molli; i malati borbottavano tra loro con parole a me sconosciute; i dottori mi scrutavano con un bagliore giallastro negli occhi..
Li vedevo ingobbirsi ogni giorno di più, strascicare i piedi, le palpebre che sbattevano sempre di meno, i movimenti sempre più nervosi e sguscianti.
Oh, ero così spaventato…
Ma in quel mare infernale di paura e dolore, crebbe man mano una piccola luce di sollievo e speranza.
Questa luce era il dottore tedesco.
Forse mi prese in simpatia per la particolarità scientifica del mio caso, forse apprezzava particolarmente i miei disegni o forse, più semplicemente, gli facevo molta pena… fatto sta che cominciai pian piano a piacergli.
E lui cominciò a piacere a me.
All’inizio mi faceva più paura lui di tutti gli altri, ma dovetti ricredermi quando imparai, per l’ennesima volta, che non si deve mai giudicare un libro dalla copertina.
Lui era l’unico, in mezzo a tutti quei matti, in mezzo ai medici e agli infermieri crudeli, ad essere immune alla maledizione delle facce di pesce.
Non vi fu nemmeno una volta in cui vidi una mano palmata o un’incrostazione di scaglie verdastre deturpare la sua persona.
Lui mi difendeva quando volevano farmi l’elettroshock, li fermava quando mi bastonavano.
Impedì loro di farmi una lobotomia transorbitale.
E probabilmente fu proprio quello il motivo per cui scelsi di fidarmi di lui.
Gli infermieri urlavano con voci dure, mi picchiavano quando avevo una delle mie crisi di nervi, mi sedavano pesantemente, mi facevano la doccia gelata, mi soffocavano con un telo… tutto, tutto andava bene, pur di tenermi tranquillo.
Lui, invece… oh, com’era buono lui con me.
Mi parlava sempre in tono calmo e comprensivo, e io, pur sapendo che nemmeno lui poteva vedere i miei demoni, ritrovavo in quei gentili occhi azzurri un po’ dell’umanità di cui avevo tanto bisogno.
-Vargas, cos’è successo?- mi chiedeva, sedendosi sul bordo del letto, quando gli infermieri andavano a chiamarlo perché avevo avuto un altro dei miei attacchi notturni.
-Li ho visti di nuovo, dottore! Lo giuro, erano lì! Uno mi ha parlato, mi ha toccato! Lo giuro su Dio che c’era veramente!-
Gli infermieri scuotevano la testa, mi scrutavano disgustati.
Il dottore tedesco, invece, annuiva tranquillamente: -Sono andati via, adesso?-
-Sì… ma… ma torneranno anche domani! Io lo so!-
-Se dovessero tornare, si volti sulla pancia e si nasconda sotto le coperte. Così non potranno farle alcun male.-
Le rassicurazioni di un genitore al figlioletto pauroso, però funzionavano.
Iniziai ad anelare per la sua presenza accanto a me; divenne il mio punto di riferimento, l’unico in grado di calmare i miei attacchi di panico e le mie crisi isteriche.
Era disponibile e tanto paziente…
Quando veniva l’orario della visita, tremavo eccitato all’idea di rivederlo, e allora potevo starmene ore e ore a parlare con lui nel suo ambulatorio, senza sentirmi giudicato o biasimato.
Con lui potevo dar voce a ogni mio pensiero, e non importava quanto fosse assurdo e ridicolo: quel tedesco gentile non rideva mai di me e dei miei stupidi deliri.
Se non avevo voglia di parlare, allora mi dava carta e grafite e potevo disegnare sulla sua scrivania, mentre lui leggeva un giornale italiano oppure la famosa rivista di critica d’arte “Dedalo”.
Una volta gli feci un ritratto. Dopo averlo visto, mi chiese se potesse tenerlo, con un’espressione così strana e insolita, che le mie guance divennero bollenti.
Poi arrivò il giorno in cui lui smise di darmi del “lei”, e io smisi di pensare a lui come “il dottore tedesco”.
-Vargas, buon compleanno- mi sorrise, un pomeriggio nel suo studio.
Il mio cuore perse un battito, perché era davvero raro vederlo sorridere, soprattutto in un modo così dolce.
Avevo appena compiuto venticinque anni… era già passato così tanto tempo dal mio arrivo a Poveglia?
-Vargas, tuo fratello ha mandato una cosa, per posta- cominciò cautamente il dottor Beilschmidt, e le mie mani artigliarono istintivamente le ginocchia.
-Vuoi sapere cos’è, oppure…?-
Mi passai la lingua sulle labbra incartapecorite, poi sollevai gli occhi su di lui e risposi, freddo: -Ci dev’essere stato uno sbaglio, dottore. Io non ho fratelli-
Il dottore annuì appena e non risollevò mai più la questione.
Aveva imparato a conoscermi molto bene, meglio di tutti quegli infermieri che mi visitavano ogni giorno.
-Posso almeno darti il mio regalo, Vargas?- riprese, e il suo secondo sorriso sciolse il ghiaccio nel mio cuore, quello che mi aveva raggelato al sentir nominare mio fratello.
Annuii timido, un po’ a disagio.
A noi malati di mente non era concesso il diritto di possedere qualcosa: che fosse un oggetto, o i capelli, o il tuo nome… dovevi perderlo.
Il dottore aprì un cassetto della sua bella scrivania d’ebano scuro e mi porse un piccolo involto di carta.
Lo aprii con mani tremanti, e trovai un pezzetto di Millefoglie.
Aveva un profumo di paradiso, la superficie spolverata di zucchero a velo, la crema che mi attendeva, lucida e giallissima, strabordando dalla sfoglia burrosa.
Era il mio dolce preferito, e lui lo sapeva.
Lo divorai piangendo di gioia, perché avevo finito con il dimenticare il sapore del buon cibo.
-Non è mica finita qui- annunciò il dottore, tirando fuori un foglietto di carta e spingendolo verso di me.
Lo presi e lo lessi con qualche difficoltà: a furia di non studiare niente, di non tenere allenato il cervello, stavo pian piano disimparando a leggere e scrivere.
-Cos’è questa, dottore?- chiesi, aggrottando la fronte.
-È una formula magica- rispose con una strizzatina d’occhi, -L’ho scritta io, per te. Imparala a memoria, e pronunciala ogni volta che li vedi di nuovo. Li manderà via-
Non sapevo cosa dire.
Me la strinsi al petto, asciugandomi impaziente i lucciconi agli occhi, -P… promesso?-
-Promesso-
Si chinò in avanti e mi pulì con l’indice un baffo di zucchero dall’angolo della bocca.
Sussultai, ma non lo cacciai via, come invece cacciavo chiunque tentasse di toccarmi.
Forse fu in quell’istante che me ne innamorai.


Incoraggiato dalle mie buone reazioni, il dottor Beilschmidt prese l’abitudine di trattarmi in modo un po’ diverso da tutti gli altri pazienti, complice anche il nostro rapporto decisamente più stretto.
Prima di quel pomeriggio nel suo studio, non si era mai azzardato a toccarmi, forse per colpa del suo carattere estremamente perfezionista.
Ma quando gli mostrai che non mi dava fastidio e anzi, che il suo tocco sapeva calmarmi come ben poche cose al mondo, prese coraggio e abbatté l’insensato muro di freddezza e lontananza che si conveniva a un dottore serio.
Veniva a prendermi personalmente, quando veniva l’orario della visita, e allora mi stringeva una spalla con la sua mano grande e calda, e mi guidava lungo i corridoi fino al suo ambulatorio.
Quando mi sentivo triste e piangevo, mi asciugava le lacrime con le sue stesse dita, mi abbracciava e mi accarezzava la testa.
-Basta così. Non piangere più-
Avrei voluto morire tra le sue braccia: seppellivo il viso contro il suo petto, respirando l’odore del suo camice fino in fondo all’anima, godendomi la sensazione che mi davano le sue dita tra i capelli.
-Stanno ricrescendo, eh?- sussurrava, visibilmente contento, -Hai dei bellissimi capelli. Sono rossi come i ranuncoli nel parco-
Rossi. Rosso come il sentimento che mi anima il petto per te.
Avrei voluto dirgli questo, ma in fondo lo sapevo… lo sapevo di essere sbagliato.
Che fine aveva fatto il mio amore per le belle donne? Dov’era finita la morbidezza e la prosperosità dell’immagine residua di Sakura?
Adesso i miei sensi erano pieni soltanto di lui, dei suoi muscoli portentosi che mi avvolgevano e mi facevano sentire piccolo e debole, bisognoso di protezione.
Oh, quante notti passai nel mio letto… sognando di sentire il suo peso su di me, di annegare nel suo profumo mentre lo chiamavo piano contro il cuscino, e lui mi rispondeva, ripetendo quel nome che non riuscivo più a ricordare.
Labbra, carne, un balenio d’occhi azzurri come il cielo, fianchi di marmo puro che affondavano dentro i miei, la sua voce nel mio orecchio, e poi qualcosa mi spezzava, ma con dolcezza.
Poi mi svegliavo alle prime luci dell’alba, scoprendomi bagnato e tremante, dolorosamente insoddisfatto.
Mi vergognavo da morire per il modo in cui vedevo, in cui desideravo, l’unico essere umano in tutta Poveglia che mi volesse veramente bene.
In quale modo mi vedi tu?
Anche tu non riesci a prendere sonno nel letto, se pensi a me?
Non avrei mai, mai potuto dirglielo… però potevo farglielo capire.
Uno dei nostri pomeriggi, nel suo studio, decisi di tentare la cosa più stupida che avessi mai fatto in tutta la mia vita.
Mi stava dando un abbraccio per salutarmi, perché tra poco sarebbero tornati gli infermieri per riportarmi nella grande stanza grigia.
Era così caldo… aveva un tepore meraviglioso, un odore così buono, che non riuscii più a trattenermi, e lo baciai.
Fu un bacio timido, insicuro, posato appena a fior di labbra.
Le sue labbra furono la cosa più buona che avessi mai assaggiato. La Millefoglie del mio compleanno non poteva neanche sperare di competere.
Posai di nuovo i talloni a terra e lo guardai spaventato: non potevo credere di averlo fatto davvero.
Il dottor Beilschmidt rimase a bocca aperta per qualche secondo, poi però le sue sopracciglia color del grano s’inarcarono, severe, e l’azzurro nei suoi occhi si fece più simile a quello del ghiaccio, che al cielo.
-Perché l’hai fatto?- mi chiese, quasi arrabbiato.
Non lo avevo mai visto così, ed ebbi paura.
-Non… non lo so… non me lo chieda, per favore!- rantolai, allontanandomi da lui..
Mi fece così tanto male il suo rifiuto… più delle bastonate, più dell’elettricità nel cervello, più del veleno nelle vene.
Proprio quando stavo per mettere piede nel regno delle tenebre assolute, per lasciarmi finalmente andare ai demoni dentro agli specchi, lui mi salvò. Ancora una volta.
Le sue mani grandi e calde mi strinsero delicatamente il viso e mi costrinsero a sollevarlo verso di lui.
-Feliciano, ascoltami bene- disse a bassa voce, e il mio cuore accelerò impazzito nel petto.
Feliciano?
Feliciano. Feliciano. Feliciano.
Era il mio nome, vero? Era così che mi chiamavo?
-Io lo so perché l’hai fatto. Lo capisco, davvero-
-Lo… lo sa?-
-Sì. Perché lo sento anch’io-
Sentire cosa? Cos’è che sentiva? Perché non me lo diceva in modo chiaro?
-Però non possiamo, Feliciano, non possiamo…-
-Perché no?- chiesi, e questa volta fu il mio turno d’arrabbiarmi.
Il dottore sospirò, si massaggiò la radice del naso e mi accarezzò le guance, asciugandomi le lacrime con dita gentili, un po’ callose, ma tiepide e carezzevoli come una brezza primaverile.
-Tu sei il mio paziente, e io sono il tuo dottore. Tu sei italiano, e io sono tedesco. Tu sei un uomo, e lo sono anch’io. Capisci, adesso?-
Sì. Capivo eccome.
Gli afferrai le mani con dita gelate, tentando di allontanarlo da me, desideroso soltanto di fuggire, di andarmene per non rivederlo mai più…
Ma quelle mani forti mi afferrarono per i polsi, spingendomi indietro un po’ rudemente e bloccandomi contro il muro bianco.
Non ebbi il tempo di reagire, di pensare a niente.
Mi baciò con una sorta di furia, come a dirmi che non sarei potuto fuggire come volevo, che nessuno di noi due sarebbe potuto scappare da quel sentimento proibito, indotto nelle nostre fragili menti dal Demonio stesso.
Si separò dalle mie labbra soltanto quando il mio respiro si fece affannoso, e mi guardò dall’alto, severo, bellissimo, spaventoso.
-Il nostro segreto non deve uscire da queste quattro mura, Feliciano. Hai capito?-
Annuii timoroso.
-Giuramelo-
Gli accarezzai il mento squadrato e sporgente, premendogli la schiena con l’altra mano e attirandolo ancora più vicino a me, fino a quando non riuscii a sentire il profilo del suo bacino disegnarsi contro al mio.
Sentii che iniziava a respirare affannosamente, forse quanto me, che mi ero sentito così eccitato soltanto nei miei sogni.
-Lo giuro… ma soltanto se mi dice il suo nome-
Bastò uno scambio di sguardi per capirci.
-Mi chiamo Ludwig- sussurrò, con quell’accento duro e gutturale che avevo imparato ad amare.
-Ludwig…- ripetei, facendogli scivolare le braccia intorno al collo.
Avvertii una sua mano, ruvida e bollente, infilarsi piano sotto all’orlo della mia veste semplice, toccarmi prima con tanta timidezza, quasi come se avesse paura di rompermi, poi man mano sempre più sicura e audace.
-Ludwig…!- chiamai, supplichevole, mentre mi sollevava una coscia per farsi un po’ di spazio.
-Shhh… piano-
Piano, a bassa voce, per non far rumore… nessuno ci avrebbe sentiti, nessuno ci avrebbe visti.
Era la mia unica fonte di gioia in un mondo senza amore e pieno solo di mostri e demoni.
Era il nostro segreto.


Riapro gli occhi nella luce del tramonto, e il mio amico codirosso vola via con un cinguettio.
È stato un lungo sonno, e forse non ne è proprio valsa la pena, perché ho ricordato tante brutte cose, tanti orrori che avrei solo voluto lasciarmi alle spalle.
Come tracce disumane impresse nella pietra sacrilega di una città fantasma… e come fantasmi, invece, quei ricordi tornano per tormentarmi.
Però mi rimane ancora lui, Ludwig, il mio amore imperdonabile, l’eroe che mi ha strappato dalle atrocità di una congiura tra bestie sataniche.
Se lui rimane accanto a me, allora posso affrontare qualsiasi cosa… e poi, tra non molto me ne andrò da questo inferno.

-Feliciano, ho parlato con il direttore-
-Davvero?-
-Sì. Gli ho detto che stai migliorando-
-Oh, bene-
-Ha detto che, se smetterai di vedere quei mostri, di parlare a vanvera, ti faranno uscire-
-Da… davvero?!-
-Davvero-


Me lo hanno promesso.
Me ne andrò da qui.
Il solo pensiero basta per farmi rinascere, per aiutarmi a tenere duro ancora un po’, ignorando le facce di rana nella pozza d’acqua, le urla dei malati dentro le mura, le nefaste presenze dei morti di peste sotto ai miei piedi…
-Feliciano?- mi chiama una voce, la sua voce.
Sono così contento che mi abbia chiamato per nome! Perché adesso non sono più Prigioniero di Poveglia, né Numero 123.
Mi volto e gli sorrido: eccolo là, in piedi sotto al sole del tramonto, incorniciato dai rami frondosi del vecchio tiglio in fiore, le mani affondate nelle tasche del lungo camice bianco.
-Vieni qui-
Obbedisco subito, perché è da molto tempo che ho imparato a fidarmi di lui.
Ludwig si dà una rapida occhiata attorno, per controllare se siamo veramente soli, poi mi abbraccia e mi bacia con tanta dolcezza.
Mugugno contro le sue labbra, e mi godo appieno le sue carezze: una mano che mi tocca audace le natiche al di sopra della veste e l’altra che passa le dita tra i miei capelli, ormai completamente ricresciuti, lunghi, rossi come i ranuncoli nel parco.
-Lud… Ludwig…- sussurro, facendo scivolare le mani sulla cintura dei suoi pantaloni.
-Feliciano, aspetta… non qui- risponde trafelato, -Nel mio studio. Vieni-
È difficile trattenermi, ma so che devo: qui potrebbe vederci chiunque, e io non voglio che mi portino via la mia unica ragione di vita.
Lo prendo per mano e sono io a guidarlo fuori dal parco, di nuovo dentro al portone spalancato, lungo i corridoi tutti uguali e tutti tristi.
So la strada perfettamente a memoria, perché non è certo la prima volta che sgattaiolo con lui nel suo ambulatorio, per sfogare in segreto la nostra malsana passione.
Entro nella stanzetta con lui alle calcagna, e per un momento il mio cuore si ferma.
Tanto tempo fa… quello stesso tramonto aveva penetrato le sbarre delle finestre, tingendo di rosa la figura di un dottore tedesco dall’aria spaventosa, gli occhi che parevano attraversarmi da parte a parte, e un accento che, negli ultimi tempi, faceva tremare di paura chi aveva la coscienza sporca.
Sembra passata una vita intera da quando, quel giorno, avevo incontrato per la prima volta l’uomo che mi avrebbe fatto guarire, che mi avrebbe restituito una vita degna di essere vissuta.
Niente è cambiato, da allora: lo stesso foglio sulla scrivania e il pezzo di grafite posato lì accanto, pronto per scarcerare la mia fantasia.
Un pezzo di dolce avvolto nella carta, perché a lui piace coccolarmi con piccoli regali.
Una poltrona nera e lucida, e la stessa scrivania d’ebano.
La porta si chiude con un colpo alle mie spalle, ed è proprio su questa scrivania che Ludwig mi spinge, lungo disteso, piazzandosi tra le mie cosce e afferrandomi dietro le ginocchia, soffocando subito i miei gemiti con un lungo bacio.
Ci separiamo ansimanti e una cordicella di saliva si spezza tra le nostre lingue.
-Ludwig… presto!- lo imploro, affondandogli le mani tra i capelli biondissimi.
-Shh, piano…- sorride, posandomi l’indice sulle labbra, mentre mi solleva l’orlo della veste.
Sono pronto ad accoglierlo, con tutto il mio cuore, con tutto il mio amore, ancora una volta.
-Tra poco ho una riunione col direttore- mi dice, mentre si slaccia la cintura, -Tu… come stai, Feliciano? Li vedi ancora?-
Mi scruta preoccupato.
Lo amo… lo amo così tanto!
Ed è per questo che non posso mentire. Non a lui.
-Sì, ogni tanto li vedo ancora- ammetto, arrossendo per la vergogna, -Però la tua filastrocca mi aiuta molto, Ludwig!-
-Davvero?-
Sorride, splendido come lo stesso sole che sanguina oltre le finestre.
-Sì! Grazie a quella filastrocca, posso fingere che non esistano veramente, che siano solo un incubo-
Mi bacia ancora una volta, -Bravo. Sei un bravo ragazzo, Feliciano-
Rido, sollevato, e lui ride con me.
È tutto perfetto… tutto sta tornando a posto, finalmente.
Ma poi, all’improvviso, la sua risata si fa strana.
È… cattiva, perfida.
Lo osservo.
-Ludwig?-
Smette di ridere, e mi fissa.
Ho paura.
-Non tutti gli incubi sono a occhi chiusi, Feliciano-
Trattengo il respiro… e nel suo sguardo vedo passare un bagliore giallastro.



FINE
  
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