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Autore: evelyn80    08/08/2019    5 recensioni
Ormai schiavo da tempo della cocaina, Terry Kath è vittima della sua stessa paranoia che lo porta sull'orlo della follia. Solo il suo migliore amico e collega, Danny Seraphine, riuscirà a farlo tornare in sé.
Seconda classificata al contest "Sitting in my room, with a needle in my hand" indetto da Soul_Shine sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Danny Seraphine, Terry Kath
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seconda classificata al contest “Sitting in my room, with a needle in my hand” indetto da Soul_Shine sul forum di EFP.

 

 

God bless our high times

 

 

I've got to get away from all these high times
'cause these high times
are killing me”

Jamiroquai – High times

 

 

 

Los Angeles, 17 dicembre 1977

 

Attraverso una banconota da 100 dollari strettamente arrotolata, Terry Kath sniffò l'ennesima striscia di coca della serata. Ormai aveva perso il conto di quante se ne era sparate. Aveva sempre avuto una soglia di tolleranza molto alta, tanto che spesso nessuno si era mai accorto che era strafatto. O almeno, questo succedeva all'inizio.
Negli ultimi tempi, sempre più spesso le persone che lo circondavano lo fissavano con sospetto, additandolo e parlando alle sue spalle. Da qualsiasi parte si voltasse c'era sempre qualcuno che bisbigliava ammiccando verso di lui, gente con gli occhi rossi come il fuoco. Poteva vedere le parole fuoriuscire dalle loro labbra, un fiume nero che si contorceva come un serpente pronto ad avvinghiarglisi attorno ai polsi o alle caviglie.
Era sicuro che se anche uno solo di quei filamenti scuri lo avesse toccato, lui si sarebbe sgretolato come una statua di sale. E per questo era pronto ad ogni evenienza.
Da qualche anno a quella parte aveva iniziato a portare sempre con sé almeno una delle sue pistole: revolver o semi-automatiche non aveva importanza, gli bastava sentire il loro peso confortante nelle tasche dei pantaloni. In tour, durante le feste sfrenate o in studio di registrazione, le sue amate armi lo accompagnavano sempre.
Persino quando era in casa non riusciva a separarsene. Era certo che anche sua moglie Cammy fosse pronta a pugnalarlo con lo sguardo; per non parlare del loro husky, Alaska, che giusto qualche giorno prima, mentre si trovava da solo con lui in salotto, si era trasformato davanti ai suoi occhi in una sorta di mostro dalle fauci ringhianti e grondanti saliva, per poi tornare normale in un batter d'occhio non appena la sua figlioletta, Michelle, aveva gattonato nella stanza.
La bambina si era aggrappata al collo del cane per mettersi in piedi, poi si era voltata a guardarlo, sorridendogli, e Terry aveva visto le stesse zanne gialle di Alaska nella bocca della figlia.
Quell'immagine lo aveva spaventato a morte, facendolo scappare da casa. Era corso alla villetta di Don e si era sparato una lunga striscia di biancaneve, respirando a bocca spalancata finché la stanza non aveva cominciato a girargli attorno, illuminata da luci psichedeliche blu e rosa che lo avevano fatto ridere come un matto.
Una mano che lo toccava su una spalla lo fece trasalire, riportandolo bruscamente alla realtà. Si voltò di scatto, trovandosi di fronte un uomo. Indossava un paio di occhiali scuri che non riuscivano a celare del tutto i suoi occhi da diavolo, e la sua t-shirt cambiava colore di continuo.
«Ehi, amico. Ti va di provare questa bomba? Costa parecchio, ma è roba eccezionale», disse il tizio, mostrandogli un sacchettino pieno di polvere bianca.
Se fino a quel momento il volto di quel tale era stato una sorta di maschera di cera che si modellava in mille forme diverse, non appena il fiume nero delle sue parole si contorse verso di lui, Terry lo mise a fuoco perfettamente: quell'uomo era un demone appena arrivato dall'inferno per portarlo via con sé.
Senza alcuna esitazione estrasse dalla tasca posteriore dei jeans la sua 9 mm, pronto a difendersi con le unghie e con i denti. Non si sarebbe lasciato trascinare agli inferi tanto facilmente. Gli puntò la pistola dritta in faccia, con le mani che gli tremavano convulsamente.
«Lasciami in pace, brutto stronzo!», esclamò, la sua voce baritonale che riecheggiava per tutta la stanza.
«Sta' calmo, uomo...», balbettò il tizio, che ora somigliava ad un maiale dal grugno arricciato.
Terry fece un passo indietro per evitare le volute di parole nere che gli fuoriuscivano dalla bocca dalle zanne appuntite, andando a sbattere con la schiena contro qualcuno.
«Terry, tutto bene?», chiese una voce che gli parve familiare. Doveva essere quella di Don, ma non ne era poi così sicuro. Un altro serpente scuro si mosse verso di lui, ondeggiando e contorcendosi nell'aria. Alzò il braccio armato verso l'alto ed esplose nove colpi in rapida successione, finché il caricatore non fu completamente vuoto. Dai fori nel soffitto gli caddero sui capelli polvere e calcinacci, misti a gocce di sangue viola. Allora si mise le mani sulla testa per proteggersi, si rannicchiò per terra e iniziò a urlare.

 

* * *

 

Danny Seraphine stava tornando a casa sulla sua Mercedes, dopo aver trascorso la prima parte della notte con una donna bellissima e disponibilissima. Quella era sempre stata la sua droga: il sesso. Non aveva mai detto di no ad uno spinello, certo, ma non si era mai spinto oltre. Preferiva inebriarsi con le donne piuttosto che con la bamba.
Stava ancora pensando a quanto si era divertito quando il telefono della sua auto squillò. Preoccupato che potesse trattarsi della sua ex-moglie, magari con brutte notizie sulle sue bambine, rispose immediatamente.
«Pronto?»
«Ehi, Danny. Sono Don».
Danny tirò un sospiro di sollievo nell'udire la voce di Don Johnson, uno dei loro roadie di fiducia e amico di vecchia data. Almeno, le bambine stavano bene.
«Dimmi, amico. Tutto OK? Come mai mi chiami a quest'ora della notte?».
«Danny, potresti passare da me? Stavamo facendo un po' di festa, io e alcuni amici, e Terry ha dato di matto».
Il batterista dei Chicago sentì nuovamente la paura farsi largo dentro di sé. Sapeva che il ragazzone frequentava spesso le feste di Don, e che a quelle feste circolava tanta di quella coca da riempire un autoarticolato. E sapeva anche perfettamente che Terry stava per raggiungere il punto di non ritorno: se non si fosse disintossicato al più presto avrebbe fatto una brutta fine.
«Che cosa è successo?», chiese quindi con la voce che gli tremava.
«Ha tirato fuori la pistola e si è messo a sparare al soffitto. Poi si è raggomitolato come un gatto e si è messo a urlare. Ora è rintanato sotto il tavolo a piangere come una fontana. I miei ospiti si sono messi paura, amico».
Anch'io mi sono appena messo paura, stronzo! Una paura fottuta! Sai benissimo quali sono le condizioni di Terry, eppure non hai mai fatto niente per aiutarlo. Se morirà sarà anche colpa tua, pezzo di merda!”. Questi pensieri gli passarono nel cervello in una frazione di secondo, ma evitò di esternarli per non arrabbiarsi ancora di più. Sentiva già le mani che gli prudevano, e per lui sarebbe stato un attimo spaccare qualche muso se solo gli avessero detto una parola fuori posto.
«Arrivo subito», rispose soltanto, riattaccando.
Facendo stridere le gomme fece inversione a U e tornò sui suoi passi, correndo verso la casa di Don.
Una volta arrivato, Danny trovò una scena surreale. Gli ospiti del roadie continuavano a farsi di coca come se niente fosse, mentre il suo amico stava rannicchiato in posizione fetale sotto il tavolo, le braccia strette attorno alle ginocchia. Ondeggiava avanti e indietro con lo sguardo perso nel vuoto e blaterava qualcosa a mezza voce. Quando gli fu più vicino riconobbe le parole di una delle loro prime canzoni.
«Non ce la faccio più... meglio che finisca presto amico mio... meglio che finisca presto...».
Si chinò, entrando nel campo visivo di Terry.
«Ehi, ragazzone... sono qui, amico mio».
Alla vista di Danny, lo sguardo del chitarrista parve schiarirsi.
«Daniel... per fortuna sei qui. I diavoli vogliono portarmi all'inferno... mandali via, mandali via ti prego...», balbettò, nascondendo il viso tra le mani.
Il batterista sentì la rabbia montargli dentro come un geyser pronto ad eruttare. Il suo temperamento da Italiano focoso stava per prendere il sopravvento. Si raddrizzò, evitando per un soffio di sbattere la testa contro il piano del tavolo, e si avvicinò a grandi falcate a Don che si stava sparando una striscia chinato sopra un tavolino da fumo. Con un calcio lo mandò a gambe all'aria, spargendo ovunque la polvere bianca.
«Ehi, amico! Su quel tavolo c'erano trecento dollari di roba, lo sai?», si lamentò il roadie con voce lagnosa. Danny lo afferrò per il bavero della camicia e lo trasse violentemente in piedi, scrollandolo come fosse stato una marionetta.
«Non me ne frega un cazzo! Ti ho già detto un sacco di volte che Terry è arrivato al limite della sopportazione, ma voi», e puntò l'indice all'intorno verso i numerosi spacciatori presenti nella stanza, «ve ne siete sempre altamente fregati. Quel ragazzone è sempre stato un coglione, troppo buono per questo mondo, e voi ve ne siete approfittati, come uno stormo di avvoltoi che si fionda su una carogna. Mi fate schifo, siete dei pezzi di merda!». E, dopo aver mollato un pugno bene assestato sulla faccia di Don, che barcollò e cadde all'indietro sul divano, tornò rapidamente da Terry che stava ancora balbettando frasi della canzone, chinandosi di nuovo e porgendogli la mano.
«Vieni, amico. Andiamocene da qui».
Il chitarrista alzò lo sguardo su di lui e lo fissò per qualche istante prima di accettare la mano che gli veniva offerta. Con fatica, Danny riuscì a farlo uscire da sotto il tavolo e a farlo rimettere in piedi. Quando ebbe recuperato un certo equilibrio, per quanto precario, il batterista gli passo una mano dietro la schiena per sostenerlo e lo accompagnò fuori dalla casa, lasciando alle loro spalle quell'inferno sulla Terra. Uno basso e magrolino, l'altro alto e robusto, sembravano Davide e Golia mentre percorrevano con lentezza il vialetto fino alla Mercedes di Danny.
Una volta a bordo, invece di portarlo dritto a casa il batterista decise di salire sul Monte Lee, pensando che un po' d'aria fresca avrebbe fatto bene a entrambi. Una volta in cima alla collina, chiese a Terry se se la sentiva di scendere per il sentiero che portava alle enormi lettere della scritta “Hollywood”.
Il chitarrista stava cominciando pian piano a riprendersi. Gli occhi di Danny gli apparivano perfettamente normali, e le sue parole non erano nere e non volevano afferrarlo e stritolarlo. Sapeva di potersi fidare di lui.
«Sì, amico, dovrei farcela...», sospirò, aggrappandosi alla mano che gli veniva tesa come se fosse stata la sua unica ancora di salvezza. Lentamente, i due scesero i pochi metri di dislivello che li separavano dalla monumentale scritta, mettendosi a sedere con la schiena poggiata alla seconda L.
Rimasero a lungo in silenzio, godendosi l'aria fredda della notte dicembrina. Ad ogni minuto che passava, Terry sembrava riguadagnare padronanza di sé, benché diventasse di secondo in secondo sempre più stanco.
«Tutto bene, amico?», chiese infine Danny, nel vederlo con lo sguardo più lucido ma con il volto sempre più incavato. Le luci della scritta, che li illuminavano dall'alto, contribuivano a rendere il suo viso ancora più sbattuto.
«Devo smetterla. Quella merda mi sta uccidendo», rispose il chitarrista, lo sguardo perso sulle luci di Los Angeles che si stendeva sotto di loro.
Il batterista annuì. «Sì. Devi farlo soprattutto per te stesso. E poi per tua moglie e per la tua bambina».
«La mia piccola Michelle...».
Terry sorrise, ma a Danny parve più un ghigno. Gli posò una mano sulla spalla e gliela strinse con delicatezza, per fargli capire che era lì per lui.
Il chitarrista si voltò a guardarlo, e questa volta il suo fu un vero sorriso.
«A volte, penso che tu sia l'unico a volermi bene sul serio».
«Non dire così. Anche gli altri ti vogliono bene. È solo che tutti abbiamo i nostri demoni da affrontare e da sconfiggere. Ma se saremo uniti ce la faremo».
Terry sorrise ancora e gli posò la testa sulla spalla. «Ti voglio bene, amico mio».
Danny gli cinse le spalle con un braccio.
«Sai una cosa?», riprese il batterista dopo alcuni minuti di silenzio.
«Cosa?».
«Dovresti cercare qualcos'altro, per sballarti. Qualcosa di meno dannoso per la salute».
«E cioè?», chiese Terry, sinceramente incuriosito.
«Magari potresti darti al sesso sfrenato con le groupie, come me. Una scopata non fa certo male al cervello!».
Il chitarrista scoppiò a ridere di gusto e, dopo tanto tempo, Danny rivide in lui il Terry degli inizi, prima che il torbido mondo che viveva alle spalle delle rock band prendesse il sopravvento su di lui.
«Forse una scopata no», replicò, «ma di sicuro lo faranno le bastonate che Camelia mi darà in testa se lo dovesse scoprire!».
Il batterista si unì alla sua risata. Sghignazzarono finché non ebbero più fiato ed entrambi si accasciarono contro l'enorme L alle loro spalle.
«Anche questa risata è stata uno sballo», sospirò Terry, alzando gli occhi al cielo. Le stelle erano rese invisibili dal riverbero delle luci, ma la luna piena per metà risplendeva sopra la città degli angeli.
«E allora, che Dio lo benedica, questo sballo!», concluse Danny, strizzando gli occhi.

 

 

Fine

 

 

Spazio autrice:

Innanzi tutto devo ringraziare Soul_Shine (Soul Dolmayan qui su EFP) per aver indetto questo contest. Sto appunto leggendo in questi giorni l'autobiografia di Danny Seraphine, il batterista dei Chicago, e devo dire che questa lettura mi ha aperto un mondo. Certo, immaginavo che anche i miei amati ragazzi avessero commesso qualche sciocchezza, in gioventù, ma ho scoperto che hanno avuto, in realtà, una vita dissoluta peggio di Jimi Hendrix, solo che sono sempre stati attenti a non farlo trasparire in pubblico. Li avevano definiti “le Mercedes del rock 'n' roll”, e per non rovinare la loro reputazione hanno sempre fatto tutto o al chiuso degli alberghi, o al ranch con studio di registrazione in Colorado che il loro produttore dell'epoca, Jimmy Guercio, aveva acquistato per loro, e dove nessuno poteva vedere quello che facevano.
Ho scoperto che Bobby e Terry erano schiavi della cocaina, e che Terry, in particolar modo, era divenuto paranoico al punto tale da acquistare un sacco di pistole e di portarsele sempre dietro, e sottolineo sempre.
Spero, in questa storia, di essere riuscita a far trasparire il livello di paranoia raggiunto dal ragazzone, ormai a poco più di un mese dalla sua futura morte. Mi sono documentata su internet riguardo agli effetti a lungo termine dell'uso della cocaina, e oltre alla paranoia ho trovato le allucinazioni, di cui Terry è chiaramente vittima nella storia.
Danny, invece, ha provato la coca solo in un paio di occasioni: la prima, da molto giovane, in cui si sentì malissimo per tre giorni di fila, e l'ultima durante la festa del suo quarantesimo compleanno, ma senza mai trovare soddisfazione alcuna. La sua vera droga erano le donne: ha perso il conto di quante groupie si sia fatto durante i suoi anni di carriera. Per questo motivo è sempre stato il più sobrio tra i membri della band, e si è sempre preso a cuore della salute di tutti i suoi amici. Terry in primis.

Ecco perché ho deciso di far apparire anche lui, nella storia, come una sorta di “salvatore”. Purtroppo, i suoi sforzi non avranno successo, come ormai ben sapete.
Veniamo ora ai crediti.
Il titolo di questa storia è tratto da una strofa della canzone “High Times” di Jamiroquai, che poi è anche la canzone che cito all'inizio della storia. Credo sia molto azzeccata, in questo contesto.

La canzone che invece blatera Terry quando è sotto il tavolo, e che ho tradotto in italiano, è “It better end soon”, tratta dall'album Chicago (meglio conosciuto come Chicago II). In realtà parla della Guerra nel Vietnam, ma quelle strofe possono benissimo riferirsi alla sua condizione.
Grazie mille per essere arrivati fin qui.

 

 
  
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