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Autore: Ruby_Blue    09/08/2019    0 recensioni
Genere: | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Manipolazioni'
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§ 14. Il racconto di Aslan

 

L’atmosfera era accogliente e tranquilla, a metà mattina. Il locale non era affollato dalla ressa di clienti serali e la musica tenue avrebbe permesso loro di discutere senza interferenze.

Jeremy li attendeva presso uno dei tavoli di legno accanto alla grande vetrata che illuminava la sala. Inserito tra i mille oggetti quotidiani e prosaici che lo circondavano, non trasmetteva l’idea di alcunché di sovrannaturale. Sembrava lo stesso che Vasily aveva imparato a conoscere, la stessa espressione riflessiva e colpevole che aveva già spesso indugiato sulla dolcezza dei suoi tratti.

Quando lo raggiunsero con passi automatici, imponendo al cervello di dare impulso alle gambe che, fosse stato per loro, non si sarebbero mosse di un millimetro, si levò in piedi per accoglierli e stringere la mano di Cedric, che lo incontrava per la prima volta. Quest’ultimo lo salutò con un semplice “piacere”, osservandolo con un misto di sgomento e fascinazione.

Vasily, invece, non riusciva a sollevare lo sguardo direttamente su di lui, col rischio di incontrare i suoi occhi. Non ancora, almeno.

Si accomodarono tutti e tre sulle sedie di vimini, i due ragazzi l’uno di fianco all’altro, di spalle al bancone; Jeremy di fronte a loro. Attese che si avvicinasse un cameriere per ordinare tre café au lait, nonostante nessuno desiderasse gradirne. Quindi iniziò a parlare.

— “Riceverai un dono per ciascuno: la vista per l’arpa, le lingue per il pianoforte e la giovinezza per il violino.” Così mi disse. E, data la singolarità di ciò che mi era successo, decisi di scrivere tutto per non dimenticarlo. Lo feci in una lingua che non fosse immediatamente comprensibile, ma abbastanza avanzata da permettermi di esprimere con chiarezza i concetti che si estendevano nella mia mente.

«Sul momento non credetti alle sue parole. Mi piacque pensare che, con l’avanzare dell’età, mutamenti fisionomici o predisposizioni latenti si fossero rivelati in me. Ma erano bastati pochi giorni perché mi accorgessi di vederci bene, nonostante la mia vista fosse stata da sempre sfocata, prima di allora. Camminavo per strada e riuscivo a comprendere il discorso dei due rabbini che, davanti a me, ragionavano in ebraico sulla natura di Dio.

«Da quel giorno, per molto tempo, tutto andò a gonfie vele. Non tornò mai nessuno a reclamare malfunzionamenti negli strumenti che avevo riparato o venduto – come avrebbero potuto? E io persi del tutto ogni traccia di quelli. Portai avanti la mia vita come chiunque altro, soprattutto adesso che gli affari funzionavano e la mia famiglia godeva di una rinnovata salute in qualsivoglia ambito. Naturalmente non potevo sospettare. Neppure possedevo la fantasia sufficiente per farlo.»

Il cameriere tornò di nuovo, disponendo con rapida efficienza le ordinazioni di fronte a loro.

— Quando Parigi fu colpita dai bombardamenti, durante la Prima Guerra Mondiale, il mio negozio rimase intatto e solo marginalmente subì gli effetti della depressione economica.

«Me la spassai per diversi anni. Era la Parigi delle feste nei grandi salon aristocratici, degli spettacoli di cabaret, del Moulin Rouge e di Mata Hari. Era la Parigi dell’arte, in cui avresti potuto incontrare pittori come Matisse o Picasso a passeggio nei grandi boulevard, ballerini come Nijinski o scrittori come Marcel Proust o André Gide allo stesso tavolo di un café. Avresti potuto fare conversazione, nei foyer dei teatri, con musicisti come Stravinsky, Ravel o Fauré, o Puccini... o Debussy. Era il centro del mondo, come Roma all’apice del suo impero.

«Non saprò mai se tanta opulenza facesse ancora parte della mia ricompensa per aver funto da strumento inconsapevole di un disegno di più ampio respiro. Fatto sta che provai ogni lusso avessi in potere di concedermi, dai piaceri dell’arte a quelli della carne. Continuai a coltivare l’amore per il pianoforte, anche se non realizzai mai il sogno della mia giovinezza. Fin quando la vita non iniziò a rendere il conto.

«Nel 1928 mio figlio Antoine abbandonò noi e la sua stessa famiglia di punto in bianco, senza più dare notizie di sé. Se mia nuora riuscì a farsene una ragione non fu così per mia moglie, che non trovò conforto neppure dopo la nascita dei nostri nipoti, i figli di nostra figlia, la quale aveva sposato il più affidabile dei miei dipendenti. Ci lasciò pochi anni più tardi, appena in tempo per risparmiarsi gli scempi della Germania nazista.

«L’anno in cui scoppiò la guerra compivo settantacinque anni, e avevo ormai capito che anche la terza predizione si sarebbe rivelata veritiera. Con il passare del tempo i commenti delle persone intorno a me non avevano fatto che aumentare, puntualizzando quanto fosse impossibile che il mio aspetto si mantenesse ancora così florido a quella veneranda età, senza mai mutare veramente.

«Mano a mano che gli anni erano passati, avevo cercato di camuffare le mie fattezze affinché sembrassero più vetuste, ma senza successo. Tutto ciò che attestava la presenza del vecchio, in me, si riduceva a qualche tratto nella gestualità o nel parlare, troppo poco perché sembrasse credibile. Il bianco non era comparso sui miei capelli, e per qualsiasi ruga o solco sul mio viso il tempo si era bloccato quella lontana notte.

«Così, a meno di non voler continuare a essere additato quale scherzo della natura, come avveniva in modo sempre più opprimente, col cuore in pezzi decisi di abbandonare Parigi e la mia piccola Marguerite. La chiamavo piccola... la chiamo ancora così, nei miei pensieri, nonostante fosse ormai adulta. Fui costretto ad andarmene senza sapere se l’avrei mai più rivista, lasciando il negozio alle disposizioni di lei e del marito. Di lì a poco, per molti anni, non avrei più avuto notizie di esso: sarei tornato a Parigi solo decenni più tardi, a metà degli anni Ottanta, trovando al suo posto un’attività di ristorazione.

«Ma torniamo ad allora. Quando la Germania invase la Polonia, nel settembre del ’39, ero già emigrato in Inghilterra e avevo cambiato nome. Neanche ricordo come riuscii a scovare il primo delinquente a cui mi rivolsi perché mi procurasse dei documenti falsi. L’unica persona a conoscenza della verità rimaneva mia figlia, alla quale continuavo a mandare lettere, regali e denaro, anche quando il progredire del conflitto rese più sporadica la nostra corrispondenza. Nel giugno del 1944 venni a sapere, da una missiva del mio unico nipote Michel, allora diciassettenne, che era rimasta vittima di un incidente stradale mentre mio genero finiva i suoi giorni sul fronte di Normandia. Ero distrutto dal dolore. Non dovrebbe essere crudelmente innaturale che siano i genitori a dover vedere morire i propri figli, anziché il contrario?

«Mio nipote mi informava di essere stato messo in parte della mia nuova identità da sua madre, prima che morisse, anche se non ne conosceva i motivi esatti, perciò feci l’unica cosa che mi sembrasse opportuna in quel momento: passai legalmente a Michel una consistente parte dei proventi dei miei investimenti oltremanica.

«Tuttavia, quando egli espresse il desiderio di raggiungermi a Londra con la sua fidanzata, dopo la guerra, poiché ero certo che non avrebbe mai creduto che quell’uomo dall’aspetto di un quarantenne potesse essere davvero suo nonno, mio malgrado decisi di trasferirmi negli Stati Uniti, lasciandogli in eredità ogni bene immobile che possedessi.

«Da New York continuai a prendermi cura di lui e di sua moglie vegliandoli da lontano, come un munifico quanto sfuggente benefattore molto in là con gli anni, ed elusi qualsiasi suo proposito di incontrarmi. In quel periodo conobbi Louis Armstrong, Benny Goodman, Charlie Parker e altri tra i più grandi jazzisti internazionali, riprendendo attività imprenditoriali su larga scala. Ricominciai a vivere pienamente, trascinato dall’effervescenza dei “favolosi” anni cinquanta.

«Il benessere economico che, con sempre maggior evidenza donava longevità e allungava le aspettative di vita volgeva a mio favore, permettendo che per ventotto anni avessi portato addosso l’identità fittizia che mi diceva nato a Londra nel 1905.

«Avevo visto dipanarsi davanti a me il progresso con una lucidità difficilmente possibile per una persona che viva una sola vita: avevo visto automobili sempre più accessoriate e rombanti sostituire definitivamente le carrozze e i cavalli, avevo visto lo sviluppo della medicina e di una tecnologia salvifica quanto distruttiva, figlie di quella caligine che Churchill aveva definito “cortina di ferro”. Avevo visto l’arte, la letteratura e la musica dirigersi verso orizzonti sempre più indomiti e trasgressivi, liberandosi dai dogmi del passato.

«Vedevo l’uomo passeggiare sulla luna, i giovani ornarsi i capelli di fiori e marciare per le strade con stendardi che osannavano la libertà sessuale e l’emancipazione femminile. Davanti ai miei occhi le case si popolavano di televisioni e frigoriferi, e ognuno sembrava credere nella possibilità di meritarsi, un giorno, il proprio angolo di paradiso.

«Ma tornavo a subire per la seconda volta anche il disagio del momento di crisi che avevo vissuto prima della guerra: gli sguardi perplessi degli impiegati bancari che non potevano credere che avessi passato la sessantina, i poliziotti che, fermandomi sulla mia Ford Capri per un controllo di routine, apparivano sospettosi.

«Non sarebbe stato difficile procurarsi nuovi documenti falsi a New York, se non per lo scrupolo di mantenerne all’oscuro il mio caro nipote, che sempre di più fremeva dal desiderio di incontrarmi prima della mia, evidentemente ormai prossima, dipartita. Ma sapevo anche che, esattamente come gli altri settori, anche la legalità e l’ordine pubblico si avviavano verso un controllo di massa sempre più rigido, e non potevo permettermi di rischiare che scoprissero il mio segreto.

«Fu così che, nel 1967, Alan Meyer sparì dalla circolazione per lasciare il posto a Fryderyk Winkler, il quale, dagli Stati Uniti, volò per la prima volta in aereo per stabilirsi a Vienna. Non potevo rivelare la verità a Michel, costringendolo a credere che suo nonno fosse passato a miglior vita, alla pur veneranda età di centotre anni, ma ancora non smisi di occuparmi del suo benessere tramite i miei agenti che facevano capo in Inghilterra. Mi presentai come un giovane amico di suo nonno, come un benefattore che desiderava portare avanti la volontà del vecchio con la medesima prodigalità nei suoi confronti. Cercavo di calmare la sua foga di domande coi miei messaggi privi di indirizzo, ma credo che in fondo avesse intuito, nel proprio inconscio, chi veramente fosse quell’uomo così generoso.

«Mi trovavo nella capitale della musica per pianoforte, l’avevo scelta per quel motivo, e fu in quegli anni che, presso la Gesellschaft der Musikfreunde, iniziai a fornire lezioni. Come si dice, “chi non ha talento insegna”. Ma non passava giorno in cui non pensassi a quel lontano incontro con il giovane dai capelli color della luna e a quello che mi aveva fatto. Non passava giorno in cui io non gli recriminassi il peso che mi condannava a veder morire di fronte ai miei occhi, infallibilmente, tutte le persone che amavo.

«Non è mai esistito amore che io abbia potuto vivere con la consapevolezza che sarebbe stato per sempre, che sarei potuto invecchiare con quella stessa persona e, magari, morire prima di lei. Ho avuto tante storie, è vero, e tanti amanti si sono susseguiti in questa lunga e inutile vita, ma nessuno ho avuto davvero accanto. L’unica amante che neanche allora

   
 
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