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Autore: Crudelia 2_0    10/08/2019    3 recensioni
Esmeralda e Phoebus sono al Valdamore quando qualcuno colpisce il Capitano. Quest'ultimo, ferito solo superficialmente, si getta all'inseguimento della gitana, che troverà aiuto nel posto più inaspettato.
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Lei
Che passa come la bellezza più profana
Lei porta il peso di un'atroce croce umana
 
 

Aveva bisogno d'aria. Correva per le scale come un pazzo, un cieco, seguendo la stretta scala a chiocciola con le mani, sbattendo contro i muri. Si sentiva bruciare. La camicia aderiva al petto sudato soffocandolo. Doveva rinfrescarsi, scappare da quel fuoco infernale che gli era nato nel petto, nello stomaco, nel basso ventre e ancora più giù, dove sentiva dolorosamente stringere i pantaloni.
Fermò la sua corsa quando colpì il parapetto di pietra del campanile.
Ansimando, guardò i parigini in basso, ignari del suo tormento. Sarebbe bastato così poco, sporgersi leggermente e sarebbe caduto fra di loro. Qualcuno avrebbe gridato vedendo il suo corpo cadere e schiantarsi al suolo scomposto, ma lui non se ne sarebbe accorto, sarebbe morto ancor prima di toccare il suolo. E sarebbe morto felice abbracciando il refrigerio che tanto agognava.
Si voltò e cadde in ginocchio. Non l'avrebbe mai fatto.
Ci teneva alla vita, nonostante tutto. O forse aveva paura dell'inferno che avrebbe accolto la sua miserabile anima di peccatore.
Si strappò il collarino e lo gettò lontano, si liberò con violenza della veste e della camicia, graffiandosi il petto per la foga di liberarsi di quel calore febbrile.
Sospirò, prendendosi la testa fra le mani. Non si accorse del gemito roco che gli stava uscendo dalle labbra.
Non sapeva dove aveva trovato la forza di staccarsi da lei, dalla sua bocca, i suoi capelli.
Aveva capito già da tempo che il suo cuore, rimasto così arido durante l'infanzia, era capace di molto amore. Troppo forse. Amava in modo assoluto. L'aveva capito con suo fratello, l'aveva amato come una madre. La sua ingratitudine l'aveva distrutto, e continuava a ferirlo ogni volta che lo vedeva.
E ora quella ragazza.
Doveva starne lontano o si sarebbe perduto. Ancora non si era dannato. Si era tirato indietro. Mentre seguiva suo fratello e il Capitano aveva scorto il proprio riflesso in una finestra: il mantello nero ad avvolgerlo, il cappuccio calato a coprirgli il viso, si intravedevano solo gli occhi, accesi di una luce accecante, febbrile. Erano gli occhi di un demone.
In quell'istante aveva capito di star commettendo una follia, chi era lui per impedire a quella fanciulla di concedersi all'uomo che credeva d'amare? Come poteva pensare di salvarla se ogni volta che la vedeva la malediva? L'avrebbe accusato di essere un assassino.
Piuttosto che il suo odio, preferiva l'indifferenza.
Era dunque tornato alla cattedrale, cercando di rifugiarsi nella sua scienza finché non se l'era trovata davanti.

Perché, perché, oh Dio perché mi fai questo?

Era riuscito a resistere alla tentazione e questa gli capitava tra le mani. Aveva pregato perché fosse sua, aveva rinunciato e ora gli veniva consegnata come un dono divino. O forse, riuscito a superare la prima prova, doveva affrontarne una seconda, più difficile?

Perché?! Oh, Signore, salvami!
 
 
 

Era rimasta contro il muro fin quando le gambe, tremanti, non l'avevano retta. Era allora scivolata lungo la pietra fino a trovarsi seduta a terra, le ginocchia al petto.
Si sentiva scossa, spaventata. Solo la sera prima Phoebus, lo stesso Phoebus che diceva di amarla, aveva tentato di abusare di lei. Era convinta di amarlo eppure, all'ultimo momento, quando la veste aveva rivelato i seni e il suo amuleto, si era tirata indietro. Certo non pensava che il soldato pretendesse i suoi servizi anche con la forza, se non fosse stato per quel colpo chissà come sarebbe finita. Diverso era stato con l'arcidiacono. C'era qualcosa nel modo in cui la toccava, un calore bruciante, che le lasciava una scia sulla pelle. Le sue labbra, poi!
Anche solo ripensandoci sentiva un formicolio al basso ventre.
Non sapeva spiegarsene il motivo. Forse era il suo portamento, elegante e mai eccessivo, o i suoi occhi che esprimevano un dolore che lei non riusciva neanche ad immaginare ogni volta che la guardava. E infine la sua voce. Roca, sempre bassa, si infrangeva su di lei come le onde sugli scogli.  Parlava poco più che sussurrando e le aveva rivolto così poche parole che non capiva come quel timbro le fosse entrato dentro, ma sentiva lì, nel petto, una corda che vibrava quando parlava. 
Decisamente, era la sua voce.
Tuttavia, quello che era successo rendeva ancora più impellente trovare una via di fuga.
Uscì nuovamente sul balcone. Iniziava a sentirsi come un animale in gabbia a cui è offerto solo uno spiraglio d'aria e, per questo, torna sempre nello stesso punto.
Alzò lo sguardo verso il cielo, il sole le fece lacrimare gli occhi anche attraverso le palpebre chiuse.
Cosa avrebbe dato per essere un uccello, avere le ali. Sarebbe salita sul tetto della cattedrale, sulla torre più alta, e avrebbe spiccato il volo verso la Corte dei Miracoli e oltre, avrebbe seguito la Senna fino a tuffarsi nel mare e- spalancò gli occhi all'improvviso.
Aveva capito, la soluzione non era salire, ma scendere! Corse al parapetto e si affacciò, creò con la mente un percorso, cercando appigli tra le statue e ornamenti. Non sarebbe stato facile, una discesa lunga, difficile e pericolosa. Un solo passo falso e sarebbe morta. Ma valeva la pena tentare. Avrebbe aspettato la notte, con l'aiuto del buio nessuno l'avrebbe vista.
Con quella speranza nel cuore si sedette, si mise comodamente appoggiata alla parete e iniziò ad aspettare.
 
 

Un brivido di freddo le corse per la schiena. Si raddrizzò di scatto e tutti i muscoli della schiena e del collo protestarono con una scossa dolorosa.
Si era addormentata.
A fatica, sforzando le gambe irrigidite da tante ore d'immobilità, si tirò in piedi.
Era notte, ma non da molto. Stroppicciandosi gli occhi entrò dentro.
-Buongiorno-.
La voce la fece sobbalzare. Si voltò di scatto per vedere da dove proveniva, i muscoli già pronti a scattare.
L'arcidiacono era seduto alla scrivania. Leggeva, un libro in una mano e nell'altra una coppa di vino. Un sorriso ironico sulle labbra, non la guardava.
Esmeralda si sentiva il cuore in gola, riusciva sempre a spaventarla. Si passò la lingua sulle labbra secche e fece per rispondere quando gli occhi dell'uomo si incatenarono ai suoi facendole di nuovo perdere le parole.
Se possibile, il sorriso si intensificò.
-Devo chiedervi di stare più attenta- disse alzandosi -Potete uscire, chiaramente, ma non dovete farvi vedere-, si era avvicinato alla porta, l'aveva chiusa e tirato una pesante tenda. Di colpo nella stanza era piombata l'oscurità, rotta solo dalle numerose candele sulla scrivania.
L'uomo si avvicinò e si posizionò di fronte a lei, appoggiandosi alla scrivania, le gambe allungate e le braccia incrociate sul petto.
La fissò intensamente. Il sorriso era scomparso, al suo posto era calata un'ombra sugli occhi.
-Avete fame?- le chiese.
Esmeralda annuì, deglutendo. Non si era accorta di avere fame, al momento il suo problema era il freddo.
L'uomo le indicò con un cenno un cestino affianco a lui. Non glielo porse: se lo voleva, doveva avvicinarsi.
Cercando un coraggio che in realtà non aveva la ragazza si avvicinò.
Era davvero un gesto poco carino, si ritrovò a pensare. Erano  molto vicini, aprendo il cestino aveva sfiorando la coscia del prete. L'aveva sentito fremere.
Bene, se l'era cercata.                       
Deliberatamente, fingendo di ruotare il cesto, gli toccò di nuovo la gamba, premurandosi di farlo il più lentamente possibile.
Lo vide scattare in piedi come scottato, riprese il libro e si sedette pesantemente su una poltrona vicino al camino.
Questa volta toccò a Esmeralda sorridere.
Sentiva lo stomaco chiuso in una morsa, tuttavia sforzò la bocca asciutta ad aprirsi e parlare:-Dovrò rimanere a lungo?- Nascosta, prigioniera, voleva aggiungere, ma ingoiò le parole.
Non vide la reazione dell’uomo perché si stava fingendo interessata alla sua cena, ma la sferzata d’ironia la colse impreparata.
-Ma allora parli! La tua bella voce che canta non l’avevo immaginata-
Se possibile, lo stomaco le sparì in un grumo doloroso.
-Io…-  Deglutì. –Io non ho paura di voi!- Disse voltandosi a fronteggiare l’uomo.
Inaspettatamente, Frollo cominciò a ridere. Esmeralda lo guardò con gli occhi  sgranati. Aveva sentito molti uomini ridere, soprattutto alla Corte e specialmente ubriachi, ma mai nessuno in quel modo. Non c’era allegria nella risata del curato, solo un’immensa amarezza.
La risata sfumò lentamente lasciando un’ombra di sorriso sulle labbra. Incrociò gli occhi della ragazza che sussultò come se l’avesse colpita.
-Ma davvero?- Chiese con tono strascicato.
Era solo una zingara e non sapeva nulla dei giochi di potere, ma vederlo in quel modo le fece capire come avesse fatto ad arrivare così in alto nella gerarchia ecclesiastica. Dai suoi gesti traspariva nobiltà, sicurezza di sé.
Era intimorita, spaventata. Terrorizzata. Ma sentì la rabbia diffondersi in tutto il corpo.
Strinse i pugni, sentendo le unghie conficcarsi nei palmi.
–So cosa volete da me, solo il mio corpo! Ma non lo avrete, no, non lo avrà nessuno. Tanto meno voi, voi che pregate tanto e poi guardate tutti dall’alto al basso!- Stava ansimando. L’ansia le stringeva lo stomaco e faceva aumentare il battito del cuore, che sentiva doloroso nelle tempie.
Si aspettava di vederselo venire contro, forse l’avrebbe colpita, sicuramente l’avrebbe fatta sua.  Ma l’uomo la sorprese. Non aveva mai distolto gli occhi dai suoi, man mano era calato un vero su quelle iridi.

Il mare. Il mare diventa nero quando c’è tempesta.

Il pensiero fu intercorro dallo schiocco del libro chiuso di scatto.
-Bene.- Disse Frollo alzandosi dalla poltrona. –Bene.-  Ripeté. Le si avvicinò fin quasi a sfiorarla. Esmeralda provò a indietreggiare, ma si ritrovò a sbattere contro la scrivania. Fu sicura che avrebbe concluso quello che aveva lasciato in sospeso quella mattina.
Chiuse le palpebre, aspettando. Invece sentì sulle labbra il fiato bollente dell’uomo. Schiuse gli occhi  per trovarsi nuovamente incatenata alla iridi dell’uomo.
-Se volete andarvene fate pure, sono sicuro che qualcuno dei vostri trucchetti da strega funzioneranno sulle guardie che ci sono ad ogni porta.- Le sibilò contro.
-Non ci sono guardie.- Sussurrò talmente piano che faticò a percepire la sua stessa voce. Vide l’uomo stringere gli occhi dalla labbra e di nuovo ebbe la sensazione che quel suo sconsiderato atto di ribellione venisse punito.
Di nuovo, si sbagliò.
L’arcidiacono si fece ancora più vicino, appoggiando le mani sul legno scuro della scrivania. Ora i loro petti era separati da pochi, irrisori, millimetri.
-Se pensi di conoscere la mia cattedrale meglio di me accomodati, gitana, esci. O scala le pareti se pensi che sia la soluzione. Vedremo bene se balli ancora, appesa alla forca.-
Deglutì. Forse erano vere le voci che lo definivano uno stregone perché altrimenti non avrebbe saputo le sue intenzioni.
-Come lo sapete?- Trovò ancora la forza di chiedere. Le parole lasciarono le sue labbra secche in un sussurro doloroso. Le aveva parlato come ad una signora fino a quel momento, ma aveva smesso. Come prima di schiacciarla al muro, prima di perdere del tutto il controllo gli avvertimenti erano chiari.
La guardò ancora per secondi che parvero anni. Alzò una mano e la avvicinò al volto di Esmeralda. La ragazza sentì sulla guancia il calore delle dita, segno della loro vicinanza, ma la carezza non arrivò mai.
L’uomo si era allontanato, sistemando pieghe invisibili nella tonaca e dandole la schiena.
Sospirò pesantemente e poggiò le mani sul camino, fissando il fondo privo di cenere. Stringeva il cornicione tanto forte da avere le nocche bianche, le spalle incurvate schiacciate da un peso troppo grosso.
Un ennesimo sospiro lasciò le sue labbra e, come sempre, Esmeralda rabbrividì ad udirlo.
-Vedo due modi perché possiate andarvene.- Iniziò con tono stanco. –Vi potete vestire da uomo, tagliare i vostri bei capelli e lasciare la cattedrale come un novizio, oppure aspettare che l’attenzione di tutti sia su un evento così importante cosicché la vostra fuga passi in secondo piano.-
Il silenzio strisciò tra loro come nebbia. Quando capì che il discorso dell’uomo era in realtà una scelta, Esmeralda si decise a romperlo.
-Non voglio tagliarmi i capelli.- Suonò infantile anche alle sue orecchie. Un po’ se ne vergognò.
L’uomo prese fiato lentamente, sembrava volesse trattenersi dal dire qualcosa. Infine espirò, drizzando la schiena.     
-Bene, aspetteremo il matrimonio del capitano.- Disse voltandosi. La guardò ancora con uno strano sguardo, come se avesse voluto che non scegliesse quella possibilità, che se ne andasse il prima possibile.
Non disse niente, fece un cenno con la testa per congedarsi.
 
 
 

Vedremo bene se balli ancora, appesa alla forca.

Quelle parole continuavano a rimbombargli in testa, ancora dopo giorni. Voleva allontanarla. Ci era riuscito?
No.
Ironico. Per quanto in passato avesse cercato di avvicinarla l’aveva sempre guardato con odio, ora, quando l’unica cosa che voleva era mettere più distanza fra sé e la ragazza, lei sceglieva la possibilità più remota.
Pensava, sperava, avrebbe scelto di andarsene subito. In fondo i capelli gli sembravano un buon prezzo per la libertà. Ma, ancora, la aveva fatto la scelta meno indicata: potevano passare anche mesi prima che il Capitano si sposasse. Come poteva pensare che non fosse un’incarnazione del demonio se non faceva altro che indurlo in tentazione?
Avrebbe dovuto cacciarla, esiliarla dai suoi appartamenti (dal suo letto!) e liberarla per le strade di Parigi. Che fossero le guardie o il suo Capitano a combattere le fiamme dell’inferno, non lui. Non lui che aveva il cuore incatenato a Notre Dame, catene che stringevano ogni volta che lo sguardo si posava sulle forme in fiore di Esmeralda. Sospirò, sentendo la carne bruciare al solo pensiero.  
Non poteva, non l’avrebbe mai fatto. Non era abbastanza forte per privarsi anche solo della consapevolezza di averla sotto lo stesso tetto.
 


Erano passati tre giorni, o almeno così Esmeralda supponeva. Il tempo scorreva in modo strano tra quelle mura, scandito dalle campane e dalle preghiere.
Aspettava, sentendosi in gabbia. Passava le giornate sul balcone, ben attenta a non farsi vedere, beandosi del calore del sole e ascoltando le voci dei parigini che salivano fin lassù. Tuttavia, le parole dell’uomo le avevano lasciato un’angoscia persistente. Il pensiero che l’avrebbero uccisa se solo fossero riusciti a prenderla le schiacciava lo stomaco a intervalli irregolari; a volte si svegliava nel cuore della notte sentendosi mancare il fiato, convinta di avere un cappio intorno al collo.  In quei momenti si consolava canticchiando a labbra chiuse e coccolando l’amuleto di sua madre.
Quel giorno, però, era come circondata da una bolla di serenità. Supponeva fosse domenica, le campane l’avevano svegliata suonando a festa, e per tutto il giorno la piazza era stata invasa da voci felici, musiche e canti. Non osava più affacciarsi, ma se si concentrava abbastanza poteva vedere la sua famiglia intrattenere bambini e adulti. Pensava alla sua capretta, a come avrebbe voluta stringerla, la sua piccola amica.
Pensava spesso a Djiali, specialmente da quando era riuscita ad avvicinare un gatto. Immaginava fosse nella cattedrale per cacciare i topi, come tutti i gatti di Parigi. L’aveva portato a fidarsi offrendogli piccoli bocconi di carne e lievi carezze. Si era riconosciuta nell’animale, sola e spaventata.
Ci era voluto comunque poco per fare amicizia con il piccolo felino: dopo la razione di cibo e coccole riusciva a farlo giocare con un laccetto della sua gonna. Non le importavano i graffi che si accumulavano sulle mani, erano ben sopportati in cambio di qualche sorriso. Aveva comunque deciso che il suo unico attuale amico si meritava di meglio. Era tornata a frugare nei cassetti della camera da letto. Quasi abbandonato a se stesso aveva trovato un fazzoletto bianco e profumato, in un angolo erano elegantemente ricamate tre lettere azzurre.
Esmeralda l’aveva diviso in strisce sottili per poi legarle insieme, facendo attenzione a non rovinare il piccolo ricamo. Stava facendo saltare il gattino da una parte all’altra al suo inseguimento quando lo vide appiattire le orecchie e scappare in un turbinio grigio.
Fissò l’angolo in cui era scomparso prima di sentire un rumore e alzare lo sguardo. L’arcidiacono si era appena affacciato alla porta, guardandola con il suo sguardo attento. La ragazza ricambiò l’occhiata, studiandolo. Non era rilassato, non con quei cerchi blu sotto gli occhi, ma non era neppure arrabbiato.
Sembrava rassegnato, triste.
-Vi annoiavate?- Le chiese in tono quasi gentile, alzando appena gli angoli della bocca.
Esmeralda sorrise, ricordando la risposta che aveva dato poco tempo prima. –Ho fatto amicizia con un gatto, lo stavo facendo giocare,. Si alzò per avvicinarsi all’uomo. –Vedete, ho trovato questo.-
Gli si fermò di fronte, ad un passo di distanza, guardando il fazzoletto che teneva tra le mani. Fu l’uomo a coprire lo spazio che li separava. Tese la mano a sfiorare il fazzoletto, accarezzando con l’indice le piccole lettere.
-Era di mia madre.- Sussurrò con una delicatezza che la ragazza non gli credeva possibile. –L’avevo dimenticato.-
Parlava tra sé, ma quelle parole bisbigliate ebbero su Esmeralda l’effetto di uno schiaffo. Si sentì improvvisamente meschina per aver violato un oggetto tanto prezioso.
-Mi dispiace.- Balbettò con gli occhi pieni di lacrime. –Io…- Non riuscì a finire, le si ruppe la voce in gole.
-Non è importante, non ricordavo neppure di averlo.- Asserì l’uomo con tono più presente.
-Io…- Ripetè, incapace di andare oltre. Non immaginava come avrebbe reagito se qualcuno avesse osato rovinare il talismano di sua madre, la piccola scarpina. Si sarebbe disperata, non avrebbe avuto la calma dell’uomo. Solo al pensierosi sentiva morire.
Sentì due dita sotto il mento e incrociò lo sguardo dell’uomo. Aveva le sopracciglia corrugate, come se non capisse.
-Non piangete.- Bisbigliò asciugandole una lacrima con un pollice. –Non sopporto vedervi così.- Di nuovo, sembrava parlasse a se stesso, ma Esmeralda si sentì scaldare da quelle parole.
Nessuno mai le aveva parlato con quell’accoratezza e il dolore che l’uomo aveva inciso su ogni ruga del volto la colpì particolarmente, alla luce accecante del tardo pomeriggio.
Di slancio, Esmeralda si alzò sulle punte per gettarsi tra le braccia dell’uomo. Gli strinse il collo sentendo il cuore accelerare sotto la tunica e il calore del suo petto avvolgerla.
 
 



Note
Due mesi. È imperdonabile, ma il capitolo si era bloccato a metà e non voleva più saperne, Ringrazio comunque chi è arrivato fin qui, chi ha messo la storia tra le seguite e le preferite. Se volete lasciare un commento è più che gradito, qualsiasi esso sia.
Se ve lo state chiedendo, smetterò mai di citare il musical? La risposta è no, se mi è possibile.
 
Crudelia   
   
 
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