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Autore: shilyss    11/08/2019    44 recensioni
C'è un segreto che Loki deve scoprire. Uno che lo tormenta e gli farà attraversare persino il tempo. Si può cancellare ciò che è stato? La conoscenza, alle volte, può essere la più crudele delle torture.
Un fruscio leggero della bella e ampia gonna di seta e gli posò le dita sul petto coperto dalla corazza di pelle intrecciata, come aveva fatto in un passato lontano.
“Potresti essere migliore di così. Guardati attorno, Loki. Tutto questo non serve e non ti aiuterà,” disse, facendo scorrere i polpastrelli delicati fin sulla mascella virile e sbarbata, diritta e decisa.
L’ingannatore sorrise a quella lusinga, resa più carezzevole dalla voce dolce di lei, dal suo tocco gentile e lieve, ma non privo di un’insidia celata, anzi, di molte. Gli aveva sfilato un pugnale dalla bandoliera e ora tentava di trafiggerlo, di colpirlo al fianco.
La disarmò con un gesto rapido e fulmineo, afferrandola per i polsi sottili.

[post Avengers: Infinity War] [Loki/Sigyn]
[ ♦ Storia Vincitrice del contest "Elisir, pozioni e distillati" indetto da wurags sul forum di Efp, a pari merito. ♦ ]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki, Sigyn, Thor
Note: Lime, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Incantesimi d’amore e di morte

 

 

Salutò il suo amore

Lui s’imbarcò su una nave dal molo di San Blas

giurò che sarebbe tornato

E, bagnata di pianto, lei giurò che lo avrebbe aspettato.

Mille lune passarono e lei rimase al molo

Aspettando

Molti pomeriggi si annidarono

Si annidarono nei suoi capelli, sulle sue labbra.

(En Muelle de San Blas, Manà, libera traduzione italiana: Shilyss)

 

 

 

 

Capitolo 1

La prigioniera

 

Aveva le mani macchiate di sangue. Sangue suo. Colava dal naso, scivolava sulle labbra, contrastava con la mano che teneva, aperta, davanti a sé. Una volta, al Titano che, furioso, lo aveva accusato di aver perso un’armata e ben due gemme, aveva raccontato che i fallimenti non esistevano: era tutta una questione di prospettive, di punti di vista. Se guardata nel giusto modo, una sconfitta non rappresentava altro che l’opportunità di testare un potere diverso e oscuro, per poi vincerlo e schiacciarlo sotto i propri stivali. Quella sicurezza c’era ancora, da qualche parte nel suo petto, lo sentiva. Esisteva e raschiava per poter uscire, ma ora c’era il resto. La lucida consapevolezza che il passato non si poteva cambiare o, perlomeno, non quella parte che lui aveva cercato in tutti i modi di modificare e, così, l’amaro presente, suo figlio diretto. Le sconfitte potevano essere lette come opportunità, ma bruciavano più delle ustioni, infettando lo spirito, scalzando via la speranza.

Era ragionevole che avrebbe fallito, ancora e ancora.

Non esisteva alcun trucco in grado di ribaltare la sorte, perché ogni variabile mutata portava allo stesso, inevitabile, punto, anzi, peggio. La perdeva ogni volta di più.

 

“È successo un’altra volta, non è vero?”

La voce di Thor aveva il suono aspro della delusione ed era gonfia del rimprovero tipico del fratello maggiore, giusto e saggio, nei confronti dello scapestrato cadetto di famiglia. L’aveva sentito arrivare, ma non per questo si voltò verso di lui o gli rispose, né l’altro si sarebbe aspettato diversamente, del resto. Erano cresciuti insieme dividendo ogni cosa: avevano combattuto mille battaglie schiena contro schiena, con gli stivali affondati nel sangue dei nemici sconfitti, le armi sguainate in pugno. Nessuno dei due era mai stato capace di arrendersi. Thor di questo era evidentemente cosciente, così come sapeva che Loki non poteva accontentarsi: non era nella sua natura, del resto. Ecco perché il filo tessuto dalle Norne doveva essere mutato a ogni costo.

 

Il dio dell’inganno barcollò fino al tavolo più vicino, prese un fazzoletto, si pulì il sangue. Sentiva il seiðr scorrergli nelle vene, bruciandole. Era un mago potente, un maestro di magia come non se ne conoscevano di migliori in tutti i Nove Regni, ma l’incantesimo cui si era ripetutamente sottoposto negli ultimi tempi era così corrosivo da debilitare persino il suo fisico di Jotunn, altrimenti agile e robusto.

Thor gli porse dell’idromele e lui ne bevve un lungo sorso. “Ti sei costruito una prigione terribile, fratello,” notò amaro.

Loki serrò la mascella. Il paragone era drammaticamente calzante, ma non gli avrebbe mai concesso la soddisfazione di un’ammissione aperta. Il potere logora, rosicchia incastra, distrugge e, allo stesso tempo, dona.

“Rivivi sempre lo stesso momento e, ogni volta, lasci indietro qualcosa. È un’illusione. Non cambierai ciò che è stato, ciò che è.”

 

Dopo aver staccato con un colpo netto la testa a Thanos ed essersi reso conto di quanto, in fondo, fosse stato inutile e tardivo il suo gesto, Thor Odinson aveva perso buona parte della retorica che gli aveva sempre gonfiato il petto. Era il re di un popolo di esuli venuti a vivere altrove, ma il peso di quel ruolo lo schiacciava, non lo rappresentava; così, Loki, che per tutta la vita aveva creduto di meritare il trono, governava di fatto al posto suo, prendendo decisioni ed emanando leggi, ma finendo inevitabilmente per bramare sempre ciò che aveva avuto e, senza una spiegazione plausibile, si era ritrovato a smarrire.

Il tonante era consapevole di ciò che stava facendo: aveva contezza sia del bene compiuto verso la nuova Asgard, che del dannoso tentativo di modificare ancora il passato. Non poteva resistere alla tentazione di provare a fermarlo. Non c’era mai riuscito, così come non era in grado di guidare il gruppo di esuli Æsir che aveva avuto la disgrazia di sopravvivere alla distruzione perpetrata da Hela prima, da Surtur poi.

“Ti distruggerai, Loki. A che serve, saperlo? Perché non provi a ricostruire la tua vita, a ricominciare daccapo?”

Aprì le braccia e indicò il fiordo che si stendeva, magnifico e immenso, di fronte a loro. Aveva compreso di essere stato ingiusto e avventato. Tentò di rimediare. “Quando sei tornato, era un villaggio di pescatori. Ora è Asgard.”

 

Loki gettò un’occhiata rapida e breve a quella cosa in divenire, precaria e ben lontana dai fasti della perduta, meravigliosa, Ásaheimr[1]. Aveva evocato lui Surtur affinché distruggesse ogni cosa, avverando una profezia antica e spaventosa in maniera imprevista. Ricordò il fuoco, la fuga, il brivido provato quando l’ombra dell’ammiraglia di Thanos aveva oscurato la loro lancia rapida e carica di fuggiaschi[2]. Con un gesto istintivo, si massaggiò il collo, dove, sotto il colletto della corazza di pelle intrecciata, spiccava una cicatrice antica, ormai bianca: il segno che il Titano gli aveva lasciato nel tentativo di rompergli il collo, spezzargli il respiro.

 

 

Passò il tempo. Passò così tanto tempo che si dimenticarono di contarlo.

Loki fingeva di essersi adattato alla sua nuova vita. Mentiva, sostenendo che Asgard fosse stata replicata quasi alla perfezione, ma, soprattutto, s’illudeva che nessun tarlo gli rodesse il petto, scavandogli dentro. La soddisfazione non era nella sua natura, del resto. Doveva sapere, capire cos’era successo e quando e perché, in quale luogo o tempo. Eccola, la sua maledizione: da sempre era stato capace di adeguarsi a ogni contesto, a qualsiasi situazione, ma la conoscenza, no, non poteva difettargli.

“Se la liberassi?”

Fu così che la voce del dio degli inganni spezzò il silenzio di una notte vuota e cupa.

Thor volse il capo verso il fratello che, chino di fronte a un camino, ravvivava con l’attizzatoio le fiamme del fuoco tremante. Aprì la bocca per parlare, ma l’altro riprese quella cosa a metà strada tra la confessione, lo sfogo e il ragionamento ad alta voce.

Il tonante capì che aveva ceduto un’altra volta al bisogno di andarla a trovare nella sua torre solitaria; ecco perché ora voleva tentare nuovamente quell’incantesimo pericoloso e crudele, capace di scardinare il tempo e rovinare quello che sarebbe dovuto rimanere un ricordo perfetto, nient’altro.

 

“È un ciclo senza fine, che mi consumerà,” riprese Loki con improvvisa lucidità. “A volte, torno indietro e lei poi ricorda, ma troppo tardi; altre, non lo fa, ed è come perderla ancora e ancora. In ogni caso, sfugge. Andrà sempre così,” concluse, “a meno che io non scopra quel maledetto nome. Allora, Hela sarebbe obbligata a dirmelo, ma scoprirlo pare impossibile.”

Thor avrebbe voluto dirglielo: afferrarlo per le spalle, scuoterlo e gridargli di andare avanti, di smettere d’ingannare il fato o di tentare di mutarlo. Lei a suo tempo aveva scelto e l’ingannatore si era incastrato nella perenne ricerca di un modo per mutare un risultato destinato ogni volta a peggiorare inevitabilmente, sottilmente, ineluttabilmente.

“Che vuoi fare?” gli chiese invece.

Alla luce fioca delle fiamme, gli occhi di Loki scintillavano nella loro trasparenza, cercando una soluzione che meditava da chissà quanto. Gli Æsir possedevano una forza invidiabile, un’intelligenza spiccata, ma nella longevità quasi ultraterrena di cui beneficavano era racchiusa la loro infelicità: al contrario dei midgardiani, loro non dimenticavano. Il tempo e la memoria non riuscivano a cancellare né il dolore né l’ira né, tanto meno, il risentimento o l’amore. La nostalgia non velava il ricordo con l’oblio, non ottundeva i moti dello spirito: i figli degli Æsir vivevano migliaia di anni, ma non smettevano di soffrire nemmeno per un giorno. Thor pensò che, forse, la mente analitica e tagliente di suo fratello era riuscita a recuperare quella lucidità spietata che l’aveva reso inviso a molti, riconoscendo quest’ovvietà dolorosa. Pregò le Norne affinché fosse così, ma invano.

 

L’ingannatore fissava le fiamme seguendo pensieri tortuosi: era ora di cambiare piani e strategie, certamente. Hela non l’aveva ingannato, forse, ma gli aveva proposto un patto che si era rivelato inutile, stancante, improduttivo. Strinse i pugni, serrò la mascella. Sul viso affilato campeggiava un’espressione tirata e seria. Non si arrendeva facilmente. Era testardo, orgoglioso, fiero e, in quel momento, stava lottando contro se stesso per giungere a una conclusione che lo liberasse da quel ciclo senza fine di strazio e di rimpianto una volta per tutte.

“Porrò fine all’accordo con Hela,” annunciò a un tratto, senza guardarlo.

A Thor parve che la sua richiesta fosse stata esaudita. Forse, dato che nulla era stato davvero scardinato nell’ordine delle cose, gli Antichi Dèi[3] li avrebbero perdonati e, dall’alto della loro ieratica grandezza, sarebbero giunti a riconoscere le attenuanti di Loki, affibbiandogli una punizione blanda e misericordiosa. Eppure, il biondo Ase scoprì di non essere affatto felice della decisione sofferta e sputata dal fratello a denti stretti.

L’amava, l’avrebbe amata per sempre: quella ricerca logorante aveva reso ancora meno fattibile qualsiasi accettazione, distacco, riflessione. E lui non l’avrebbe ammesso mai. Soffocava sotto una gelida indifferenza un dolore nero e corrosivo, che gli sbranava l’anima e faceva avvicinare sempre di più le ombre oscure di un tempo. E allora glielo chiese, perché, pure se era ammantato di tormento, Loki restava sempre suo fratello e lui, Thor, ne conosceva il cuore e lo spirito come nessuno, nei Nove Regni.

“Rinuncerai? Davvero?” domandò.

Lingua d’Argento pensò a lungo, prima di rispondere. Poi smosse la cenere spingendola, con la punta dell’attizzatoio, tra le fiamme che avevano ripreso a guizzare.

“Ha scelto il suo destino, in fondo. So solo questo.”

Lo disse col tono distaccato e freddo che avrebbe usato per illustrare una nozione banale ed enciclopedica, come se non gli importasse poi molto, ma nei suoi occhi Thor lesse una disperazione infinita, atroce, terribile.

“È sempre Sigyn, fratello. Qualsiasi incantesimo o patto abbia pronunciato, deve averlo fatto anche per te,” gli ricordò di getto, all’improvviso, pentendosi subito dopo per quell’irruenza che, lo sapeva, Loki non avrebbe tollerato. L’Ase dagli occhi verdi, difatti, piegò le labbra sottili in una smorfia. Gli aveva già concesso abbastanza.

“Qualsiasi cosa sia stata così sciocca da tentare, l’ha distrutta, l’ha resa un’altra persona, Thor.” La voce dell’ingannatore si era fatta più bassa, distante. “Ha il suo viso, le sue mani, i suoi occhi: tutto qui. Forse ti sembra, guardandola, che sia dannatamente lei – si muove come lei, persino, ma in realtà non lo è più, non lo è mai.”

Lo sguardo di Loki era perso tra le fiamme. Con le dita, sfiorava le lingue di fuoco, in un gesto lento e distratto che, forse, aveva il solo scopo di distogliere gli occhi di Thor dal suo viso pallido e tirato, dalle pupille che parevano quasi luminose e lucide.

“Ma tenterai un’altra volta ancora, non è vero? Così avreste più tempo,” insistette il biondo Ase.

Il dio degli inganni continuò a fissare il fuoco.

 

 

 

 

Gli occhi grigi di Sigyn erano sottolineati da una riga sfumata di bistro che ne esaltava la profondità. Sedeva alla finestra, ma non si alzò, sentendolo arrivare. La luce del pomeriggio morente dava alla sua chioma bionda riflessi color miele e Loki pensò con rancore a tutte le volte in cui aveva affondato le dita in quelle ciocche chiare, subito dopo averla avuta, quando, ancora ansanti e scossi dal desiderio che li aveva catturati, si crogiolavano in lente carezze tra le coperte sfatte – seta e pelliccia contro la pelle, baci avidi e lenti che sapevano già di nostalgia e brama. A quel tempo, lei si abbandonava sul suo petto, stringeva il corpo snello e flessuoso contro il suo, invitandolo a restare anche se sapeva che non lo avrebbe fatto.

Niente era mai stato semplice, tra loro. Le si avvicinò e Sigyn gli rivolse uno sguardo appena sorpreso, inarcando un sopracciglio.

“Mio signore, non vi aspettavo,” lo salutò, ma il tono della sua voce era lievemente ironico, senz’altro freddo. Non gli riconosceva alcun titolo né potere. Non su di lei, almeno. L’ultima volta che aveva tentato di baciarla, memore di quel passato perduto in cui Sigyn era stata la sua amante, lei gli aveva morso un labbro, dicendogli con voce secca che la fedeltà non si strappava né si poteva ottenere con l’inganno.

Loki si sfiorò il collo, lì dove la stretta mortale di Thanos gli aveva lasciato un segno ormai appena visibile.

Il fatto era che la dea della fedeltà non ricordava nulla, di quel tempo in cui si inarcava contro di lui e invocava il suo nome, gli cercava le labbra. Il passato aveva una stortura che andava corretta, raddrizzata. Era successo qualcosa e Sigyn aveva dimenticato non lui, ma se stessa e di averlo amato.

 

L’ingannatore si guardò attorno, finché non abbassò gli occhi su un disegno che lei stava abbozzando. Nella stanza c’erano numerosi altri schizzi, libri e appunti, perché Sigyn doveva trovare un modo per trascorrere i giorni della sua prigionia, lenti e sempre uguali. Così, sfogava la sua sete di vivere scrivendo, leggendo, intrecciando collane di fiori, oppure disegnando, a seconda dell’umore incerto e ballerino. Quest’ultima passione veniva fuori di rado, il dio dell’inganno lo sapeva bene. Era stato vedendo un suo ritratto riprodotto da lei che, anni e anni prima, aveva compreso quanto Sigyn lo amasse. Ricordò di aver preso in mano il foglio per osservare, stupito e ammirato, il sentimento svelato nell’attenzione con cui la ragazza aveva tracciato il suo profilo affilato, si era soffermata sul dettaglio del sorriso spesso sbieco, colto la nota di tristezza che velava i suoi occhi chiari, avidi, penetranti. Loki le aveva chiesto il conto di quel disegno che valeva più di mille dichiarazioni e lei, fiera e magnifica, non si era vergognata di ammettere che sì, era innamorata: per questo lasciava che la cercasse e s’infilasse nel suo letto, tollerando la sua natura scostante, spesso volubile e fin troppo crudele. Era stata capace di vedere che, in lui, la propensione a ingannare e a mentire per piegare la realtà al suo volere si accostava anche ad altro: a una fierezza spiccata, a un’intelligenza arguta, a uno spirito orgoglioso e sempre nobilissimo.

Non le raccontò del ritratto delineato con infinita cura e amore, bruciato assieme alla bella Asgard dalle torri d’oro; non avrebbe avuto senso.

“Era tanto tempo. Senz’altro troppo, mia signora.”

In momenti come quelli, la recita cui entrambi sottostavano si trasformava in qualcosa di ancora più crudele. Intrecciò le mani dietro la schiena. “Ti ho portato un dono,” esordì, fissandola di sottecchi. “Lo avevi chiesto la scorsa volta.”

Lei scosse la testa e sospirò stancamente. “Cosa mi hai regalato, oggi? Una collana, un anello? Desidero solo una cosa, Loki: la libertà.”

Avrebbe voluto risponderle anch’io e smettere di guardarla e pensare che fosse bella. Serrò la mascella, sollevò appena il mento, raddrizzò la schiena già altera. Assomigliava maledettamente a quella che era stata, ma si trattava di un’illusione, nient’altro. Lo sapeva; era il dio degli inganni, dopotutto.

Cambiò discorso, ignorando la sua richiesta. Le porse una rosa, fatta apparire con uno schiocco di dita. Una sola, semplicissima rosa dai petali bianchi.

 

Lei allungò la mano, esitante, perché era il suo fiore preferito e lo sapevano entrambi. Giocò con lo stelo puntellato di spine, sfiorò i morbidi petali chiari con delicatezza estrema. Forse il regalo le rammentò, effettivamente, qualcosa. Il lago, per esempio, quello che si affacciava sul fiordo.

“Un dono semplice. Loki Laufeyson è anche capace di questo,” osservò inclinando il capo.

“Mi conoscevi abbastanza da non stupirtene, un tempo.”

Sigyn si riscosse. “So quanto il tuo spirito sia inquieto, ma non puoi avere ogni cosa, principe di Asgard. Liberami!”

Sarebbe stato meglio ritrovarla come l’ultima volta, scalza e persa nei suoi vagheggiamenti a raccontare alle bambole storie inesistenti.

“Liberarti,” soffiò l’Ase spostando di nuovo l’attenzione sui disegni: alcuni rappresentavano luoghi fantastici e mai visti, altri posti fin troppo noti.

“Riportami ad Asgard. Avrai il mio perdono per… per tutto questo,” insistette Sigyn, indicando la stanza ingombra di schizzi, libri, abiti e dei più disparati oggetti.

“Non esiste più, Asgard.”

La notizia fece ammutolire la dea della fedeltà, ma forse non quanto avrebbe dovuto. “Cosa vuoi da me?” chiese. La sua voce aveva una nota d’urgenza.

“Perché pensi di essere qui, Sigyn? In fondo tu…” Loki s’inumidì le labbra sottili, in cerca delle parole adatte, del concetto più giusto da dirle. “Mi hai sempre accordato la tua benevolenza, mia signora.”

La giovane donna s’adombrò. “Ma poi hai tradito tuo padre, tuo fratello, Asgard. A Vanheim si sono combattute guerre feroci dovute alle tue azioni sconsiderate,” concluse, fiera e puntuale.

“Odino mi mentì. Mi ha condannato a giocare una partita truccata, dicendomi che avrei potuto essere degno di un trono che, in realtà, è sempre spettato a un altro – al mio tronfio e arrogante fratello, graziato da un provvidenziale esilio. Asgard stessa mi tradì: ha riconosciuto troppo tardi gli inganni e le manovre che ho compiuto al solo scopo di renderla più grande.”

Loki aveva lasciato che lo sdegno per quello che considerava un affronto impossibile da perdonare gli infiammasse nuovamente il petto, spingendolo a guardare una ferita che si era cicatrizzata col tempo, forse sì, ma che avrebbe continuato a prudere, a tirare, a deturpargli la pelle per sempre, poiché era il segno indelebile dell’inganno che aveva dominato la sua intera esistenza di principe cadetto, di inconsapevole erede di un trono di mostri. Solo che dirlo a lei era inutile, sciocco, controproducente, persino.

“Eppure, alla fine, li hai salvati tutti,” mormorò Sigyn, acuta e consolante. “Ma questo non ti basta; devi avere di più, hai bisogno di possedere ogni cosa,” soffiò, avvicinandoglisi con la grazia delicata di un tempo. Un fruscio leggero della bella e ampia gonna di seta e gli posò le dita sul petto coperto dalla corazza di pelle intrecciata, come aveva fatto in un passato lontano.

“Potresti essere migliore di così. Guardati attorno, Loki. Tutto questo non serve e non ti aiuterà,” disse, facendo scorrere i polpastrelli delicati fin sulla mascella virile e sbarbata, diritta e decisa.

L’ingannatore sorrise a quella lusinga, resa più carezzevole dalla voce dolce di lei, dal suo tocco gentile e lieve, ma non privo di un’insidia celata, anzi, di molte. Gli aveva sfilato un pugnale dalla bandoliera e ora tentava di trafiggerlo, di colpirlo al fianco.

La disarmò con un gesto rapido e fulmineo, afferrandola per i polsi sottili. “Non sei mia prigioniera. Sei pazza. Totalmente. Sei rinchiusa qui perché è l’unico modo per controllare che tu non ti faccia del male. Non sono io la causa della tua condizione, ma quello che ti sei fatta.”

Sigyn, pallida in volto, tentò di fuggire, di indietreggiare, di non ascoltare.

Le tremarono le labbra, distolse lo sguardo. “Tu menti.”

Loki sapeva che le avrebbe risposto in quel modo. Le aveva fatto quello stesso discorso così tante volte da perdere il conto, da convincersi che fosse inutile raccontarle ancora ciò che era stato e quello che lei era diventata.

Un giorno entrava nella torre e si trovava di fronte una bambina svagata che gli offriva una tazza vuota di tè, quello dopo era una donna che lo fissava impaurita e non riconosceva né lui né se stessa, un altro ancora era la sua Sigyn, innamorata e divertente, ma durava sempre troppo poco – un pomeriggio o un’ora.

Allora non lo accusava di essere sua prigioniera, ma gli buttava le braccia al collo e si metteva in punta di piedi per cercargli le labbra e donargli un bacio intenso o leggero. Poi, gli accarezzava la corazza di pelle intrecciata, gli sfilava la bandoliera con la sicurezza di quand’era ancora la sua amante. Solo che dopo non facevano l’amore come in passato, perché quella Sigyn non era che un’ombra di ciò che era stata e non era in sé. Il giorno dopo – un’ora dopo, nello stesso momento in cui era dentro di lei – avrebbe potuto precipitare nell’ennesima voragine di follia e accusarlo di usarle violenza.

L’unica certezza era che più assomigliava alla perduta dea della fedeltà, più non riusciva a starle accanto.

“La cosa peggiore è quando sei così; simile a quello che eri,” concluse con voce fredda, liberandole finalmente i polsi che tante volte aveva intrappolato nei momenti dell’amore, quando la bloccava per sentirla inarcarsi sotto le sue spinte o a causa delle carezze sfacciate con cui le tormentava i seni – labbra sulle punte sensibili, sulla pelle morbida e delicata.

 

Fece per voltarsi e uscire una volta per tutte da quella stanza, ma si bloccò.

“Loki, aspetta.”

La vide mettere in un vaso di peltro la bella rosa bianca, lisciarsi la gonna. Riconobbe che era tesa e stava cercando di dirgli qualcosa. La osservò sfiorarsi una tempia, disorientata. Pregò le Norne affinché non tornasse.

“A volte mi sembra, effettivamente, di non essere me stessa. Di non ricordare il passato. Sono successe delle cose, ma non riesco ad afferrarle,” mormorò, avvicinandosi. “Forse hai ragione, forse stai cercando di proteggermi, in qualche maniera.” Assottigliò gli occhi, cercando di recuperare ciò che le sfuggiva. “Noi due eravamo più che amici, dico bene? Tu non mi faresti mai del male.”

 

A volte, si chiedeva se Sigyn soffrisse. Dove fosse la vera lei, se avesse coscienza dell’infinito tormento in cui era precipitata, probabilmente, per colpa sua. Freya lo accusava di non essere pietoso. Di non saper rinunciare a niente, di non voler accettare che la mente della sfortunata ragazza si era persa irrimediabilmente. Aveva senz’altro ragione in tutto, il dio dell’inganno ne era cosciente, ma un pomeriggio in cui era rimasta se stessa più a lungo del previsto, Sigyn aveva ricordato ed era stata quasi sul punto di raccontargli come fosse giunta fino a lì, cosa l’avesse spezzata, ma poi aveva scosso la testa e si era coperta la bocca con le mani, confessandogli con voce rotta che lo avrebbe amato per sempre, ma non si pentiva di nulla, di niente. Un battito di ciglia più tardi, raccontava filastrocche e serviva il tè a un animale di pezza.

Lo sguardo smarrito e le lacrime che le avevano bagnato gli occhi fino a un momento prima, avevano convinto l’Ase che fosse successo davvero qualcosa terribile, che andava corretto, raddrizzato, cambiato. Per questo si era rivolto a Hela. Eppure, ogni tentativo di tornare indietro nel tempo e capire cosa avesse determinato la follia di Sigyn si era rivelato nient’altro che un buco nell’acqua che aggiungeva solo dolore a dolore.

 

La dea della fedeltà avrebbe saputo cosa fare, in una simile situazione. L’aveva raccolto quando, ammaccato e ferito, col petto gonfio d’ira e di tormento, aveva giurato vendetta contro Odino e Asgard, ma l’ingannatore non era un uomo in grado di prendersi cura di una donna in una simile condizione. Non aveva la pazienza, la capacità, la tenacia di starle accanto. Non riusciva a essere gentile e a parlarle di un passato che lei, a ogni buon conto, ricordava, distorceva, non capiva o rifiutava in toto[4]. Loki era uno stratega, un politico, un mago, un guerriero. Era nato per essere re e per mutare la sorte a suo piacimento, non per prendere le mani di una ragazza senza senno e insegnarle a essere di nuovo se stessa.

Era successo qualcosa e la dea della fedeltà aveva dimenticato non lui, ma di averlo amato. Avrebbe dovuto lasciare che trascorresse il resto della sua misera esistenza in quella torre, a cantare e a farsi le trecce, a tentare d’uscire quando pensava di essere trattenuta ingiustamente, ad aspettarlo quando ricordava il suo nome. Se lo riprometteva ogni volta – in fondo, era un principe spietato e crudele, ma, di tanto in tanto, tornava da lei, perché dentro di sé, pur non avendone alcuna reale conferma, era consapevole di essere responsabile della sua triste sorte. E doveva aggiustare le cose.

I re, in fondo, questo fanno: si assumono la responsabilità delle loro scelte e non solo.

 

L’aveva maledetta mille volte, per la sua avventatezza. L’aveva maledetta quando sfogava con altre donne il bisogno di sentirsi vivo, portandosele a letto nel vano tentativo di non desiderarla più, ma l’illusione non reggeva, sgretolandosi sotto le sue dita. Le cacciava via subito dopo averle avute, incapace di sostenere il loro sguardo oltre il dovuto, nauseato. Abitudine che, in fondo, aveva sempre avuto – detestava le smancerie – ma che, pure, aveva ricusato per la sola con cui si era trattenuto fino all’alba, che aveva lasciato a crogiolarsi tra le coperte, nuda e sua. Cos’aveva di speciale, lei? Perché era arrivato al punto da concederle così tanto, per quale ragione ne aveva fatto la sua amante lasciandole, suo malgrado, la vittoria di essere, in qualche modo disturbante e doloroso assieme, l’unica?

Ti odio, Sigyn. Più di ogni altra cosa al mondo.

Cos’aveva lei? Era intelligente, vivace, dolce. Soprattutto dolce; un balsamo sulle proprie ferite che rideva alle sue battute, lo rimproverava quando gli scherzi in cui si dilettava erano troppo crudeli, accettava la sua natura contorta, ambigua, doppia fino allo stremo. Sapeva chi era e, nonostante tutto, lo amava fieramente. Loki lo sapeva – ne aveva avuto contezza con quel ritratto antico e con molte altre cose, ma, nondimeno, aveva scelto di darla per scontata, profittando del suo amore, cercandola ogni volta che la desiderava, illudendosi di avere il suo cuore. Era sua e gli bastava, ma, ora che l’aveva persa, la inseguiva, la rivoleva accanto a sé.

 

 

“Questa è l’ultima volta che ci vedremo. O meglio, tornerò indietro e tenterò di impedire che tu ti riduca così.”

Lei era a terra, seduta a gambe incrociate sul tappeto, i bei capelli sciolti sulle spalle.

“Un’avventura?”

“Un’avventura, sì.” Si sedette stancamente sul letto ordinato, diede la consueta occhiata in giro soffermandosi su ogni oggetto che raccontasse le giornate sempre uguali della sua prigioniera. Non c’era niente di acuminato con cui potesse ferirsi o tentare di scappare. Una preoccupazione in meno per lui, che non avrebbe più dovuto ammazzare chi pensava di poterla usare come una bambola solo perché era totalmente pazza. Una notte lontana, ansante e con la spada ancora sguainata e macchiata di rosso tra le mani, era entrato nella torre e aveva pensato di porre fine a quella maledizione liberando lei e se stesso. L’aveva trovata placidamente addormentata, ignara di tutto, con le gambe al petto e la bocca schiusa e si era messo a pensare che non c’era bisogno di usare su di lei la lama di un pugnale: sarebbe bastato un cuscino e se ne sarebbe andata nel sonno – se n’era già andata da tempo, in verità, Loki lo sapeva. Non riusciva ad accettarlo e si illudeva di poter inventare una menzogna abbastanza grande da ignorare un simile dettaglio, ma, nel suo petto, nella parte più profonda della sua anima, sapeva già di averla persa. Non c’era riuscito, ovviamente. Si era sentito indegno di un pensiero tanto meschino e disgustoso, perché spaccare la testa a un uomo che pesava quanto lui e si era comportato come un vigliacco bastardo o uccidere con un solo colpo un nemico in battaglia, non era uguale a soffocare nel sonno la donna che non riusciva a dimenticare.

“Sei bello. Hai degli occhi bellissimi,” disse Sigyn. “Mi piaci,” decise. Gli rivolse un sorriso che apparteneva a una ragazza che non c’era più e si avvicinò per sfiorargli dolcemente la guancia. L’Ase sussultò, perché quel tocco era come fuoco e svegliava desideri sopiti, alimentava il caos soffocato dalla lucida razionalità che lo animava.

“Ti detesto e ti maledico,” le disse tra i denti. “Non dovevi ridurti così. È stato un prezzo troppo alto, da pagare.” Le bloccò la mano sottile, tenne tra le sue dita quelle delicate di lei. Le strinse.

La ragazza sbatté le palpebre, interdetta dalla freddezza delle sue parole, così in contrasto col suo tocco. “Sei triste. Ho fatto qualcosa che non va? Non mi vuoi più bene, per questo?”

Loki scosse la testa in segno di diniego.

“È l’ultima volta, Sigyn.”

Ti odio perché te ne sei andata, non sei più tu. È rimasto un guscio vuoto e poco altro – bugia, ci sei ancora, da qualche parte.



[1] Nome del regno degli Aesir. La storia è un post Endgame what if e la Asgard di cui parlano è quella che si vede nel film.

[2] La lancia qui è da intendersi nella sua accezione di imbarcazione veloce/scialuppa.

[3] In Infinity War è a questi che Heimdall si affida nel momento in cui apre il portale.

[4] Perché Sigyn a volte ricorda, altre no, altre ancora non capisce! Non è un errore ^^.

   
 
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