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Autore: Sabriel Schermann    11/08/2019    3 recensioni
Correva disperatamente da un tempo che le pareva infinito; inciampò nei lacci delle sue deliziose scarpette rosse laccate, le più eleganti che possedeva e che indossava solamente in occasione delle rare volte che usciva dall’orfanotrofio.
Con gli occhi spalancati dalla paura, sentì qualcosa colpirle la testa, facendole perdere l’equilibrio, riversandola sul letto di foglie e frasche.
Tutto ciò che vide dopo fu buio.
[Storia classificata al terzo posto a pari merito al contest "Elisir, pozioni e distillati" indetto da Wurags sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'La Casa di Cristallo'
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L’Inferno dell’Angelo

 

 







 

Hell is empty,
and all the devils are here.

(The Tempest – William Shakespeare)





 

 

 


Si era svegliata da poco quando un uomo biondo cenere si presentò davanti alla porta della sua stanza accompagnato dal medico. Con lo sguardo ancora appannato, si mise di fretta a sedere: gli arti erano intorpiditi, forse a causa della scomoda posizione in cui aveva passato la notte.
Tentando di sistemarsi velocemente i capelli, si passò una mano in mezzo alle ciocche nodose, optando poi per una modesta coda di cavallo che avrebbe temporaneamente nascosto il disastro.
«Come ti senti oggi, Sindy?» le chiese gioviale il dottore, trascinando rumorosamente una piccola sedia vicino al letto per l’ospite, invitando l’uomo ad accomodarsi. La ragazza fece un debole cenno col capo, come ormai accadeva ogni mattina da tre settimane. Nonostante il letto relativamente comodo, la giovane accoglieva l’inizio di ogni nuova giornata con un gran mal di testa, senza essere in grado di dire se fosse per la quantità di medicine che ingurgitava o a causa della vicinanza della sua camera, fortunatamente singola, con il reparto maternità.
«Ti presento il dottor Holm» disse il medico che l’aveva in cura, un uomo alto sulla cinquantina, lasciando trasparire una certa urgenza nella voce.
«Forse è meglio se vi lascio soli» decretò, prima di prendere la porta e lasciare la stanza. L’ospite le rivolse un sorriso accennato, tendendole la mano, che Sindy trovò inaspettatamente rovente.
«Vorrei che tu mi spiegassi che cosa ti opprime, Sindy» si fece improvvisamente serio. «Perché so bene che c’è qualcosa che ti tormenta».
La ragazza lo osservò attentamente: era vero ciò che dicevano di lui da quelle parti, nonostante l’età era ancora un uomo affascinante.
«Lei è il famoso ciarlatano» lo apostrofò la ragazza con noncuranza, notando un velo di sorpresa nello sguardo dell’uomo. Le sopracciglia gli si aggrottarono per un istante, ma non si scompose: «Sono uno psichiatra» dichiarò, osservando i capelli scuri della ragazza ondeggiare nella maldestra coda che aveva realizzato. «Ho avuto il consenso del governo per svolgere la mia attività e lo sai anche tu» continuò l’uomo con tono fermo, senza distogliere lo sguardo dal viso della giovane.
Sindy lo guardò sprezzante: «La ringrazio, ma non ho bisogno che qualcuno mi scavi nella memoria» dichiarò freddamente, voltandosi verso la finestra. Non aveva ancora le forze necessarie per alzarsi e raggiungere quella postazione, nonostante desiderasse con tutta se stessa guardare oltre. Tutto ciò che poteva vedere dal letto erano le fronde verdi di un albero, probabilmente il più grande che il giardino ospitasse.
Ogni volta che lo osservava sentiva una forte necessità di distendersi sull’erba fresca primaverile, respirare il suo aroma e ascoltare il cinguettio degli uccelli al posto delle grida atroci delle donne pronte a concedere la vita.
«Per condannarlo dobbiamo sapere cosa ha fatto, Sindy» disse duramente lo specialista, «e se non te lo ricordi bisogna trovare il modo di fartelo ricordare» terminò in tono quasi seccato. La donna incontrò nuovamente quelle iridi ghiacciate, grandemente in contrasto con il calore della mano.
«Qualsiasi dettaglio potrebbe essere fondamentale» continuò l’uomo alzandosi in piedi, prendendo a vagare per la stanza a testa china.
«Il mio problema non è l’ipnosi» rispose Sindy abbassando lo sguardo, schiarendosi la voce dopo una lunga pausa, per poi continuare: «ma non sono sicura di voler ricordare» mormorò posando lo sguardo infuocato su quello dell’uomo, quasi come a voler sciogliere quel ghiacciaio negli occhi.
Senza dire una parola, il dottor Holm la fissò per qualche istante, poi trascinò la sedia fino al posto in cui il medico l’aveva presa, voltandosi verso di lei: «I ricordi fanno parte di noi, che lo vogliamo oppure no. Senza memoria siamo solo delle cellule vaganti» dichiarò in tono profetico, prima di prendere la porta e lasciarla nuovamente sola.

 

˷

 

Correva disperatamente da un tempo che le pareva infinito, credeva che il cuore le sarebbe presto sbalzato via dal petto e le gambe erano ormai troppo leggere per sentirle ancora. Eppure erano lì e la stavano aiutando a fuggire da quell’uomo, racimolando la poca energia che le era rimasta in corpo.
Inciampò nei lacci delle sue deliziose scarpette rosse laccate, le più eleganti che possedeva e che indossava solamente in occasione delle rare volte che usciva dall’orfanotrofio. Si rialzò in fretta, per poi ricominciare a correre. Era troppo buio per vedere dove si stesse dirigendo, ma la luce della luna che filtrava dalle fronde degli alberi le fece intendere che aveva appena raggiunto il bosco.
Le faceva male un fianco, sentiva il cuore fuoriuscirle dalla gola e battere come un organo separato dal resto del corpo. Lo scalpiccio sotto ai suoi piedi diventava sempre più rumoroso man mano che si addentrava nella selva; scorgeva a malapena la luna lattea celata dai rami, l’unica a indicarle la strada più sicura per fuggire per sempre da quel posto, per potersi salvare.
Esausta, si accasciò alla corteccia di un albero, sentendola dura e ruvida sotto la sua schiena. Vi si accovacciò ai piedi, ricominciando a respirare regolarmente, sentendo il cuore tornare alle sue pulsazioni normali. La foresta era quasi completamente buia ed era impossibile capire dove si trovasse esattamente. Decise che avrebbe aspettato la prima luce dell’alba per fare qualsiasi cosa: socchiuse gli occhi, accostando la testa alla parete legnosa del tronco.
Improvvisamente, sentì qualcosa frusciare dietro di sé, forse qualche insetto o animale della foresta.
Il cuore ricominciò a batterle forte, ma rimase immobile, rannicchiandosi più che poté dietro la pianta, trattenendo il respiro.
Con gli occhi spalancati dalla paura, sentì qualcosa colpirle la testa, facendole perdere l’equilibrio, riversandola sul letto di foglie e frasche.
Tutto ciò che vide dopo fu buio.

 

˷

 

Aveva ripreso coscienza da una settimana quando Martin venne a farle visita.
Semplicemente una mattina si volse verso la porta e lo vide fissarla attraverso il vetro. Lo aveva riconosciuto subito e non avrebbe mai immaginato di incontrarlo dopo tanti anni in simili condizioni.
Martin entrò con un ampio sorriso stampato in viso, ma rimase sull’uscio senza osare avvicinarsi. Sindy notò i suoi muscoli da atleta visibili anche da sotto il camice candido.
«Allora hai realizzato il tuo sogno» gli disse osservandolo attentamente, notando delle lievi increspature sulla fronte che non erano presenti nei ricordi che aveva conservato di lui.
Martin fece un cenno col capo, preferendo cambiare argomento di discussione.
«Sono passato solo per vedere come stavi» sussurrò, senza smettere di sorriderle. «Ho molto lavoro da fare».
Sindy biascicò un «capisco», non potendo fare a meno di notare l’umore raggiante del ragazzo di fronte a sé, che ragazzo non era più da tempo ormai.
Il giovane che usava rivolgerle dediche piene d’affetto, si era trasformato in un uomo maturo ed equilibrato, aveva raggiunto i propri obiettivi e aveva una famiglia ad attenderlo a casa ogni sera.
Sindy lo sapeva bene, ma preferiva ignorarlo per accantonare anche il vuoto che quella consapevolezza portava inevitabilmente con sé.
Quando Martin l’aveva abbandonata sulle scale del suo appartamento, quel giorno di giugno non troppo lontano dal suo compleanno, Sindy non aveva provato altro che uno squarcio nel cuore.
Qualcuno aveva stretto la sua vita così forte tra le mani, da frantumarla irrimediabilmente.
Nonostante la momentanea confusione, aveva compreso in fretta che la parte peggiore sarebbe arrivata dopo, quando la sua assenza sarebbe diventata incolmabile e l’unica persona in grado di attenuarla aveva ormai consacrato il proprio cuore a qualcun altro.
Martin le si avvicinò, osservarla in viso; provò l’impulso di elargirle una carezza, come faceva sempre quando la ragazza singhiozzava a causa di quel dolore implacabile che lui inavvertitamente le procurava.
«Fatti aiutare, Sindy» mormorò, sinceramente in pena per lei.
Lei si voltò verso la finestra, col sospetto che fosse stato proprio lui a salvarle la vita. D’istinto si tastò il petto, sentendo chiaramente un ampio foro sotto il palmo.
«Quanto pensi che ci vorrà?» gli chiese d’improvviso, fermandolo appena prima che il medico mettesse piede fuori dalla stanza.
Vide inizialmente un’espressione confusa dipingersi sul suo volto, poi sembrò comprendere senza bisogno di ulteriori spiegazioni.
«Almeno un anno» replicò lui con voce tremante, conoscendo bene la pena che la ragazza doveva provare in quel momento.
Mentre si allontanava, rifletté sulle proprie parole: pareva giunto il momento anche per lei, come per ognuno, di sperimentare quella sensazione di fallimento che si prova quando i propri sogni vengono d’improvviso infranti.


   
 
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