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Autore: CalvinCoolest    12/08/2019    1 recensioni
Appena si furono allontanati, iniziarono a scendere gli hovercraft, uno per ogni cadavere.
Improvvisamente, Domitia pensò a come ognuno di quegli hovercraft conteneva un corpo che presto sarebbe tornato a casa in una cassa di legno. E uno di quelli era lì per causa sua.
Da qualche parte, a Panem, una famiglia era in lutto per colpa sua.

| 41esimi Hunger Games | Il rating potrebbe cambiare
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovi Tributi, Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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▪ CAPITOLO TERZO▪
Piper vinceva tutte le gare di corsa del Distretto 11

 

Piper vinceva tutte le gare di corsa del Distretto 11.
Piper aveva quindici anni, ma le gambe lunghe e il corpo allenato.
Piper sapeva di essere in svantaggio. Piper sapeva che, da lei, nessuno si aspettava molto. 
Ma Piper era determinata. Piper aveva guardato tutti gli altri Tributi con attenzione e aveva concluso che nessuno di loro aveva meno paura di lei. Non quel belloccio del Distretto 2, non il ragazzo gigantesco del Distretto 3 e sicuramente non la bambina del Distretto 8.
Piper sapeva che i Tributi del Distretto 11 vincevano di rado. Ma Seeder era riuscita a vincere. Poteva vincere anche lei.
Quando suonò il gong, Piper corse via. Seeder le aveva detto di scappare e nascondersi.
Piper aveva quindici anni, ma le gambe lunghe e il corpo allenato.
Altri Tributi, più vecchi e grandi di lei erano anche più lenti.
Piper, quando correva, si sentiva libera.
Si sentiva il vento tra i capelli e sotto ai piedi, si sentiva le gambe stanche e doloranti ma la testa libera da ogni cattivo pensiero, si sentiva il fiato che le mancava ma nonostante tutto, ogni volta, riusciva ad andare avanti. E avanti. E avanti. 
Senza mai voltarsi indietro, Piper correva. Correva e correva e correva. Piper correva e raggiungeva sempre il traguardo. 
Quando suonò il gong, Piper corse via.
Corse via e continuò a correre e correre e correre. Si prefiggeva un traguardo, lo raggiungeva e se ne prefiggeva un altro.
Corse finché non fu notte e non suonò l’inno. E poi corse di nuovo finché non fu mattina.
Allora, Piper decise di riposarsi.
Aveva preso un sentiero roccioso dove le rovine si facevano più rade. Qua e là vedeva sbucare qualche grotta, posti in cui nascondersi. 
Piper trovò una grotta per sé, era piccola e stretta ma difficile da vedere. Ci si rannicchiò dentro e si addormentò.
Ogni giorno, al Distretto 11, Piper doveva svegliarsi presto. Doveva andare a scuola, o doveva lavorare, o doveva fare qualcos altro. La pigrizia non era contemplata ed era punita duramente.
Quel giorno, Piper dormì come non dormiva da quando era una bambina. Si svegliò solamente quando suonò l’inno nazionale, a indicare che era passato un secondo giorno. 
Nessun morto.
Dopo, Piper tornò nella propria grotta, a dormire. Pensò che muoversi di notte aveva poco senso. Nella sua grotta era ben nascosta, e il giorno dopo avrebbe trovato da bere e da mangiare.
Aveva sete, sì. Ma non c’era traccia di acqua. Dormendo soffriva meno la sete.
Nella propria grotta stava bene, si sentiva avvolta come da un abbraccio.
La pietra era dura, sì, ed era fredda, ma non le dispiaceva. Riusciva quasi a dimenticarsi di essere nell’Arena, lì. Stava rannicchiata nella sua grotta come, a casa, si rannicchiava sul davanzale della finestra durante le sere d’inverno. 
Piper si addormentò con questi pensieri e si svegliò con le risate e le chiacchierate dei Tributi che stavano passando. 
Si svegliò e improvvisamente ogni speranza di dimenticare l’arena, di tornare a pensare al Distretto 11 — così sporco, povero, crudele ma pur sempre casa — diventò vana. 
«Siete proprio sicuri di aver visto tanti venire di qua? Perché a me non sembra di ved—»
«Mi stai dando del bugiardo?»
«Non c’è bisogno di litigare, ragazzi...»
Piper sapeva che un gruppo di Tributi così numeroso poteva essere solo quello dei Favoriti, macchine da guerra allenatesi tutta la vita per andare in televisione ad uccidere altri ragazzi innocenti.
Piper era forte, nella corsa. Vinceva sempre, nella corsa. Aveva solo quindici anni ma le gambe lunghe e il corpo allenato.
Piper sapeva di avere poca scelta. Poteva starsene lì, ferma e zitta, e sperare che i Favoriti non la notassero, o poteva scattare fuori e sperare di riuscire a scappare. In entrambi i casi, le probabilità non giocavano a suo favore. 
Sentiva i passi che si avvicinavano.
«Forse l’arena è troppo grande…»
«Ce ne sono state di più grandi».
«Dico solo che con un’arena così grande è ovvio non trovare tanti Tributi».
«Non è particolarmente grande».
Piper decise di stare ferma. Non l’avrebbero vista, si disse. Aveva cercato di mascherare un po’ l’entrata della grotta. I Favoriti erano brutali, ma non sempre attenti. Non l’avrebbero vista. Non l’avrebbero vista. Non l’avrebbero vista.
Continuavano ad avvicinarsi. 
Piper decise di stare ferma perché, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto muoversi. La paura la terrorizzava. Il cuore le batteva troppo forte (ti prego, fa che non si senta), il respiro le mancava. 
Non l’avrebbero vista, si disse.
Non l’avrebbero vista.
«Controlliamo qua».
Stavano parlando della sua grotta.
L’avrebbero vista.
Piper sapeva di non poter battere da sola tutti Favoriti, o anche solo uno di essi. Era disarmata. Era affamata. Era disidratata. 
Piper scattò fuori dalla grotta e loro la notarono immediatamente. Poi, Piper iniziò a scappare.
Era veloce, Piper. La più veloce. Ma anche la più veloce tra le vittime non è veloce abbastanza da scappare dai predatori. E così, appena ebbe iniziato a correre, una freccia le colpì la spalla. 
Piper, per l’adrenalina, quasi non sentì dolore. Continuò a correre, e una freccia le colpì la gamba. Sentiva che il sangue le sgorgava dalle ferite e non riusciva più a muoversi bene.
Quando sei ferita, essere la più veloce del Distretto non serve a niente.
Il dolore iniziò a colpirla in quel momento, quando, rendendosi che non sarebbe più potuta scappare, cadde a terra. Dalle ferite sgorgava sangue, dagli occhi lacrime. Vi prego no, pensava, non voglio morire.
Il Distretto 11 era grigio, buio, triste, affamato, e casa sua. Al Distretto 11 l’aspettava suo fratello Heath. Al Distretto 11… 
Piper sentì qualcuno spostarle rudemente il corpo. Non sono ancora morta, pensò. Vi prego non voglio morire.
La ragazza del Distretto 2 tirò fuori un coltellaccio, il più grande che Piper avesse mai visto. 
«Non piangere» disse la ragazza con il coltello. Sembrava quasi dolce. 
Poi le ficcò il coltello nel cuore una, due, tre volte. 


Domitia vide la ragazza spegnersi dopo la seconda pugnalata. La terza la inflisse per sicurezza.
«Buon lavoro» le disse Hadrian, dandole una pacca sulla spalla. «Non credo avesse nulla, no?»
Jacinth guardò nella grotta da cui era sbucata e poi scosse la testa.
«Non abbiamo bisogno di nulla» borbottò Domitia.
Abbandonarono il cadavere della ragazza là dove l’avevano trovata e si misero presto di nuovo in cammino. Se sono tutti nascosti in queste grotte, si disse Domitia, non li troveremo mai. Nonostante ciò, continuò a camminare senza dire nulla.
Gli sponsor non avevano ancora mandato nulla a nessuno — era presto, non avevano bisogno di nulla — ma Domitia voleva essere certa che, quando avrebbero iniziato ad arrivare, sarebbero stati indirizzati a lei. Iniziare a lamentarsi non le sembrava la strategia adeguata.
Quindi continuò a camminare.
Domitia aveva visto spesso persone morire, in televisione. Aveva deciso che avrebbe partecipato agli Hunger Games quando aveva dodici anni: voleva che la sua famiglia potesse permettersi di mangiare ogni giorno il dessert e che tutti nel Distretto l’amassero. La morte era stata una presenza fissa, nella sua vita, e sapeva che per raggiungere i propri obiettivi avrebbe dovuto uccidere.
Eppure, non riusciva a non pensare a quella ragazzina, che piangeva e singhiozzava e si disperava, e a lei che, crudelmente, meccanicamente, senza motivo, la uccideva. Quando aveva ucciso quell’altra ragazza nel bagno di sangue, non si era sentita così, forse perché non l’aveva neanche vista in faccia. 
In quel momento, si sentiva di aver sbagliato. 
Non aveva reale motivo di partecipare agli Hunger Games, e ora il cuore le batteva forte, le mani le tremavano, aveva voglia di piangere e pensava solo a quella ragazzina tremante. Avrebbe potuto restare a casa e trascorrere una vita normale. 
Non sarebbe morta. Di quello era certa, aveva moltissime speranze di sopravvivere. 
Eppure riusciva a pensare solo a quella ragazzina, quella ragazzina senza speranze che comunque continuava a correre e lei che la inseguiva.
E le mani le tremavano.


«Tutto okay?»
Rudry annuì. Non stava mentendo: si sentiva davvero okay. Avevano trovato dell’acqua e non c’era nessuno visibile in lontananza. Sapeva di non avere speranza di vincere, ma sentiva una certa tranquillità. Era lì, con Caprice. Avevano l’acqua. Era tutto okay.
«Sei sicuro che si possa bere l’acqua così?»
«Così come?»
«Dico… senza purificarla, o niente del genere?»
Rudry si strinse nelle spalle. «Ormai l’abbiamo bevuta, no?»
Caprice gli sorrise. «Già» mormorò. «Speriamo di non morire».
«Speriamo di no».
Caprice andò a sedersi di fianco a lui. L’arena era quasi bella. Anzi, lo era. Per due ragazzi cresciuti tra le fabbriche del Distretto 6, tutta quella natura anche se finta… era bellissima. Rudry pensò che se doveva proprio morire da qualche parte, tanto valeva che fosse lì.
«Sai, Rudry...»
«Sì?»
«Stavo pensando che se non fosse per gli Hunger Games, non saremmo mai stati veramente amici».
«Sì».
Prima della Mietituta, Rudry conosceva Caprice solo di vista. Lei era di un anno più piccola e viveva dall’altra parte del Distretto, quindi avevano poche ragioni per conoscersi. 
«C’è un lato positivo in tutto» mormorò. 
Vide che Caprice stava per rispondergli. Poi, sentì che qualunque cosa stesse per dirgli si trasformò in un urlo.
Solo in quel momento vide l’enorme serpente che stava strisciando fuori dal fiume.


Nota: Scusate l'immenso ritardo nel pubblicare questo capitolo. Sono stato molto impegnato.
 

   
 
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