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Autore: Duncneyforever    15/08/2019    1 recensioni
Estate, 1942.
Il mondo, da quasi tre anni, è precipitato nel terrore a causa dell'ennesima guerra, la più sanguinosa di cui l’uomo si sia mai reso partecipe.
Una ragazzina fuori dal comune, annoiata dalla vita di tutti i giorni e viziata dagli agi che l'era contemporanea le può offrire, si ritroverà catapultata in quel mondo, circondata da un male assoluto che metterà a dura prova le sue convinzioni.
Abbandonata la speranza, generatrice di nuovi dolori, combatterà per rimanere fedele a ciò in cui crede, sfidando la crudeltà dei suoi aguzzini per servire un ideale ormai estinto di giustizia. Fortunatamente o sfortunatamente non sarà sola e sarà proprio quella compagnia a metterla di fronte ad un nemico ben peggiore... Se stessa.
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
Capitoli:
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Che strana creatura... Così fragile, eppure così forte, confida in me, che non ho nulla di tutto ciò che lo rende speciale, nè un briciolo del suo coraggio. 

Non è falsa modestia la mia; solo, riconosco che la mia pelle non abbia sentito il singolo schiocco di una frusta, il colpo di un bastone, tantomeno un dolore così vicino quanto la morte violenta di un fratello. 

Lui, nonostante questo, non è un pupazzo e neanche gli somiglia. 

Inclino la testa davanti all'esaltazione di me stessa che mi viene propinata, sprofondando in un senso di sconforto e inadeguatezza. 

Mi piacerebbe interpretare la parte dell'eroina, almeno per una volta, ma concretamente parlando non credo di potermi esporre più di quanto non abbia già fatto. Il prossimo passo potrebbe condurmi alla deportazione, anche se Reiner farebbe tutto in suo potere per risparmiarmi quel supplizio. 

Di certo non potrei più aiutare nessuno in quella condizione. Non saprei cavarmela io stessa nell'inferno di Birkenau, specialmente con la iena in agguato. 

- " Il mito ", Sac... Non ti sembra di esagerare? - Il suo viso si illumina; quell'appellativo gli piace e lo dà a vedere, sorridendo impercettibilmente. 

- Che male c'è? Tu infondi speranza a chi non ne ha, a chi l'ha perduta dopo che i nazisti hanno provveduto ad estirparla e ad eliminare ogni sobillatore che attentasse al nostro totale asservimento. Ma loro non avevano mai conosciuto nessuno come te. Loro credono in te. - Parla bene la mia lingua, come se la conoscesse da sempre; a diciassette anni potrebbe passare per italiano, se non fosse per l'accento dolce, particolare. Lui non se ne accorge, ma i suoi occhi neri sembrano polvere di stelle, vivacizzati da una forza indefinita, una luce che pare provenire direttamente dallo spazio. 

Quasi tutti qui hanno un soprannome: lui è " Törött rózsa ", " rosa spezzata ", il nome attribuito dai suoi compagni per definire un fiore reciso, la bellezza di quel fiore, unico bocciolo tra i rami d'inverno, sciupata da mani pesanti, viscide e tozze.

Nessuno lo chiama Isaac. 

- Non è prudente intrattenersi qui. - Ci infiltriamo nello sgabuzzino allestito per la servitù; lui chiude la porta, facendomi accomodare sul suo materasso. - Gli altri dove sono? Naomi? - Ho cercato di rialzarmi, insistendo nel voler restare in piedi, ma sono scivolata, emettendo un ringhio al sentire le articolazioni delle ginocchia scricchiolare. Mi accuccio sul pagliericcio piatto e sgangherato, arrendendomi. 

- Lei è scappata in giardino, non voleva parlare con nessuno, nemmeno con suo fratello. Loro l'hanno inseguita. Non hanno capito perché. - Il primo pensiero va a Naomi: vorrei scappare anch'io fuori, ma poi mi dico di dovermi calmare, di non aizzare i ragazzi contro Schneider, visto che, probabilmente, da lei non riusciranno a cavare alcuna informazione. 

È orribile a dirsi, tuttavia, per evitare la tragedia, mi devo convertire necessariamente in fautrice di omertà. 

- Ma tu sì. - Lo interrompo, vedendo il suo capo far su e giù, ripetutamente. - Sac? Com'eri prima di tutto questo... Raccontami qualcosa, se hai voglia di ricordare. -

- Io... Beh... Io sono di Pest, vivevo in una villetta non troppo grande, ma neppure troppo piccola, con un giardino e un enorme castagno. Mio fratello si arrampicava fin sul ramo più alto, ma poi piangeva, perché non era più in grado di scendere. Piangeva fin quando non salivo su io a prenderlo; non voleva nessun altro. - Ride con gli occhi piangenti volti all'insù, verso il luogo in cui idealmente riposa Yonathan. - Cantavo per lui, sempre, per farlo addormentare e cantavo per lui quando me l'hanno portato via. - Si addenta ferocemente il labbro e quello sguardo, come il cielo stellato riflesso in acque torbide, sembra gorgogliare tra i macigni che gli ostruiscono le arterie. Nei ricordi smarrisce il respiro, annaspando e raspando per terra con le calzature logore, benché praticamente nuove per gli standard del lager. - Per me era un passatempo, ma lui, e mio padre anche, dicevano che un giorno sarei potuto diventare un  professionista e che mi sarei potuto esibire ovunque volessi, anche in America. Così mi esercitavo, cantavo " J'attendrai " e " Over the Rainbow ", ma la mia preferita... La mia preferita era: " E lucevan le stelle ", un'aria d'opera... Ne conosco molte, a memoria anche, sebbene non mi fossi praticamente mai cimentato in un'impresa simile prima di... - Adesso i muscoli sono molli, a riposo e lui pare meno magro di quanto immaginassi. Rüdiger deve averci tenuto a conservarlo in buono stato, deve averlo nutrito e trattato con cura. I lividi antiestetici sul suo viso sono quasi del tutto spariti. 

- La conosco anche io quell'aria, ma conoscevo a stento quella che ti ha proposto Schneider. Sei stato fortunato, perché lui sperava nella tua disfatta. Lo hai umiliato... Ecco perché ha tentato di farti sparire. - 

- Io non temo la morte. - Ribatte lui, con una tranquillità del tutto innaturale per un essere umano, che un attimo prima della fine mostra quasi sempre rimorso, anche nel caso di morte autoindotta. - Il colonnello afferma che io ho gli occhi della tigre ma, in verità, la tigre sei tu. - Lui siede accanto a me, poggiando le braccia sulle ginocchia e intrecciando le mani. 

- Ho sempre provato compassione per gli animali sottratti al loro habitat e rinchiusi negli zoo. Adesso, dietro il filo spinato, comprendo appieno il loro dolore. - Sospira, tirandosi indietro con la schiena, fino a toccare il muro. - Dicono che a Buchenwald ci sia uno zoo nei pressi del campo... Mi sembra l'ideale. - 

- Tutti noi siamo animali. Non lo siete soltanto voi e, di certo, non dovreste essere chiamati così per la vostra diversità. Nessun altro animale è crudele... Solamente l'uomo lo è. - 

- Il colonnello ha deciso di imbellettare la sua scimmia ammaestrata, oltre che la sua bella colomba. - Mi volto verso di lui, stringendo un pezzo di cartavetro tra le mani. Grugnisco, fissando il ruvido materasso e poi lui, che ha reclinato le sopracciglia in neri e folti archetti. - Guarda qua. - Si piega fin quasi a stendersi lateralmente, acchiappando una scatola bianca, come quella che mi era stata recapitata dal rosso in persona. Tira fuori uno smoking, di quelli classici, da festa. Glielo ha scelto di un grigio cadetto, in modo che possa fornire un contrasto sufficiente con gli occhi e i capelli, entrambi molto scuri. 

- Oh cielo. - Osservo le scarpe color carbone, lucide, la camicia bianca, la cravatta nera. Sembra un abito gessato... Il rosso deve aver preso le misure a colpo d'occhio e fatto confezionare il completo su misura. 

Deve amarlo questo Peter per aver curato ogni singolo dettaglio... 

Un amico, un fratello. 

In ogni caso, ama qualcuno, al punto di sacrificare parte di sè stesso. 

- A che scopo? Non lo brucerà subito dopo? - Domanda, retoricamente, accantonando la scatola. 

- Dovresti provarlo. - Lui spalanca gli occhi per la sorpresa, incassandosi nelle spalle. - Hai vergogna? Posso voltarmi dall'altra parte. - 

- Non vergogna di te... Sarebbe strano sentirsi liberi, dopo tanto tempo che vivo e vesto come uno schiavo. - Sospira di nuovo, stanco, umettandosi le labbra inaridite. Mi intenerisce e mi commuove trovarmi davanti ad un ragazzino così tristemente consapevole della sua situazione e del destino dei suoi fratelli, anche perché, tra le urla silenziose di quegli " schiavi ", vi sono quelle di suo padre, le sue. 

- Nemmeno io ho scelto questo vestito. Lo detesto. - Piego il capo, soffocata da un senso di repulsione, una sensazione che percepisco direttamente sulla pelle se penso alle mani di quell'uomo ammollate nella scollatura. 

- Sei incantevole... Per quanto possa contare. - Arrossisco nel vestito, con le gote di rosa e le imbarazzanti manifestazioni di un candore non ancora estinto. Dispiaciuto per la reazione che mi ha suscitato, indossa il completo, spogliandosi poco a poco davanti a me, senza vergogna.

Sono io a vergognarmene invece e distolgo lo sguardo, lasciandogli un briciolo di intimità. 

Dopo aver scorto la confezione vuota dei pantaloni e della camicia, decido di aiutarlo a metter su la giacca, affinché non si sciupi. 

- Non saprei aiutarti con la cravatta. - Lui, però, se la allaccia da solo, con estrema facilità, rivelando un passato da elegante giovinotto, a discapito dei calli ingialliti sulle mani da lavoratore.

Le scarpe, fortunosamente, calzano a pennello ed egli si alza sulle punte, sui talloni, sistemandosi i polsini. Dopo averne appurato la relativa comodità, si rivolge a me, scostandosi i ricci dalla fronte. 

- Sei proprio un figurino... Ti cade benissimo. - Evidenzia la sua linea slanciata, i fianchi asciutti, che ancora non assomigliano ad una trincea scavata dalla fame. 

Messi assieme, tralasciando la pelle nuda oscenamente esposta, sembreremmo due liceali che si avviano verso il party di fine anno, magari sperando di aggiudicarsi il titolo di " re e reginetta del ballo ".

- Canta qualcosa, Sac... Voglio ballare con te prima che quell'uomo mi porti via. - Tendo le mani, mani che mi afferrano gentilmente, come a volermi proteggere. 

Non dice nulla, ma segue la mia richiesta, intonando " Over che rainbow ", una delle canzoni che mi aveva citato e che io conosco, perfettamente anche, come tutti. 

- Vola via con me, al di là delle nuvole, dove non potremo più scorgere tutto questo orrore. - La sua voce vellutata mi arriva all'orecchio come il frusciare delle foglie, tanto delicato da non sembrar suono umano. 

Mi regge per i fianchi, facendomi ondeggiare e, al contempo, descrivendo, come riportato nella canzone, scene di libertà impensabili per il luogo in cui entrambi siamo rinchiusi.

Un ragazzo ebreo che canta in inglese, in un ripostiglio nella villa di un colonnello delle SS, situata a pochi chilometri da Birkenau, che fa danzare un'italiana legata ad un nobile tedesco, nonché ufficiale in due differenti corpi d'armata. 

Nessuno mai ha conosciuto combinazione più pericolosa, eppure balliamo, balliamo in un cielo blu rischiarato dalla pioggia, oltre la guerra che ci ha voluti nemici.

La pace perdura più a lungo quando non si è più soli.

Sac non ha le mani di un artista; sono dure, ispessite, ma tra le mie sono le mani che un amico dovrebbe avere. 

- Signorina, siete qui! Venite, il comandante Von Hebel è rincasato... Vorrà vedervi. - Ci rischiara uno sprazzo di luce. Ariel, sulla porta, segna il nostro distacco. 

- Non ho mai visto né sentito di un angelo accoppiato con un demonio. - Esordisce, prima di lasciarmi andare, piena di interrogativi inespressi. 

Mi accosto al muro, tenendo ben saldo il braccio di Ariel. 

- Fa un male cane - borbotto, avvertendo di nuovo quel dolore. 

- Vi fa male camminare? - 

- Ce la faccio, a piccoli passi. - Lui vorrebbe aiutarmi, tuttavia, sapendo di non poter reggere il mio peso, mi segue passo passo, con lo sguardo fisso sulle ginocchia malferme. 

- Sbaglio, o ti avevo esplicitamente proibito di... - Reiner, vedendomi comparire, quasi ci resta sul colpo. - Muoverti. - Conclude la frase con la voce di un automa, ricomponendosi solo dopo aver consultato tutte le varie possibilità. Chiede di Schneider, non è chiaro a chi ma, nel dubbio, si fa avanti Ariel al posto mio;  

- è tornato due ore fa, Herr Kommandant... - Si interrompe, seguendo il movimento delle dita del nazista sigillarsi contro i palmi, come se stesse stritolando il collo del suo avversario. Nel vederlo circondato di mobili ho temuto che potesse rivoltarli da un momento all'altro. Senza che mi dica nulla mi avvicino, suggerendo ad Ariel di dileguarsi. 

- Ti ha toccata - non mi accarezza e ne sento la mancanza, tanto che sono io a strusciarmi su di lui.

- No, ma mi ha ordinato di fare una cosa. Vuole incastrare un uomo... Mi ha chiesto di agganciarlo, di fargli da esca. Schneider si occuperà di sua moglie, l'unica a detta sua che potrebbe vuotare il sacco riguardo a certi affari che lo vedono coinvolto. Mi ricatta, non posso rifiutarmi. - Cerco i suoi occhi, un mare di latte con due isolotti azzurrini e piccoli, piccolissimi crateri neri. 
Il suo viso piatto e liscio, come quello di un manichino, viene tradito proprio da questi, rivoltosi, proiettati al momento in cui finalmente potrà metter mano sul rosso. 

- Meine Kleine - proprio mentre mi disperavo, lontana dal suo sguardo inasprito, si riaccende una fiammella in lui, qualcosa di caldo e confortevole, che ho imparato ad amare. Mi avvolgo attorno al suo braccio, schiacciandomi sul costato. Con le mani raggiungo la nuca e il petto e, nonostante la posizione alquanto scomoda e dolorosa, mi sento straordinariamente bene. - Non farti male... - Mi carezza le braccia, riportandole in basso, attraversato in volto da un'ombra di dispiacere.

- Non è colpa tua. Sarebbe successo comunque. - 

- Non ti getterò in pasto ad un porco per il suo diletto. - 

- Io sono tua, Reiner. Questa volta, però, la strada più facile, meno scoscesa, è quella indicata da lui. Non dovrò farci nulla, egli stesso me lo ha raccomandato. Io muoio se non gli assicuro un futuro. - La sua rabbia la sento contro il mio corpo; il tremore mi contagia, raggiungendo i piedi, che si dibattono contro il formicolio. 

A lui importa poco dei brividi; insiste sul discorso, impedendomi di retrocedere. 

- Io non vendo la mia donna per loro. Non esiste... Solo io posso vederti così... Solo io posso toccarti. - Mi tiene con una mano sotto la mandibola, risalendo con indice e medio, doviziosamente flessi, lungo il vestito, soffermandosi sull'apertura centrale. Fremo appena dove il morbido raso ha formato due dunette, imbarazzanti, a dimostrazione della mia fedeltà. 

Lui sorride compiaciuto ma senz'allegria e, soprattutto, senza staccare l'occhio da dove lo aveva posato. 

Non potrei biasimarlo... È alquanto preistorico estendere il concetto di " proprietà " ad una persona ma, se lo vedessi in mutande, costretto ad avvilupparsi ad una donna che non sono io, non reagirei certo in modo pacato. 

- Puoi appostarti nella stanza accanto. - Potrei ridurmi a levitare per abbracciarlo normalmente; non ci arrivo, nemmeno se mi reggo sulle unghie dei piedi. - Se senti qualcosa di strano, intervieni. Lo sai che le urla mie si sentono da chilometri di distanza. -

- Sei proprio ostinata. Non ti smuove nulla. - 

- Nulla. - Ripeto, ignorando i sudori freddi e i brividi lungo la schiena. 

Restiamo soli per ore ed ore, poiché Schneider non rincasa neppure per cena. 

Reiner, lo traggo dalla sua espressione e dal mezzo sorriso di scherno, sta pensando una cosa soltanto: " codardo ". 

L'abito è stato accuratamente ripiegato ma, al suo posto, non ho niente, niente se non l'unico indumento che mi era stato concesso di tenere. 

Fa molto caldo, un caldo insolito per il clima polacco. Stesa di pancia sul materasso, sfoglio le pagine del suo libro, carezzata dall'alito fresco della sera. Non avverto dolori perché ho mangiato poco; il mio stomaco non avrebbe retto oltre, tant'è che una fetta di pane imburrata è tutto ciò che sono riuscita a trangugiare. 

Una ventata frizzantina mi volta la pagina prima del tempo ed io agito le gambe, come le lancette di un orologio, udendo subito dopo un mugugno contrariato, oltre che il cigolio delle ante aperte. 

- Non mi muovo più. - La sua mano scorre sul fianco, tracciando forme invisibili sulla pelle nuda. - Mi leggeresti tu un passo? L'ho perso per strada il francese; per di più, vorrei tanto sentire come suona pronunciato da te. - Non lo vedo, ma lui sorride. So che sorride mentre mi bacia la spalla e prende il libro tra le mani, soffermandosi di proposito e più del dovuto sul décolleté appiattito, nemmeno troppo, sul materasso. 

Ora lo vedo e sì, sta sorridendo.

È il centro del mondo. Sa di esserlo. 

Sceglie " Hymne à la Beauté ", " Inno alla bellezza " gettando appena lo sguardo alla pagina, recitandone i versi a memoria: 

Viens-tu du ciel profond ou sors-tu de l'abîme,
   O Beauté? ton regardinfernal et divin,
   Verse confusément le bienfait et le crime,
   Et l'on peut pour cela te comparer au vin. " 

Appoggio il viso sul palmo, assorta, ritrovando nella sua voce il giusto connubio tra la dolcezza romantica e la musicalità poetica delle due lingue. 

Ciò che mi sembrava incompatibile, non ha niente della macchinosità che mi ero figurata. 

L'accento, perfino più marcato che in italiano, è forse ciò che rende gradevole alle mie orecchie un suono che, altrimenti, avrei trovato fin troppo melenso.

- Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall'abisso, o Bellezza? Il tuo sguardo, infernale e divino, versa insieme confusi il beneficio e il delitto, e per questo si può paragonarti al vino. - Avvampo senza poterlo prevedere e senza poterlo nascondere, colta sul fatto dagli occhi che, per tutto il tempo, sono stati fissi su di me. 

Lascia cadere il volume, saltando qualche passo e continuando: 

" De Satan ou de Dieuqu'importe? Ange ou Sirène,
   Qu'importe, si tu rends, — fée aux yeux de velours,
   Rythmeparfumlueur, ô mon unique reine! —
   L'univers moins hideux et les instants moins lourds? " 

- Di Satana o di Dio, che importa? Angelo o sirena, che importa se tu rendi, fata dagli occhi di velluto, ritmo, profumo, raggio, o mia unica regina! l'universo meno odioso e gli istanti meno grevi? - 

Si riferisce ad una concezione astratta, al paradiso artificiale nel quale tutti gli uomini si rifugiano. La bellezza rende sensibile il comandante, vulnerabile ma, proprio per questo, non può privarsene. Reiner ne addenta le labbra; esse sono un miele riservato a pochi, un potente veleno che avvolge in una spirale di perdizione. Molti, tra i più forti e i più virtuosi, sono caduti sotto il taglio della sua spada e molti ancora ne cadranno.

Ma Reiner bacia quelle labbra, che sono anche le mie, annegando la razionalità in una favola idillica. 

Respiro la sua pelle, l'odore di buono che ci avvolge entrambi; le sue mani vagano sulla pelle, morbida come la buccia di pesca, cancellando il pensiero di un tocco estraneo, che scivola lungo i fianchi e intraprende sentieri che nessuno dovrebbe percorrere. 

Rotoliamo tra le lenzuola, incastrandoci come pezzi di puzzle in un garbuglio di stoffa e corpi, avvinghiati l'uno all'altra fino al comparire dell'aurora.

- Non allenarti oggi. I giganti russi sono lontani. - Biascico, avvertendo un fruscio di coperte.

- Mangio troppo. - Sbotta, toccandosi la pancia, come se al posto della tartaruga addominale vi fosse una curva burrosa. - Chiuderò a chiave questa volta, non temere. - 

- Vengo con te. Non ho più sonno. - Mi aggrappo con forza al suo braccio, obbligandolo a darmi ascolto. - Passami la tua camicia. - Me la infilo, alzandomi e constatando che l'orlo mi copra abbondantemente anche le gambe, superando in lunghezza ( e di molto ) il vestito di ieri. 

È un'americanata in fondo, ma l'ho sempre trovato tremendamente tenero ed ho ora che mi ci posso crogiolare, approfitto dell'occasione per rubargli qualche altro momento, oltre che la camicia. 

- Sei divertente, con quelle maniche arrotolate al gomito. - 

- Tu esci in mutande? - 

- Beh, c'è sempre la canottiera. - Ha il tono scanzonato di un ragazzino e gli occhi furbi; mi prende sotto braccio, schioccandomi un bacio sulla guancia e sollevandomi da terra. - Niente " ma ". Non ti saresti nemmeno dovuta alzare dal letto. - 

Poco prima di uscire, mi dirigo in cucina, ritrovandovi pressoché tutti. Tutti tranne Isaac e Ariel. 

- Come stai? - Samuele passa il catino d'acqua alla sorella, probabilmente incaricata di lavare i pavimenti. Federico li tiene d'occhio, raccogliendo con una paletta ciò che resta di un servizio in porcellana. - Attento. Finirai per tagliarti se ti distrai. Cos'è successo... Non l'avrà fatto cadere qualcuno di voi... - 

- Il colonnello è rientrato a notte fonda; ha tirato giù la mensola, imprecava, delirava. Ha trovato Ariel che finiva di lucidare l'argenteria; avrebbe dovuto farlo stamattina, ma voleva risparmiarsi quel lavoro per dedicarsi ad altre mansioni. Credo lo abbia trascinato fuori e preso a calci... È rientrato, camminando sulle sue gambe, e si è gettato sul materasso. Non è riuscito a tirarsi su. Naomi sostiene che non abbia niente di rotto... Se la caverà. - Schiaccio i denti gli uni sugli altri, sprangando la lingua contratta in una trappola eburnea. Il grido muore tra quelle sbarre, ma gli occhi di fuoco tremano, pizzicando privi di lacrime. 

Reiner mi stringe la spalla, indagando per conto suo. 

- E Isaac? - 

- Non temete, signorina, non gli è toccata la stessa sorte. Si è offerto di vegliare sul cuoco. - Risponde Federico questa volta, ribaltando i cocci all'interno della paletta e gettandoli nell'immondizia. - Lei sta meglio. - Continua, guardando la cugina, pallida, in piedi in un angolino e col pesante secchiello tra le mani. - Tutti noi vi ringraziamo per averci salvato. - Forse per paura di Reiner e del suo sguardo fisso, ma i tre, unanimemente, tacciono il dolore, la rabbia e i singhiozzi, mostrando riconoscenza. 

- Non dovete. Dovete disperdervi, invece: Schneider detesta vedere gruppetti, specialmente se con legami di parentela. - Retrocedo meccanicamente, affrettando il passo verso la stanza-rispostiglio. - Maledetto psicopatico... - 

- Non dovresti. - Il comandante mi blocca a metà strada, inchiodandomi al muro. - Lascia che se ne occupino loro. - 

- Voglio vederlo, solo questo. Giuro che non andrò a cercare Rüdiger. Non farò niente. - Mi lascia andare, rifiutandosi, tuttavia, di aspettare fuori. 

- Ariel! - È sveglio, a discapito di Isaac che si è addormentato e che giace ripiegato attorno alle sue gambe magre. Ariel deve essersi riparato la testa; il suo viso è bianchiccio, a contrario del costato e della pancia, su cui spiccano tante macchie violacee. Mi vede e, dopo essersi riparato il viso dalla luce penetrante, sorride debolmente; le labbra irsute tese sotto il palmo della mano mi fanno pensare che, nonostante tutto, abbia fatto bene a venir qui a trovarlo. - Ho saputo da poco... Cosa ti senti, dove ti fa più male? Ti porto qualcosa? Vedo se riesco a trovare delle medicine... - 

- Ci hanno già pensato gli altri, non agitatevi per me. Sopravviverò anche a questo. - Prendo la coperta, arrotolata alle sue caviglie e faccio per portargliela vicina; - non svegliatelo, vi prego. Lui ha più bisogno di me. - Ariel trema leggermente, ma Isaac non fa una piega. Un sonno profondo, come forse non gli capita da mesi. Lo lascio dormire, andando a recuperare la coperta dal giaciglio del riccio.

- Tieni questa. - Gliela appoggio sulle spalle, chiedendo se abbia bisogno di acqua, cibo, pur sapendo che gli farò portare comunque qualcosa da mettere sotto i denti, anche in caso di rifiuto. 

Reiner se ne sta in disparte, osservando con boria il ragazzino che, stranamente, pare dormire sereno, spensierato. " Batte la fiacca " è ciò che mi comunica il suo sguardo, un misto di odio, noia e viscerale disgusto. 

Di Ariel non dice nulla, poiché non gli dà alcun pensiero: colui che mi ha salvata ha diritto di rivolgermi lo sguardo, se ho esigenza di stabilire un contatto visivo. 

Il giovane ungherese è una presenza innecessaria che non merita il minimo riguardo, per cui, prima che possa coprire anche lui, il comandante mi afferra il polso, tirandomi via. 

- Non c'è bisogno che gli rimbocchi le coperte. Vive anche senza. - 

" Sarà l'inizio di una lunga, lunghissima giornata. " 

Di sotto è già una caciara; mancano trenta minuti all'ora X - il momento in cui Rüdiger mi esporrà come un trofeo di caccia e mi presenterà al capitano Hoffmann - e già il via vai di camerieri, tedeschi, scesi direttamente dall'ultimo treno ( un vero treno ) proveniente da Berlino, inizia a farsi sentire. 

Da Schneider non mi aspettavo certo un tavolino ricoperto di nylon con degli stuzzichini, ma non avrei mai immaginato questo fasto, un autentico sfoggio di lusso e prestigio. Ecco a cosa serviva l'argenteria... 

Ora capisco perché Ariel si fosse messo all'opera la sera per il mattino seguente. 

Sembra il diciottesimo di Hoffmann, piuttosto che una promozione " lavorativa ". 

L'enorme quantità di stoviglie buone è stata " rispolverata " e popola ora la tavola imbandita. A quanto ho capito, non si dovrebbe neppure trattare di una vera e propria cena, bensì di un aperitivo. 

Il cuoco ebreo è stato malamente accantonato, sebbene fosse indubbiamente più talentuoso dei tre, anche questi tedeschi, che il rosso è riuscito ad ingaggiare.

Non ho idea di come si possa mantenere il segreto, con tutta questa gente estranea, civili, che traffica nei pressi di Auschwitz-Birkenau. 

Da dove sono passati per non vedere nulla? Forse per quella strada laterale che il rosso aveva reso inaccessibile per me e per Friederick il giorno in cui arrivammo... 

Dio mio, Schneider aveva calcolato tutto, in ogni minimo dettaglio. Ricollego gli ultimi avvenimenti, dando vita ad un quadro terrificante... 

Le scorte di gas erano esaurite e quelle nuove sarebbero arrivate tardi. I catasti all'interno delle fosse avrebbero bruciato per tutta la notte; non solo quelle persone avrebbero visto il fumo, ma ne avrebbero anche sentito l'odore e il sospetto avrebbe potuto portarli alla verità. Rüdiger ha ottimizzato i tempi; non c'è più alcuna traccia di ciò che è avvenuto ieri; il campo è tutto sommato lontano e, sia dalla ferrovia che dalla villa, non pare nulla più che un normale fabbricato.

Persone arse vive perché Hoffmann potesse avere la sua dannata festa. 

Il cuscino soffoca le mie urla: non possono essere udite al piano di sotto, ma Reiner si precipita da me, ancora mezzo nudo e con il completo sotto braccio. 

- Non credevo che un ventre umano potesse partorire simili mostruosità. Se Schneider capitasse all'inferno il diavolo stesso tremerebbe di fronte alla sua malvagità. Li ha fatti morire, uccidendoli in quel modo orribile, per rendere possibile tutto questo... Una cazzata... - Lui mi raggiunge sul letto, accarezzandomi la schiena. - Lo so che per te possono anche crepare tutti, ma io... - 

- Non te ne capaciti. - Finisce lui al posto mio, inginocchiandosi sul materasso. - Finirai per distruggerti, lo sai. - 

- Lo hai già detto questo. - Sbotto, guardandolo male. - Scusami... Sono solo nervosa. - 

- Tranquilla - mi dice, con un tono di voce a cui si crederebbe a prescindere da qualsiasi cosa. - Andrà tutto per il meglio, perché io farò in modo che non ti capiti niente. - 

Ci agghindiamo al meglio, io per lui e lui per me. Scivolo nel vestito, odiandolo un po' meno nel vedere quale effetto gli faccia ogni volta. Mi ha comprato pure le scarpe Schneider, anch'esse nere e con un tacco alto, considerata l'epoca in cui mi trovo. Acquisto un paio di centimetri, anche se lui è sempre gigantesco. 

Niente frac per il comandante; lo possiede, ma decide di non indossarlo, ritenendolo sprecato per l'occasione. 

- Inizio ad incamminarmi... Zoppicando. Piano e lontano mi auguro. Lui mi starà aspettando al margine delle scale. - 

- Scendo tra dieci minuti. - Avvisa, baciandomi la bocca, rosa, senza alcun artificio. Viso pulito, acqua e sapone, non un tocco di fard o di cipria. 

Mi separo il più velocemente possibile, per evitare di trattenermi oltre, sgusciando fuori dalla camera come una ladra. Rüdiger è appoggiato alla parete opposta; una presenza spettrale in un abito chiaro, che non gli si addice per nulla.

La giacca, di un azzurrino chiaro, ha i bottoni in argento e lascia intravedere il gilet turchese, la camicia bianca stretta in modo da esaltare al meglio il suo fisico da atleta. Porta un papillon del medesimo colore, pantaloni di quello strano celeste e lucide francesine bianche. 

Mi scruta con superficialità, comunicandomi che senza la sua vestaglia non varrei assolutamente niente. 

Mi tira per un braccio, facendomi sbattere i piedi contro la punta delle sue scarpe. 

- Hai addosso il suo odore. Sai di quel disgustoso profumo femmineo. - Una smorfia di ribrezzo da parte sua, segna l'insorgere di un sorrisetto di sfida da parte mia. 

- Sempre meglio della tua acqua di colonia... È nuova? - Mi spinge in avanti, per prendermi sotto braccio una volta imboccata la rampa di scale. 

Non è un'entrata trionfale: le spalline del vestito ondeggiano di qua e di là; il bordo lo devo trattenere con una mano per non farlo alzare. Rüdiger mi aveva scostato i capelli affinché non potessi nascondere il viso, ed ora tutti mi possono guardare; Hoffmann ride nel calice di champagne, adocchiando un uomo che, discretamente, si era approssimato alla base della ringhiera, tentando di sbirciare sotto la gonna. 

Fingevo grazia ma, quando me sono accorta, ho serrato le gambe e l'ho guardato con sprezzo, biasimandolo. 

- Buona. Riserva il tuo temperamento sovversivo per la camera da letto. - Mi accorgo di aver confuso i gradi solo dopo aver visto alcuni individui, che avevo classificato come " soldati semplici ", ostentarsi in pregiati smoking, sicuramente non riciclati. 

Ma allora Friederick, Zeno... Cosa ci facevano in mezzo a loro? Schneider sapeva che non sarei mai venuta senza i miei amici? Possibile che li accettasse in casa sua solo per farmi restare? 

Mi pento di aver commesso un errore così grossolano... Persino Sauer doveva avere uno straccio di grado! 

E Schneider conosceva alcuni di loro meglio di quanto non desse a vedere. 

La villa non è spaventosamente affollata; considerando tutto, deve essere una cerimonia " intima ". 

Le donne conversano tra loro, sfoggiando abiti da sera, lunghi e raffinati; cercavano qualcos'altro su cui spettegolare, si guardavano intorno, seguendo con lo sguardo i fidanzati ( e quelli delle altre ) fin quando non hanno avvistato me: io gli do da parlare, essendo diversa da loro, chiaramente straniera, vestita come una cabarettista. 

Il colonnello mi porta via, destando ancor più il loro sospetto, introducendomi in un gruppetto di soli uomini.  

Quando mi viene presentato il capitano Hoffmann, non riesco ad evitare di stropicciare gli occhi.

Sono due gocce d'acqua. 

È giovane, molto più di quanto credessi e sono sicura che se Peter avesse dieci anni di più, avrebbe in tutto e per tutto questo aspetto. 

Gli altri tre ridacchiano, divertiti dalla mia reazione. 

- Verzeihen Sie mir, Herr Hoffmann... Ist, dass ihr identisch seid. / Perdonatemi, Herr Hoffmann... È che siete identici. - Lui, vedendomi arrossire, sorride. 

Rüdiger trova una scusa per piantarmi, scalpita per tornare dal migliore amico ma, nella sua testa, già si frega le mani, autocomplimentandosi per il colpaccio. 

Anche i precedenti interlocutori del capitano spariscono, non prima di avergli lanciato un'ultima occhiata allusiva. 

- Pare che vogliano lasciarci soli - appena dischiudo la bocca, stupita, mi accorgo del suo interesse: segue l'andamento delle mie labbra, studia la mia espressione, il modo in cui le lunghe ciglia si calano sulla palpebra in un momento di imbarazzo. - Mastico la vostra lingua. Trovo che abbia un suono... sensuale. Bevete qualcosa, Fräulein? - 

- Vi ringrazio per l'offerta, tuttavia, mi vedo costretta a declinare; vedete, io non bevo, non sopporto il sapore dell'alcol. Ora, se volete scusarmi... - 

Se avesse sentito, Schneider mi avrebbe uccisa, ma l'arte della seduzione è un sentiero impervio e misterioso; più stuzzicherò la sua fantasia, più lui si sentirà appagato nell'avermi vicina. 

Non avrebbe avuto senso dedicarmi unicamente a lui. 

Dopo qualche passo, mi volto di nuovo verso il capitano, regalandogli un'occhiata da gatta, calda e maliziosa, come se mi stessi rivolgendo al comandante. 

Un brivido di freddo mi percorre il midollo: ho i suoi occhi addosso; rigira il flûte tra le dita, la posa stoica tradisce un tremito di eccitazione. 

Ritorno in fretta nel punto in cui sono scesa, tendendomi verso l'oculo sul soffitto, scoperto, che lascia intravedere il piano di sopra. 

Schneider è sparito insieme ad Hoffmann; non restano che le donne a tenermi compagnia, con le loro frecciatine e i commenti al mio abito. 

Il grammofono propone " An der schönen blauen Donau ", brano che mi accompagna fino alla comparsa di Reiner. 

" Parsifal che discende dal Valhalla ", non sono la sola a pensarlo. Tra gli uomini presenti, è senza alcun dubbio il più bello. Nessuno potrebbe competergli in bellezza, se non quel ragazzino, che possiede tutt'altro fascino. 

La fioca illuminazione, tetra, crea contrasti di luce ed ombra quasi sovrannaturali, che conferiscono alla villa, sperduta, nel mezzo di una sorta di " Terra di Nessuno " un alone mistico, occulto. Sul pavimento, proprio sotto l'oculo, risplende il sole nero di Thule, un simbolo runico costituito da un centro dal quale dipartono raggi distorti. 

Il comandante mi viene incontro, suscitando scalpore. 

- Allora? - 

- È molto più giovane e più perverso di quanto immaginassi. Non ha avuto un briciolo di ritegno... Forse un uomo attempato ci avrebbe provato meno spudoratamente. - Non mi faccio vedere mentre gli sfioro le dita, continuando a guardarlo negli occhi. 

- Sono qui per questo. Le feste di Schneider sono famose per sfarzo, grandi quantità di alcol e " intrattenimento ". Secondo te, a cosa servono tutte quelle camere? - 

Dopo Strauss, il grammofono cade in disuso. 

" È il momento di Isaac " deduco, avventurandomi nella grande sala gremita, semibuia. 

Ritrovo Schneider e Peter, stretti in un abbraccio fraterno: sorridono, scambiandosi qualche battuta, entrambi con il bicchiere, pieno, alla mano. Il biondo indossa la divisa scura, con l'aggiunta di una mostrina a dimostrazione dell'avanzamento di grado. Dovrebbe essere capitano adesso, come lo zio. 

Lo champagne inizia a fare effetto; i presenti sono completamente euforici, tanto che a veder Rüdiger balzare sul tavolo come uno stambecco sembra la cosa più normale al mondo. Il suo discorso verte sull'amicizia che li ha uniti, fin da piccoli, che affonda le radici in qualcosa che lui stesso definisce " Liebe ", amore. Ciò che ne segue, è un'esaltazione a sproposito della " razza " ariana, un elogio al Führer che ha permesso loro di raggiungere vette allora impensabili. Una propaganda esoterica, che si scaglia non solo contro i popoli semitici, ma anche contro le classi nobiliari, colpevoli di essersi arricchite a scapito del popolo oppresso. 

" Ti odio " parole non che non vengono dette, un segreto di pubblico dominio tra il duca e il ricco borghese. 

Schneider si compiace del consenso ottenuto e alza il calice, seguito da Peter e da tutti gli invitati, ad eccezione mia e di Reiner, gli unici a non avere il bicchiere per le mani. Si lascia cadere, contando di venir preso dall'amico; i due ruzzolano per terra, causando una pioggia di cristalli. Scoppiano a ridere nel divertimento generale, ricadendo brilli e spensierati sul pavimento. 

Fa impressione vederli così... Sembrano leoncini, che rotolano e si azzuffano per gioco, per gusto di farlo. 

- È quello? - Guardo di sottecchi l'uomo a cui ha accennato, annuendo. - Se allunga le mani, glielo restituisco a tocchetti. - Mi distraggo da lui per un secondo, dopo aver scorto uno smoking grigio oltre il muro umano, e lo ritrovo con un cipiglio terrificante, l'espressione agguerrita. 

Accanto al capitano, la moglie; una donna con i polpacci massicci, il viso squadrato. Non è magra, ma proporzionata... Può piacere. 

L'idea di ricevere attenzioni da un uomo sposato mi ripugna terribilmente. 

A ridosso della parete sgombra, intervallata dalle enormi finestre, si posizionano in circolo alcuni uomini, musicisti. Tra i vari strumenti, il sax mi fa credere di star sognando ad occhi aperti. Insomma, jazz? Ma non è musica considerata " negroide ", severamente proibita? Nessuno di loro sembra tedesco, non sono magri e non appaiono troppo malmessi, tuttavia, qualcosa nei loro volti mi fa sospettare che anche loro siano prigionieri " riabilitati ". 

Lo spazio nel mezzo resta vuoto; spetta ad Isaac, intrappolato tra due ragazze curiose. Sono giovani, avranno qualche anno più di lui e ne sono attratte. Nessuno sa che lui è ebreo; lo toccano, gli offrono da bere, fanno di tutto per prevalere l'una sull'altra e aggiudicarsi il bel forestiero. Forse sono libere, non temono l'ira di nessuno. 

Deve fuggire, divincolarsi, raggiunto il suo posto è praticamente spossato; si sistema i capelli; mi vede. 

Le labbra si piegano contemporaneamente e Reiner ne è geloso. Mi trascina indietro, intimidendolo con un'occhiata gelida. Il poverino è raggelato; deve cantare senza microfono e farsi sentire in una sala degna degli appartamenti del Führer. 

- Avrei potuto incoraggiarlo. - 

- Non voglio che tu gli dia confidenza e, soprattutto, non voglio che se ne prenda. - Drizzo le orecchie, sbuffando, impaziente di sapere cosa dovrà cantare. Gli era stata recapitata una lista, però non gli chiesi di mostrarmela. Preferivo restasse segreto. 

Pendono dalle sue labbra; non ha mai avuto un pubblico così. Lui è ciò che più disprezzano, eppure non ne sono a conoscenza. Applaudono anzitempo, se possibile, mettendogli ancora più ansia. 

Incitato dai suoi nemici, canta, in inglese e loro ne sono bizzarramente entusiasti. 

Si sparpagliano, creando un caos infernale, alla ricerca di qualcuno con cui ballare. 

Sono così scioccata che non riesco neppure a chiudere la bocca. 

Schneider compare alle mie spalle per farmi ballare; Reiner viene assalito e, solo dopo un mio cenno d'assenso, decide di scegliersi una compagna di ballo tra quelle che gli si erano parate davanti. 

- " We will meet again " - cito il nome del brano, appoggiando le mani sulle sue spalle, contrariata. Lui fa scivolare le mani sui fianchi scoperti, voltandosi per sogghignare in vista dello sguardo animale di Reiner. - Ho visto il sassofono... Non dovrebbe essere considerata musica degenerata lo swing? O il jazz? - 

- Non se è un ebreo a cantare e polacchi a suonare. - Affondo le unghie nella giacca, sperando di fargliele sentire; questa si stropiccia, avverte pressione, ma mi scrolla via, facendo riecheggiare una risata lugubre quanto l'aria che si respira nella villa. - Ho visto che ci sei riuscita... Ti sta guardando. - Mi spinge indietro, affidandomi al capitano. 

" Reiner... "

Ha gli stessi occhi di Peter, più scuri di quelli che, adesso, controllano ogni sua mossa. La ragazza tra le sue braccia è contenta, non vuole sapere cosa stia guardando. 

Le mani di Ernst non mi stringono, mi palpeggiano ed io non posso neppure mollargli un calcio nei cosiddetti. Lo trascino dietro un’altra coppia, in modo che Reiner non veda ciò che sta facendo. 

- Capitano, vostra moglie... - 

- Siete la creatura più incantevole su cui mi sia capitato di posare lo sguardo stasera. Intendo conoscervi meglio. - Mi ritraggo nel vestito, la spalla vuota e la bretella scoscesa mi fanno morire di vergogna. La rialzo in fretta, sdrammatizzando con una risatina falsissima. 

Mi giro tutt’intorno, attirata da un coro di voci. 

Sapevo che questa canzone presentava un coro, ma non sapevo avrebbero cantato loro, in inglese per di più! 

È un brano romantico, ma l’uomo a cui la canzone allude è un soldato, un soldato britannico che parte per la guerra e che, probabilmente, non tornerà più. Un inglese che combatte contro i tedeschi. 

E loro cantano, cantano e ballano... 

La voce di Isaac si è affievolita, per lo stupore, ma nessuno se n’è accorto. 

A sentire la canzone successiva, " Sing sing sing  ", mi si spalancano le palpebre; cerco di sciogliermi, sono un pezzo di legno e questo è fin troppo evidente. 

Mi agito, in una maniera troppo moderna che non passa inosservata. Il mio modo di danzare piace però, specialmente agli uomini, poco avvezzi a veder muoversi una donna come se facesse volteggiare un hula-hoop ( che, tra l’altro, ancora non è stato inventato ). 

Il capitano pare instancabile; devo piazzar su delle scuse per allontanarmi da lui. 

Passo accanto ad un uomo, che puzza come una distilleria. L’ambiente è caldo e denso, i vestiti si attaccano addosso; devo sventagliarmi il viso per non sentirmi soffocare. 

Dal lungo tavolo da buffet acchiappo una tartelletta alle fragole per far fronte all’urgente bisogno di zuccheri.

C’è qualcosa di strano e di inquietante; addento il pasticcino, sporcandomi la punta del naso di panna. Vedo qualcuno squadrarmi, ma prima che questo si avvicini, Reiner si frappone, allontanandomi. 

- Ma che fai? - Mi chiede, ripulendomi col pollice. 

- Avevo un po’ di fame. Hoffmann non si schiodava, non so nemmeno per quanto tempo ci ho ballato. Dove sono gli altri? -

- A farsi fottere. Prima di incontrare te, mi sarei molto divertito. - Mi domando se abbia bevuto anche lui per dirmi una cosa del genere... 

Lo spingo contro la parete in ombra, mettendomi comoda sul suo petto. 

Lo schiocco fastidioso di bacio, poco distante, ci fa voltare entrambi; 

- guarda che roba - i piccioncini in questione non si limitano ad un bacio, ma si avvinghiano come fossero in fregola, privi di ogni inibizione. 

- Ah, è disgustoso! - Esclamo, coprendomi infantilmente gli occhi. - Mi serve un po’ d’aria... - 

Mi avvio verso il giardino, trovandovi le peggiori cose, oscenità indicibili nascoste dall’oscurità e dalla florida vegetazione. Passeggio, fingendo di non sentire i richiami primitivi di una danza orgiastica, il rumore dei corpi che fregano, il cigolio metallico delle cinghie sbottonate. Sono ubriachi o, almeno, mi auguro che lo siano. Evito quei sentieri rumorosi, in cui i gemiti e le urla rimbombano nella notte senza stelle. 

Una zona appartata, finalmente! Siedo sulla fredda terra, tra le commeline in fiore. 

- Hanno il colore dei tuoi occhi. - Sfioro i petali con le mani, picchiettando sul terreno e invitandolo a sedersi. - Mi ripugna. Non riesco neppure a guardarlo. -

- Non importa. - Porta la mano sulla mia, ripercorrendo il tratto di braccio su cui spicca la benda bianca. 

Respiro aria pulita, non contaminata da alcol, fumo e umori vari. 

Strizzo gli occhi, seccata, ritrovando Hoffmann più alticcio di come lo avessi lasciato. 

- Siete qui, Fräulein! Vi ho cercata dappertutto... Oh, siete in compagnia! Poco male, non mi dispiace condividere... - 

Anche i mostri, a volte, hanno bisogno di una pausa. Altre volte, invece, hanno bisogno di saltar fuori dall’armadio e convincere gli uomini che loro non siano uno stramaledetto sogno. 

Loro esistono, ma ci si accorge della loro presenza solamente quand’è troppo tardi.

 

 

  
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